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Ernesto Ragazzoni
Buchi nella sabbia e pagine invisibili

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L'estetica dell'inverno

 

Ma, sul serio, siamo in inverno adesso? Questa è la stagione del bigio, del bianco, dell'uggia, dello squallore, dei pattini, delle pellicce, delle ombrelle, degli scivoloni? La stagione dalle campagne morte, dai cieli sonnolenti, dai paesaggi velati e spettrali, dai termometri irritati? Il calendario scherza! Il calendario, quest'anno, dato uno sgambetto all'inverno, pare già faccia all'amore coll'aprile. Nelle prime ore del pomeriggio si sta benissimo sui terrazzini e colle finestre aperte. Uscite fuori di città, nei boschi scarni, gli alberi ubbriacati di un sole che non è il sole del febbraio, già paiono impazienti di mettere le gemme, e qualche ramo piú smanioso degli altri non esita a mostrare per la sua scorza un principio di primavera. L'acqua dei fossi, allucinata da tutto l'azzurro, da tutta la luce che riflette, sembra stupirsi di non veder tremolare sul suo specchio anche qualche ombra di verde. L'aria, che va a frugare in tutti i ripostigli delle siepi, nelle fenditure dei muricciuoli di campagna, sull'orlo delle balze delle colline, dietro i cancelli dei vecchi giardini riceve l'incarico dalle viole di annunciare la loro apparizione. Che mite inverno! che incantevole inverno da Riviera! Tanto meglio, si esclama da ogni parte, e tanto meglio! confermo anch'io.

Quando si traversano annacci come quello che traversiamo, quando si pensa alle trincee sulle Alpi percosse dalla tormenta o sepolte nella neve, quando si evoca la nuda desolazione delle soffitte, e degli abituri senza lume e senza fuoco, quando si riflette ai poveri errabondi sulle vie maestre o inchiodati sui crocicchi, no, vien fatto di dire in un tale anno di guerra, di miseria, di dolore, di derrate care, di carbone prezioso, un più mite, un migliore inverno non poteva toccare alla povera umanità. Un inverno che fosse stato veramente inverno sarebbe stato un flagello, una maledizione.

Ma lasciando il punto di vista umano, e ragionando con soli criteri artistici possiamo noi altrettanto dire che questo inverno, cosí indulgente, cosí buono, ci abbia presentati tutti quei caratteri, quegli elementi di bellezza che si ha ragione di aspettarsi da un inverno come si deve? Dal lato estetico questo inverno è completamente mancato! Anche gli agricoltori trovano, per loro conto, che piú nuoce, alla terra, una stagione siffatta di quanto giovi e che si pagherà in giusta misura il mancato gelo e la mancata neve (fors'anche con gelo e con neve fuor di tempo), ma lasciate le ragioni meteorologiche e agricole, per l'artista, quello che anzitutto ha fatto difetto al presente inverno è «il pittoresco», la sua poesia. Forse nessuna stagione, nemmeno l'autunno con le sue brume e con le sue nostalgie che ne fanno una elegia romantica un po' troppo morbosa e sentimentale, forse nemmeno l'autunno, ripeto, ne ha tanta, poesia, quanto l'inverno. La primavera è troppo giuliva, troppo spensierata (quando per le piogge non è troppo lagrimevole), l'estate è troppo violenta. L'inverno no, e la sua poesia, tutta raccolta, è fatta di intimità, di pacatezza, di riposo. Per la sua espressione di perfetta impassibilità, o meglio per la sua perfetta quiete, a molti – a tutte le anime sensitivepiace questa stagione dell'anno. «Venite a visitare la natura nel suo miglior abbigliamento», diceva un poeta inglese, il Graham, ed un altro inglese, il Cowper, cosí proclamava la sua preferenza: «O inverno, per quanto tu possa sembrare aspro, ingrato, rigoroso, io ti amo! Tu tieni, è vero, prigioniero il sole, ma in compenso ci aumenti le dolci ore dei cari conversari al riparo delle pareti domestiche, ed aduni in crocchio la famiglia che l'estate disperde. Io ti incorono, o inverno, il re dei puri intimi sorrisi e della gioia del focolare».

E il vento di tramontana ha la sua bellezza, il gelo ha la sua bellezza, e la sua bellezza ha la neve. Sono questi, secondo un antico canto gaelico, i tre figli dell'Inverno. L'uno è chiamato Piede Bianco, l'altro Mano Bianca, l'altro Ala Bianca. Piede Bianco, il vento del nord, è quello che danza sul mare, fa fiorire le onde di abbaglianti spume candide; l'altro, Mano Bianca, il gelo, è quello che al suo tocca trasforma in immobili cristalli le acque degli stagni, dei laghi, dei fiumi e sospende ghirlande di argento ai rami degli alberi; l'altro, Ala Bianca, la neve, è quello che sparpagliando miriadi e miriadi di piume bianche sul mondo e sulle case degli uomini, tutto riveste di una veste pura e addormentata.

Ed è vero, l'inverno, pare purificare ed addormentare la terra. Pare che egli faccia far silenzio alle cose perché noi le possiamo considerare con piú calma.

Una giornata di neve è una giornata piena di dolcezza, un po' malinconica sia pure, ma di una malinconia temperata da tanto sentimento che tocca senza essere acerbo.

Il viaggiatore che vede sfilare dai cristalli del vagone la campagna che si assopisce sotto la tacita carezza dei fiocchi bianchi, piú pregusta, assapora la gioia dell'arrivo, e l'intimità che crea, sulla tavola apparecchiata in famiglia, il circolo chiaro della lampada.

L'innamorato, in attesa, al limite di un viale remoto e che col bastoncino si piace a tracciare nel recente morbido bianco il nome amato (a casa l'adorata certo in quel momento sta abbottonandosi i guanti), trova piú raccoglimento nel suo affetto, una miglior gentilezza, una piú intima nostalgia di un nido.

E agli occhi che lo contemplano dalla finestra, a istanti, tutti quei fiocchi irrequieti paiono viventi, paiono parlare al pensiero.

Lenta, pacata, ostinata, la neve sembra voler spiegare quanto c'è in lei di equilibrio, di forza e di bontà. Ella viene dal cielo per calmare, assopire le città rumorose, per abbattere il vento, per distruggere i germi delle epidemie, per covare il fermento nel solco, per ringargliardire i fiumi, per addormentare la terra affaticata e prepararla a nuove fatiche, per dare a tutte le cose un velo immacolato che paiano trasfigurate e sublimate e sia come ritornato semplice ed innocente l'occhio che le guardi, perché gli scolaretti abbiano uno spasso di piú all'uscir dalla scuola, perché abbiano a provare qualche soddisfazione a sentirsi chiusi, i poveri condannati agli uffici forzati sempiternamente curvi sul loro inchiostro, perché il pittore trovi un nuovo motivo di quadro, perché gli uomini (ed anche le donne) meglio comprendano, meglio amino la casa.

Ed essa viene a dirci che noi troppo sperperiamo la vita, che ne buttiamo gli istanti in corse e in passioni insensate, e che invece il nostro posto, la nostra dignità, il nostro essere, la ragione della nostra vita, quaggiú sono nella nostra famiglia, sotto il nostro tetto. Viene ad apprenderci ad apprezzarla questa sana intimità che spesso nemmeno conosciamo e per questo stesso fatto misconosciamo. , veramente viene dal cielo per apprenderci ad amarlo il nostro focolare, vuole che siano veramente nostri questi oggetti, questi libri, queste pareti che ci circondano; noi no, non dobbiamo passarci solo tra un affare e l'altro, tra una partita e uno spasso, appena per mangiare e per dormire, noi dobbiamo lasciarci anche un po' della nostra anima, un po' di noi stessi.

Ecco che cosa vorrebbe farci comprendere la neve, e che comprendiamo... a volte.

La cara vita del camino allora si ridesta.

La gioia del fuoco, della vampa, dei tizzi non è uno degli ultimi regali dell'inverno.

Durante la bella stagione, il camino è un corpo senz'anima. Gli alari, inerti, hanno l'aspetto di scheletri di qualche sinistro, insolito animale. Le disgraziate molle che tanto amavano il loro triplice ufficio di tanaglia, di picca e di leva nel loro cantuccio paiono annoiarsi. La paletta, buona a nulla, par mortificata di essere diventata un inciampo, una cosa da gettar sul solaio. Con un dorso alle pareti, nell'ombra della cappa, il soffietto forse s'attrista al ricordo delle mani, molli o brutali, impazienti o tenaci che gli davano vita, respiro, soffio, movimento.

È un corpo morto, un oscuro vuoto nel muro deserto, abbandonato, ingombrante un camino – un vero camino – durante la bella stagione.

Ma ecco il gelo, ecco la neve, ecco le giornate del fuoco.

Il vecchio camino rivive, il vecchio camino trionfa. Il suo solo bagliore basta ad animare una camera, a consolare la lunghezza di una veglia. È in campagna soprattutto che ci si può offrire questa gioia. Fin dal mattino, la provvista di legna per la giornata è ammucchiata ed appostata: sono pezzi di rovere, di castagno, di frassino, quali spaccati, quali ridotti a scaglie, quali segati; alcuni, sulla loro corteccia, liscia o rugosa, hanno serbato qualche ruggine di muschio o di lichene, altri hanno intorno un cordoncino d'edera, altri – ceppi di vite o nocchi di radicisembrano tentacoli di polipo, o quando sono avvolti dalla fiamma paiono mostruosi ragni luminosi.

Le legne crepitano nel fumo azzurrigno, in cui prima di divampare si avvolgono, dolcemente esalano i buoni odori che contengono: sentori di piante rampicanti che hanno avviticchiate rovine, aromi di arbusti che tutta l'estate hanno assorbito il sole e sono stati frementi di uccelli e di insetti, emanazioni di muschi umidi, di fungaie, di pietre, tutta una armonia di profumi campestri e selvaggi, dove il ginepro mette la nota piú acuta e piú sostenuta.

Il soffietto, le molle, la paletta, ritornano operose. Poi dal fumo, a un tratto, la fiamma si divincola ed è come il prorompere di una gioconda risata in una camera dove è accolta gente muta ed è vinta a quel riso. E dal camino allora risuonano mille suoni. Ogni legno sprigionando dalle fibre la sua anima in luce ha come una voce propria: certuni danno colpi secchi di petardo, altri bisbigliano, altri hanno sibili che sembrano richiami sommessi, altri brontolano, altri soffiano, altri sbuffano, altri pianamente, flebilmente, pare intonino una ninnananna.

E tutto l'inverno, il grande vecchio camino di campagna si accoglie intorno, a ferro di cavallo, i suoi intirizziti e tranquilli famigliari. Abbandonati all'indolenza, i sogni divagano. Si ha l'impressione, in quella quiete, – mentre la pioggia bussa ai vetri e la campagna è tenuta dal vasto silenzio della neve – di essere ancora al buon tempo delle diligenze, al tempo in cui, le vigilie di Natale, tornavano, dopo lunghi viaggi e dopo lunghe assenze, uomini alti e barbuti, – zii che i bimbi non avevano mai veduto, – e portavano dal di fuori, nei loro ampi tabarri, odor di freddo e di luoghi sconosciuti.

Ritornano alla mente certe visioni di quadri fiamminghi, di Adriano Van de Velde e di Isacco Van Ostade, i pittori dell'inverno, visioni di canali morti, di capanne bianche abbandonate fra il bianco, di dune del Mar del Nord, di spiagge irte di schiume, o di interni raccolti e caldi, dove, tra il fumo delle pipe, servotte in cuffie e cogli zoccoli e dalle braccia tonde, servono da bere a borgomastri beatamente panciuti.

Un altro quadro fiammingo, ancora. Di chi? dove veduto? La memoria si fa incerta, lontana e confonde, ma la scena invernale rappresentata è rimasta nella mente precisa. È in un paesaggio di neve, un gruppo di pattinatori. Forse in nessun'altra pittura come qui, in ogni linea, in ogni tocco di pennello, – e nei rami senza foglie, diventati d'argento, e nelle vesti impellicciate dei pattinatori, e nei toni caldi delle casette di mattone rosso sotto la garza della bruma bianchiccia, e persino in certi pallidi riflessi di sole sopra corazze di soldati che si allontanano, – è resa con maggior espressione tutta la delicata poesia, tutto l'intimo sentimento della stagione del gelo.

E gli inverni delle fiabe di Andersen? Gli inverni dei racconti di Natale di Dickens? Gli inverni delle novelle di Erckmann Chatrian? Anche quelli ritornano in mente, dinanzi alla fiamma che scoppietta. Poi il pensiero ricorre agli inverni tragici; la neve di Canossa per cui s'è trascinato tre giorni il re Enrico maledetto e maledicente, la neve della campagna di Russia, la neve desolata calpestata dalla guerra, su cui Napoleone fissa lo sguardo nel famoso quadro di Meisonniers, la bufera di neve in cui si perde la Mattutina nell'Homme qui rit...

L'estetica dell'inverno è stata sentita da innumeri artisti. Che invernosinfonicamente – ci avrebbe descritto Wagner! Ma Wagner, che nella orchestra ci ha descritta tutta la natura, e il monte e la foresta, e il fuoco e l'onda, e la bufera e la tempesta, e l'arcobaleno e le viscere stesse del mondo, Wagner non ci ha descritto la neve! Per quanto riguarda la neve, l'opera di Wagner è un inverno come questo. Il quale inverno, per ritornare a noi, se è mille volte criticabile dal punto di vista artistico e pittoresco – se manca insomma dei suoi speciali caratteri ed elementi esteticibuono o mite qual fu, non si merita certo le recriminazioni degli uomini.

È un inverno non più selvaggio, ma... addomesticato... Non avverrà che l'esempio segua e... s'addomestichi anche la gente? L'inverno selvaggio è bello, ma l'umanità selvaggia?




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