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Ernesto Ragazzoni
Buchi nella sabbia e pagine invisibili

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da L'ultima Dea

 

 

I.

 

Il castello che il conte Orazio Yorghi Pescara abitava da quarant'anni era una di quelle costruzioni, indecifrabile miscuglio di grandezza e di melanconia, che hanno per tanto tempo spaventate le età di mezzo, e che sono poi vissute nelle fantasie di Hoffmann e di Edgardo Poe.

Non c'è in tutto l'Appennino un maniero piú ricco di leggende e piú vecchio d'anni della solitaria dimora dei Pescara. Ivi da immemorabile tempo quella famiglia era tenuta per un razza di visionarii; ed in fatti in molte particolarità strane e maravigliose, nel carattere della casa feudale, negli affreschi delle grandi sale, nelle tappezzerie delle camere e piú specialmente nella galleria dei vecchi quadri, nella fisonomia della biblioteca e nella natura tutta speciale dei suoi oggetti; in tutto questo v'era e v'è di che giustificare tale credenza.

Le camere erano grandissime ed assai alte; le finestre, lunghe, strette si trovavano a tal distanza dai bruni pavimenti di quercia ch'era assolutamente impossibile l'arrivarvi; le decorazioni erano ricche, ma cadenti, incomode, antiche; numerosi trofei araldici d'ogni forma e d'ogni età si inseguivano nei corridoi tra i severi ritratti degli antenati; ed un'atmosfera di stanchezza, un'aria di melanconia aspra, profonda, incurabile si stendeva su tutto e in tutto penetrava.

Il conte Orazio non aveva mai lasciato il suo castello dalla nascita; era sempre vissuto – una strana immobilità ed una cupa inazione parevano averlo paralizzato – e l'intiera sua vita era intimamente legata a quella casa solitaria e alla distesa di paese singolarmente lugubre che l'attorniava.

egli era cresciuto; in quelle torri tutte fantastiche, in quei severi dominii del pensiero e dell'erudizione monastica egli si era guardato intorno con occhio spaventato e ardente, ed aveva logorato la sua infanzia sui libri e consumata la sua giovinezza nei sogni.

Appartenente a una famiglia che da immemorabile tempo si era distinta per una sensibilità particolare di temperamento, il conte Orazio aveva delle idee singolari. La realtà delle umane cose non lo impressionava che a guisa di visioni, niente piú che visioni, mentre pel contrario le folli idee del paese dei sogni, le fantasime del soprannaturale e dello spiritismo, formavano, non dirò l'ordinario alimento dei giorni suoi, ma quello positivo ed unico della sua esistenza.

Gli uomini lo avevano chiamato pazzo, ma la scienza non ci ha ancora appreso se la follia sia o non sia il sublime della intelligenza, e se quasi tutto ciò che è la gloria, e se quasi tutto ciò che è il genio, non venga da una malattia del pensiero, da una febbre dello spirito elevato al di sopra dell'intelletto generale.

Coloro che sognano desti, hanno la conoscenza di mille cose che sfuggono a coloro che non sognano che addormentati. Nei loro indefiniti miraggi essi afferrano qualche visione dell'eternità, e rabbrividiscono, svegliandosi, nel pensare di essere stati per un istante sulla porta del gran secreto.

Il conte Orazio era uno di questi sognatori; un uomo fantastico che viveva tra due mondi, una mente profonda e potente, un'anima singolare, riflessa da due occhi ardenti e inquieti.

 

 

II.

 

Nel castello dei Pescara una fanciulla cresceva accanto al conte Orazio e lo chiamava: padre.

Essa aveva quindici anni e aveva nome Maria, nome dolcissimo che tratto tratto risuonava nel mistero di tutte quelle antichità come un soffio di gioventú e di gioia.

I nomi hanno una musica.

Tra la folla degli epiteti di saggezza e di beltà, di nomi tolti ai tempi antichi e moderni, al nostro paese e ai paesi stranieri, all'Oriente e al Nord; tra i mille nomi di fiori, di colori e di virtù che noi diamo alle nostre donne nessuno è piú soave che quello di Maria.

Maria è un nome sacro: Victor Hugo lo ha chiamato un nom qui prie.

Quella parola di cinque lettere, in cui le vocali sono fuse cosí armoniosamente colle consonanti, in cui la voce scivola via cosí mollemente, in cui il lato, leggero come un soffio, ha qualche cosa del lamento e della canzone, rende un suono cosí dolce, un'articolazione cosí poeticamente accordata che scende dentro l'anima e la scuote come un tocco di violoncello.

Una donna bella non è perfetta se non possiede anche un bel nome.

Il nome compie la persona, il nome un alito di vita a ciò che la bellezza ha scolpito, aggiunge qualche cosa alla leggiadria, dona un fascino di piú allo splendore miracoloso dell'occhio, un tepore piú soave all'incarnato delle guance e un profumo piú inebriante alla morbidezza dei capelli.

Il nome ha un'idea racchiusa in sé, possiede un significato. Ci sono nomi che la storia ha maledetto, e che, simboli di infamia, di perfidia e di tradimento, piú nessuno rinnova e che resteranno nelle pagine dei secoli passati, solitarii come tristi monumenti; ma ci sono pure nomi buoni, nomi cari, nomi santi, che sollevati e cinti di luce dai poeti e dalle leggende suonano dolci al nostro orecchio, e noi godiamo di poter chiamare con quelli le persone che amiamo.

Shakespeare ha resi eterni i nomi di Cordelia e di Giulietta, Dante quello di Beatrice, Goethe quello di Margherita e Petrarca quello di Laura; l'intera storia dell'umanità ha immortalato il nome di Maria. Il nome della madre del Dio uomo è sacro.

La Bibbia gli ha eretto un piedestallo, e le lodi cristiane lo chiamano poeticamente: Arca della pace, Porta del cielo, Stella mattutina. Alessandro Manzoni gli diede un'aureola.

Il nome di Maria si traduce in tutte le lingue; in Arabo diventa Myriam. In ogni paese egli ha assunto una trasformazione, ma la soavità del suo significato e la carezza e la musicalità del suo suono in ogni lingua le furono conservate.

Valeria è un nome superbo, Francesca è un nome ridevole, Speranza è un nome vano; Diana è troppo mitologico, Lalage troppo classico, Yolanda troppo romantico: Maria è il nome di tutti i tempi, un caro e vecchio nome, semplice e buono, bello e sublime.

Leonora suona come un accordo di pianoforte, Enrichetta ha la nota acuta d'una tromba, Amalia la mollezza d'un sospiro; Laura è un tocco d'arpa, Aida un tocco di violino; Virginia è stridulo, Maddalena è duro, Ada afono; Maria è il suono della voce umana, della splendida voce umana, argentina, affascinante, pieghevolissima.

Ave, Maria!

 

 

III.

 

La giovane Maria amava l'uomo che la chiamava sua figlia.

Il conte Orazio era l'unica persona alla quale i suoi piú lontani ricordi la tenevano legata; egli le aveva fatto da madre e da fratello, e ora in quella solitudine da monastero, lassú in quel castello medioevale dove non potevano giungerefischi di strade ferrate, né frastuoni d'opifici, egli era la sua unica compagnia.

Quantunque ella fosse agile, tutta grazia e rigogliosa energia, ed egli immerso negli studii severi, continui e pesanti, e dedito anima e corpo alla piú intensa e macerante meditazione, quelle due anime si comprendevano. Quel vecchio e curioso fabbricato che abitavano operava sovra entrambi lo stesso fascino. Per Maria che vero palazzo di follie e di incanti! Tutte quelle giravolte di scale, di corridoi e di cortili, e quelle fughe di camere deserte pareva davvero che non dovessero piú finire. Era difficile in un momento dato precisare se ci si trovasse al primo o al secondo piano. Da una sala all'altra si era sempre sicuri di trovare tre o quattro gradini da salire o da discendere. Poi le suddivisioni laterali erano innumerevoli, inconcepibili, e giravano e rigiravano cosí bene su loro stesse, che le idee di Maria le piú esatte intorno all'insieme del castello, non erano assai piú differenti di quelle a traverso le quali l'uomo intravede l'infinito.

In tanto tempo che ella viveva lassú non era mai stata capace di determinare in quale località lontana si trovasse la melanconica ed ampia sala dell'organo.

Quella sala era rigorosamente seppellita sotto a cortinaggi di un velluto nero, che rivestendo tutta la volta e i muri, ricadeva in pesanti pieghe sopra un tappeto della stessa stoffa e dello stesso colore. Due alte e strette finestre gotiche si aprivano sul cielo, ed ogni finestra era fatta di vetri rossi. La luce di bragia che ondeggiava sui cortinaggi e che scendeva da quei cristalli sanguigni era cosí spaventosamente sinistra, e dava alla fisonomia delle persone che entravano dentro un aspetto talmente strano, che Maria si sentiva sempre serpeggiare un brivido per le ossa tutte le volte che metteva il piede dentro.

Pure ella scendeva spesso in quella sala. Quando era stanca di rincorrere le farfalle per il giardino incolto e selvaggio, quando aveva chiamato per nome tutte le sue colombe e le sue tortore, e quando tutti i suoi conigli avevano avuto la loro colazione d'erba, allora andava laggiú a trovare il suo buono e grande papà; si sedeva vicino a lui, e stava lunghe e lunghe ore ad ascoltare le profonde e singolari armonie che egli traeva dall'organo. Vinta la prima impressione, la fanciulla si famigliarizzava subito colla tinta sepolcrale delle tapezzerie, respirava con meno pena quell'atmosfera affannosa e greve e non badando piú né al profilo sinistro d'un vecchio, monumentale orologio, né alla profondità delle pareti di ebano, né ai mucchi di libri e di strumenti di musica sparpagliati sul pavimento, si abbandonava all'impeto dei suoni che uscivano misteriosi e solenni dalle lucide canne di metallo.

In quella sala il conte Orazio e Maria passavano gran parte del giorno: ella ascoltando le improvvisazioni di lui, ed egli beandosi di sentire quella giovane anima accanto alla sua, deliziandosi al timbro musicale della sua voce e allo splendore calmo della sua pupilla larga e profonda. E tutti e due rimanevano finché gli ultimi raggi del sole non avessero disegnato un ultimo sanguigno ricamo sulle tapezzerie nere, e le nebbie della sera, salite dal piano, non si fossero addensate dietro i vetri rossi delle due alte e strette finestre gotiche.

[...]

 

 

V.

 

Coll'andar degli anni il conte aveva fatto di Maria la sua scolara, e trasfondendo in lei un po' della sua dottrina disordinata, singolare e profonda, sentiva di avvicinarsela ancor piú. Egli voleva comporre un'anima che lo comprendesse.

Le spiegava l'immenso e triste dualismo del mondo, il misterioso imene del giorno colla notte; le diceva che ogni uomo ha nel cuore delle tenebre d'odio e dei raggi d'amore, che l'essere mostra eternamente la sua faccia doppia, male e bene, ghiaccio e fuoco e che sente al tempo istesso l'anima pura e la carne vile, il morso del verme della terra e il bacio della divinità.

Leggendole Watson, Percival, Spallanzani e particolarmente il vescovo di Landaff egli le insegnava che tutto l'universo è animato, che anche il regno vegetale sente, gode e soffre, e che persino gli esseri inorganici non sono privi di ogni vitalità.

Le diceva che l'uomo venuto dal basso, da oscuri mondi inferiori, tende alla luce ed al sublime. L'anima non vede Dio, ma può giungere fino a lui seguendo il bene: il mostro, l'albero, la roccia forse lo vedono, ma la loro pena è di esserne incatenati lontano. Intorno alla nostra vita la creazione sogna. Mille esseri sconosciuti ci attorniano. L'uomo va, viene, dorme sotto il loro sguardo oscuro e non li sente intorno a sé. Ciò che egli chiama cosa, oggetto, natura morta, sa, pensa, ascolta, intende. Le nostre finestre conoscono l'alba e dicono: Vedere! credere! amare! Le cortine del nostro letto fremono nei nostri sogni e la cenere del sepolcro dice al cattivo che medita: io sono tutto ciò che resta del male. I mondi nella notte azzurra, dalle ombre che la pallida morte getta su loro, si inviano l'uno all'altro delle anime.

Nel nostro globo si espia. Condannati venuti dai cieli piú lontani pensano, imprigionati nelle nostre rocce o nelle nostre piante pieghevoli, e sono cosí stupefatti di ciò che vedono che se anche avessero la parola, tacerebbero.

La materia racchiude una tortura di spiriti. L'albero è un esigliato, il sasso è un proscritto. La ruina, la morte, l'ossame sono viventi. Un rimorso freme in una materia. Per l'occhio profondo che vede, gli antri sono gridi. Il cigno è nero, il giglio pensa ai suoi delitti, la perla è notte, la neve è il fango delle cime.

Lo stesso abisso orribile si apre nella civetta e nel colibrí.

La mosca, anima, svolazza e s'abbrucia alla fiamma; e la fiamma, spirito, brucia con angoscia un'anima.

I fiori soffrono sotto le forbici, e si chiudono come pupille.

Tutte le donne si tingono col sangue delle rose: al ballo la vergine che porta al seno un mazzo di fiori, respira sorridendo un mazzo d'agonie.

[...]

 

 

VII.

 

Le sere d'inverno, le lunghe sere d'inverno, il conte Orazio e Maria le passavano insieme nella sala da pranzo, una specie di refettorio lungo e vasto, con un gran camino in fondo ed una gran tavola nel mezzo.

Il soffitto di quella camera, scolpito in quercia, era eccessivamente alto, fatto a volta e curiosamente solcato da ornamenti i piú bizzarri e piú fantastici di uno stile semi-gotico e semi-druidico.

A questa volta malinconica, proprio nel mezzo, con una sola catena fatta di lunghi anelli, era sospesa una pesante lampada d'argento.

La lampada aveva la forma di un incensiere, era di stile arabesco e ricamata capricciosamente di fori, e traverso quei fori si vedevano correre e attortigliarsi colla vitalità di un serpente le fiammelle resinose che sorgevano da un vecchio olio aromatizzato.

Maria seduta accanto al focolare meditava guardando un grosso gatto grigio accovacciato nella cenere; e il conte seduto al tavolo proprio sotto alla lampada scriveva.

La calma era interrotta solo dal rumore della penna, da qualche tizzo che scoppiettava. Fuori la neve cadeva. Si sentiva confusamente che la terra doveva essere fredda e assai triste in quel turbine di bruma e di fiocchi gelati che si abbatteva sulle lande deserte, sui rami stecchiti della foresta e sui tetti dei casolari.

Maria era intirizzita e annoiata; si faceva piccina, piccina e pareva volesse farsi assorbire dalla fiamma; perché il babbo scriveva ancora e non veniva a sedersi presso a lei come tutte le sere?

Ella lo chiamò.

Babbo!...

Il conte s'arrestò colla penna in aria, e voltò verso lei la sua pallida faccia:

Piccola Maria?...

– Mi vuoi bene babbo?

Il conte sorrise.

– Che cosa vuoi? – le rispose.

– Che tu lasci un momento le tue vecchie carte e che tu venga qui con me.

– Che cosa vuoi?

– Che tu mi racconti qualche cosa, che tu venga a farmi un bacio ed a scaldarmi. Fa freddo.

Nevica?

Nevica!

– Ebbene – aggiunse il conte avvicinandosi al camino – io amo la neve! Il fango, la terra nuda mi spiacciono e mi rattristano; domani non vedremo che le orme dei piedi e le tracce dei piccoli uccelli. Anche l'inverno ha le sue leggiadrie.

Maria aveva fatto posto al babbo sulla vecchia panca e il grosso gatto grigio disturbato da quel nuovo interlocutore era scappato a rannicchiarsi piú lontano.

– L'inverno è freddo, papà, – riprese Maria – io non vi trovo tutte le belle cose che tu dici.

– Le belle cose ci sono per chi le sa vedere.

Due grossi ceppi scoppiettavano sugli alari e riflettevano sui volti del conte e di Maria le loro vampe rosse e allegre.

Il conte continuò:

– Non è forse bello, quando la pioggia a piccoli fili cade dal cielo, essere vicini ad un buon fuoco, tenere in mano le molle ed adagiarsi in una bella fantasia? Io lo amo assai. Quante cose belle succedono nella cenere! Quando non sono occupato mi compiaccio assai della fantasmagoria del focolare. Ci sono mille piccole figure di bragia, che vanno, vengono, ingrandiscono, cambiano e scompaiono. Ora demonii colle corna, ora angeli, ora fanciulli, ora vecchie, ora farfalle, ora cani, si vede tutto nei tizzoni; la bragia come la nuvola assume qualunque aspetto. Guarda i tizzi Maria, e converrai che a meno di essere ciechi non ci si può annoiare vicino al fuoco. Ascolta soprattutto il leggero soffio che s'alza e spira dalla bragia e che pare una voce che canti. Nulla di piú dolce e di piú puro; si direbbe che un piccolo e geniale spirito, rannicchiato nella fiamma come un freddoloso, mandi il suo saluto alle pareti domestiche ed alla famiglia raccolta.

Una lunga pausa succedette alle parole del conte.

La fanciulla distratta guardava la cenere.

L'uomo era assorto.

C'era nell'atmosfera della camera qualche cosa che poteva assomigliare ad un presagio: l'immobilità assoluta.

– A che cosa pensi, babbo? – disse Maria.

– A nulla, a un ricordo.

– A un ricordo?

– A un ricordo d'altra vita.

– Oh!

– La nostra anima ha avuto un'esistenza anteriore.

.

– E talvolta le rimembranze di questa esistenza anteriore vengono a sorprenderci: sono ricordi di forme aeree – di occhi – di suoni melodiosi e malinconici; una sorta di memoria simile ad un'ombra, vaga, variabile, indefinita, vacillante. Maria, non ti è mai accaduto di dire: ma questa cosa io l'ho già fatta, ma questa fisonomia non mi è nuova, questo luogo io l'ho già veduto? Certi echi passeggeri come provenienti da una lontananza indeterminata, da una notte profonda non sono mai venuti a scuoterti l'anima per un istante?

Maria non aveva risposto al babbo ma aveva chiusi gli occhi e pensava ad un vecchio quadro della galleria del castello: una cornice tarlata, un busto d'uomo, due occhi scintillanti ad un'espressione vitale assolutamente adeguata alla vita stessa.

Quel quadro l'aveva colpita fin dalla prima volta che lo aveva veduto. Solo quella sera ella se ne domandava il perché. Sarebbe forse un ricordo? Un'eco d'altra vita?

Perché si sentiva correre un brivido per le vene?

 

 

VIII.

 

Un peso mortale gravava sulla sala: e le tapezzerie oscure, e i panneggiamenti violetti, e le poltrone di velluto che prolungavano nel pavimento lucidissimo i loro piedi dorati e pesanti, sembravano tutti dormire sotto quella schiacciante malinconia.

C'erano intorno, presso al conte ed a Maria, delle cose di cui essi non potevano rendersi ragione, delle cose materiali e spirituali, una sensazione di freddo e di soffoco, d'angoscia e di follia, e soprattutto quel terribile modo di esistenza che subiscono le persone nervose quando i sensi sono crudelmente viventi e svegli, e le facoltà dello spirito assopite, intristite.

Tutte le cose parevano oppresse, prostrate in quell'abbattimento; il fuoco ricamava sulle drapperie i riflessi della sua agonia, e solo le fiamme della lampada d'argento parevano vivere. Allungandosi in minuti filamenti di luce esse si torcevano pallide e sottili.

La conversazione proceduta per qualche tempo a scatti ed a monosillabi, fra cose futili e inutili aveva finito per languire.

Ma la giovane Maria trovava quel silenzio ancora piú pesante di una conversazione distratta.

Babbo, dimmi qualche cosa – disse ella.

Il conte sprofondato nella sua meditazione pareva non avesse piú coscienza che altri gli fosse presente; i suoi occhi guardavano fissamente la lampada d'argento: alla sua immaginazione essa aveva preso la figura di un esile spettro colla testa di fiamma.

Babbo, dimmi qualche cosa – ripeté Maria, dando alla sua voce un'inflessione piú dolce.

A quella seconda chiamata il conte Orazio si scosse: un sorriso malsano parvegli errare sulle labbra, e come se seguitasse a parlare con se stesso, con voce soffocata, precipitata, quasi mormorio inarticolato incominciò a dire:

– Mai piú questo cimitero: mai più venirvi in sulla mezzanotte e pesare, come Young, la vita e la morte, nel silenzio e nell'oscurità: la fede era spenta nell'anima mia; il dubbio cominciava a soccombere. Il nulla si era presentato a me ed io avevo lottato con lui: simile a quegli spadaccini che nello stesso tempo combattono colla spada e col pugnale e che con questo colpiscono a tradimento, mentre si difendono coll'altra, o come il Parto che fuggendo scocca una freccia, egli mi aveva lasciato l'indifferenza.

Convinto che io non potevo nulla sapere, che la natura non rivela ad alcuno i suoi secreti, che cosa mi avrebbe servito lo scomodarmi per meditare sull'esistenza, seduto presso a una tomba? E pazienza se la dimora dei morti, cosí temuta dai vivi nelle ore tenebrose, avesse conservato i suoi terrori fantasmagorici! Ma no, i raggi sottili della luna, scivolando a traverso i cipressi, non davano piú una forma umana ai marmi seminascosti nel verde; il mormorare del vento fra i lunghi rami del salice piangente, al mio orecchio non pareva piú una voce lamentosa; la fuga delle lucertole tra le foglie secche, non mi sembrava piú il passo di uno spettro; io non trasalivo piú, io non fremevo piú, un freddo sudore non mi agghiacciava piú ad ogni istante; voltavo la testa senza paura di trovar qualcuno dietro di me.

Che cosa sarei andato a fare di notte in un cimitero? Te lo domando, Maria.

Io amavo quello, al sole del pieno mezzogiorno, sparso di fiori e ombreggiato di boschetti, vago come un giardino inglese. Era diventato la mia passeggiata prediletta. Ne conoscevo le piú piccole croci, tutte le colonne, tutte le urne funebri: riguardo a queste, io mi sono domandato perché si usasse metterne ancora sulle nostre tombe quando non si usa piú abbruciare i morti. In tutte le nostre arti, saremo noi eternamente copisti? Urna senza ceneri, quanto tu mi sembri l'ombra e l'emblema della nostra tragedia classica!

Molte volte avevo contato le fosse. Tutte le mattine dopo colazione, come un amatore di tulipani che vada a vedere nella sua serra quanti fiori gli siano sbocciati dalla vigilia, io andavo ad osservare se non vi si fossero aperte altre tombe. Soddisfatta la mia curiosità, mi mettevo a passeggiare con un libro in mano, godendomi l'ombra e la solitudine del luogo, e non curandomi d'altro, proprio come gli stessi becchini. Una volta, dietro un ciuffo d'erba, ai piedi di una croce, avevo trovato un nido d'allodole con quattro piccini. Quell'incontro mi aveva fatto sorridere per un momento.

Ma da qualche tempo, una cosa era venuta a dispiacermi: si rinnovava il mio cimitero; si dissotterravano i miei vecchi morti per mettervene dei nuovi. Io avevo reclamato al consiglio municipale, avevo scritto e brigato perché si comperasse un campo vicino, ma la mia domanda era stata respinta per ragioni d'economia. Questo mi pesava sul cuore.

Onore alla civiltà! I selvaggi portano con sé le ossa dei loro padri in qualunque sito essi vadano: ma noi, quando forse della vita non ci rimane altro, gittiamo al vento quelle dei nostri. Si sono trasportati nella morte gli usi della vita: una tomba è una casa in cui si succedono diversi locatari.

Mi dicevo tutto questo – tu sai quante volte io parli a me stesso – calpestando ad ogni passo sul mio sentiero qualche osso che si riduceva in polvere e il di cui scricchiolio produceva sui miei nervi un effetto che mi era sconosciuto, e che avrei voluto attribuire volentieri alla contrarietà e al disgusto di quanto provavo.

Invano sfogliavo rabbiosamente il mio libro; se qualcuno fosse venuto ad interrogarmi sopra quanto leggevo, avrei potuto rispondere come il principe di Danimarca: parole! parole! parole!... Quelle pagine non suscitavano nessuna idea in me. Il mio occhio si occupava meno spesso delle sillabe che dei vecchi cranii ammonticchiati sul sentiero. Senza volerlo, ricaddi nella meditazione che poco prima avevo cercato di sfuggire.

Dov'è il pensiero che animava queste ossa e che loro dava tutte le passioni che mi agitano? Non esiste egli piú? Si è egli unito agli elementi, come lo credevano gli antichi? Si è egli involato nel soggiorno a cui volano tutti gli spiriti abbandonando la materia, come credono i popoli moderni? Se ciò è, lo si punisce, lo si ricompensa, come un messaggero che abbia bene o male compito la sua missione? Imperocché è su questo che vengono a convergere tutti i nostri sogni e tutti i nostri pensieri sull'altro mondo.

La vita è una farsa, credo che l'abbia detto Montaigne, si paga forse uscendo dal teatro? Questo è il problema! – That is the question!

Ad un tratto, allo svolto brusco di un viale, battei il piede in un cranio al quale restava ancora un rado ciuffo di capelli. Quantunque la cosa fosse comune, rabbrividii. M'avvicinai: in faccia a quel cranio una strana emozione m'invase. Se qualcuno mi avesse detto: è il cranio di tuo padre, non avrei potuto soffrire di piú. Presentivo, non so il perché, un mistero orribile in quella testa, che, sola fra le altre, conservava ancora qualche cosa dell'esistenza. Stetti a mirarla lungo tempo, e benché un desiderio violento e malsano mi spingesse a toccarla, non osavo. Infine la presi in mano, l'esaminai con attenzione, e, piú padrone di me, l'apostrofai con questi versi del Childe-Harold:

 

Yes, this was once ambition's airy hall

The dome of thought, the palace of the soul.

 

Ad un tratto, le mie dita scorrendo sul cranio si punsero, una stilla di sangue sprizzò: una punta di ferro o d'acciaio, qualche cosa di simile a un ago mi aveva colpito!... Guardai! Un lungo chiodo attraversava quella testa, sotto il ciuffo dei radi capelli, all'occipite.




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