Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Ernesto Ragazzoni
Buchi nella sabbia e pagine invisibili

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

Paesi che passano

 

I paesi che passano: sono i lembi di campagna, le istantanee di boschi, di acque, di monti, di mura e di tetti, di comignoli e di campanili, i frammenti di mondo che ci lasciamo dietro ogni qual volta un'automobile, un treno, non importa che, ci porta via per l'orbe terracqueo insieme alla nostra smania irrequieta di mutar sito. La velocità ce ne , ce ne toglie, ce ne ridà inesauribile. E come se ci si sfogliasse dinanzi rapidamente un vasto albo di paesaggi colorati. L'uno è una chiesetta abbandonata, chiusa, sommersa quasi nelle foglie di un formidabile tiglio che le è al fianco, e par piú umile, si direbbe, all'ombra di quella gran protezione; l'altro, un villaggio chiaro che guarda verso il mare con aperte tutte le imposte verdi delle sue finestre, mentre sopra di lui fa il broncio un rudere che nemmen l'edera piú vuole, e forse è di mal umore perché si sente pizzicare in basso dalle ortiche; l'altro, una brughera rossigna, deserta, rotta da pozze livide, dove ci si deve sentire soli angosciosamente, come in esilio, a passarci sull'imbrunire... E via... Ad ogni impeto di stantuffo è una fisonomia nuova, un aspetto diverso. Paesi di un istante, paesi appena intravveduti e perduti, ora immobili e silenziosi sotto l'azzurro come nell'abbandono di un pomeriggio domenicale al tempo che la gente è ai vespri, ora tormentati sotto nuvole di tempesta che li popolano dei loro spettri pallidi o violastri, ora sbocciati nell'alba come fiori, ora spossati di sonno, presi dall'afa, dalla canicola, ora trasfigurati dalla nebbia, bianchi addormentati in braccio all'inverno, – paesi fugaci, paesi che un battere di palpebre rinchiude e lascia, quanti ne abbiamo veduti passare nelle nostre peregrinazioni e nelle nostre corse! Alcuni rimangono pur nitidi nel ricordo come rimane nitida la visione colta in un lampo; altri, ci pare, li abbiamo veduti come in sogno in tempi immemorabili, altri si sono spenti affatto da ogni memoria, altri ci hanno lasciato nel cuore una infinita nostalgia.

Signor lettore, ella troverà che al momento attuale ci sono ben altre questioni cui pensare e ben altre faccende cui attendere, che divagare dietro qualche aiuola di insalata che scappa rigata di fili di telegrafo, o qualche casa cantoniera – sia pure tutta gocciolante di grappoli lilla di serenelle – che dilegua entro una tormenta di fumo. – Bravo! io sono precisamente dello stesso parere. Ma per le cose gravi, istruttive, solenni, pei grandi ed ardui problemi del momento ci sono le persone ad hoc che hanno ricevuto dalla divina provvidenza l'incarico di illuminare il mondo. – Ce n'è una, almeno, da ogni barbiere, e almeno dieci in ogni caffè all'ora del vermouth. Poiché il signor lettore e poiché io stesso siamo sicuri che avremo sempre, quando vorremo, a nostra disposizione chi ci schiuderà le arche della sapienza, possiamo pure battere un po' insieme la campagna. E poi, pigliar aria è sempre di attualità. Senza contare che con poca o punto fatica, solo guardando e immaginando, c'è pur modo di fare le bellissime riflessioni.

Questi paesi che passano, – spruzzi di calce nel verde, – sono molecole spicciole di umanità che ci fan cenno. Noi, molecole spicciole, alla nostra volta, siamo loro legati nel gran tutto piú che non pensiamo. Indoviniamo quei cenni.

Lo dicevo a me stesso, uno di questi giorni, mentre un treno mi trascinava traverso un liscio, vasto, dolce lembo d'Italia, primaverilmente fresco, frattanto che a mano a mano, sotto i ponti rimbombanti, in tortuosi e rapidi luccichii, si succedevano l'Arda, il Taro, la Secchia, il Panaro, il Reno...

Il muricciuolo sgretolato, – striscia di ciottoli fra due prati irta di ciuffi d'erba, – mi evocava una lite di confine e le ire di un Capuleto e di un Montecchio di campagna guerreggianti a colpi di carta bollata; il vecchio fico ramoso al disopra dell'orto della Pieve mi rammentava, – una vigilia di sagra, – un passo tardo di prete in meditazione sul suo panegirico pel domani; fuori del borgo, la pergola della trattoria sul limitare del ponte mi rappresentava la siesta, confortata di pipa, di bicchiere e di chiacchere, del capitano in pensione e del ricevitore del registro a riposo; la panca sotto il platano a capo della stradetta che fra due siepi diverge al camposanto mi diceva la refezione del merciaiolo ambulante seduto a prendere lena, e la fantasia mi popolava i parapetti dei giardini di testoline di fanciulle, e mi faceva sentire la nostalgia del giovinetto contabile, prigioniero nel suo sgabuzzino, che improvvisamente ridestava a sogni di libertà, di viaggi, di luoghi nuovi ed ignoti, lo strepito del convoglio ripercosso un attimo dalle lunghe mura dell'opificio rasente la linea.

E ad una visione seguiva un'altra visione.

C'è un'arte di «vedere il paesaggio». I luoghi hanno una loro propria fisionomia, e la fisionomia ha un significato, rappresenta quasi un carattere, uno stato d'animo. I salici lungo i fossi soffrono d'ipocondria, certe casupole chiuse sull'orlo dei boschi cospirano e pare meditino un agguato, la terrazza della villa è beata che tutti l'ammirino ad allargare le braccia sul parco, i pioppi del viale si seccano di stare eternamente uno in fila all'altro come collegiali in processione e vorrebbero sbandarsi; lo stagno immoto guarda rassegnato il volo delle nuvole libere, che appena lo toccano di un riflesso dileguano, le cancellate hanno l'aria di schiere di sentinelle colle aste, il villaggio in cima al poggio ha una piccola anima civettuola e festosa, e si lascia volentieri corteggiare dai gelsomini rampicanti e dai vigneti, che salgono ad abbracciarlo; e ci sono i paesaggi appassionati, scenarii di tragedia; i paesaggi raccolti, fatti pel romitaggio di qualche studioso meditabondo; i paesaggi innocenti, le grandi praterie aperte, senza misteri, che si lasciano leggere fino in fondo all'orizzonte; i paesaggi irritanti, malevoli, aggressivi, che non hanno amici, i paesaggi da luna di miele, i paesaggi da rapimento romantico...

E ciascuno suggerisce un nome. Qual è il loro vero? Non importa. La fantasia gliene adatta uno, ed è quello che conviene. Ecco «l'oratorio di Santa Maria dell'Acqua». Ai suoi piedi si allarga in laguna il gomito del fiume, e l'acqua, gli anni cattivi, deve essere salita ad inondarlo e fu miracolo se non lo travolse. Come si chiama quel paese? Non lo so, ma io lo battezzerei «Biancolano». È come un immenso bucato steso sull'erba. E quest'altro? Mettiamo che si chiami «Monastirolo della Torre». È facile comprendere il perché. E questo ancora? Regaliamogli il nome di «Borgocivitella». È un borgo che si industria, che fa tutto quello che può per parere una piccola città. Ci ha i casotti del dazio, un edificio che deve essere un collegio, un viale, quattro campanili, due carabinieri fermi al passaggio a livello in attesa che s'aprano i cancelli passato il treno. In questo momento la figlia del notaioimpossibile che non ci sia un notaio a «Borgocivitella» e che il notaio non abbia una figlia) sta studiando (me lo immagino) la sua lezione di pianoforte con grande diletto dei vicini, e nel Caffè della Piazza (è l'immancabile caffè dell'immancabile piazza) il bellimbusto del luogo fa il galante colla graziosa padroncina seduta al banco, e a un tavolino due pacati borghigiani – due luminari di «Borgocivitella» – levano tratto tratto il naso dalla chicchera del caffè e dai giornali del mattino a scambiarsi le loro vedute sulla politica. Il portalettere ha recato questa mattina, alla moglie dello speziale, una lettera del figliuolo che si trova al fronte e durante tutta la giornata se ne parlerà...

Ed il treno corre verso altri paesi, a rasentare altre vite, vite occulte, ignote che tuttavia continuo a dilettarmi a figurare. Afferro anche, nell'aria smossa, a lembi, il sentore particolare proprio di ciascun luogo. Uno mi avventa alle nari un acuto odore di vernice di ferro, e passa; un altro sa di legnami piallati di fresco, un altro sente di terra lavorata e di paglia antica, l'altro di sterpi bruciati, l'altro pute di pellami messi a macerare nella conceria, l'altro mi manda incontro aromi sottili di caffè tostato, l'altro è imbalsamato di catrame.

E i paesi passano, passano... Un gruppo di lavandaie, raccolte intorno ad un'acqua, levano la testa dai battitoi a guardare; il ciclista, sulla strada maestra parallela, ha il capriccio di tentare una gara colla locomotiva... e scompare; un monello da una siepe si diverte a far tanto di naso e a gridare parole incomprensibili ai passeggeri affacciati agli sportelli; un signore – qualche gentiluomo campagnuolosegue attento l'argine di un prato.

Occorrono altri nomi. La fattoria laggiú, potrebbe chiamarsi «la Bicocchetta». Sembra nata dall'incrocio di una bicocca con un mulino. Ha un curioso aspetto tra il bellicoso e l'agricolo che colpisce. Questo gruppo di fabbriche armate di alti fumaiuoli in eruzione, accecate dal fumo che l'aria spinge in basso, annubilate e annegate in volute di carbone sprigionato in gas avrebbe tutti i diritti di andar conosciuto sotto l'appellativo di «Nubilecchio». Questo tenimento che tagliamo per mezzo, se non ha nome « Stornelloro» ha torto. Lungo i solchi folti che si perdono all'occhio, dev'essere un trillo solo di stornelli, di canzoni i giorni di mietitura.

Del resto, avete notato che ogni paesaggio richiama alla mente una musica? Cosí, come ogni musica s'inquadra in un paesaggio. Balaustrate avviticchiate di rose, siepi di bosso avvivate di linee di statue bianche, gradinate sospese su acque silenziose, tramonto di settembre intorno: musica di Rameau. Filari di cipressi, neri sotto la luna: musica di Chopin. Sfondi luminosi di colline apparite al di di fughe d'archi di chiostro: musica di Bach. Impeti di cascate tra rovine di rupi, e arcobaleni accesi nelle spume, e frondeggiare tempestoso di rami sui cigli, e teneri velluti d'erbe in fondo agli abissi: musica di Beethoven. Qui, la pace della pianura pingue soprattutto vi anima, al pensiero, di canti villerecci: «Stornelloro» è il nome che si conviene al luogo.

E questo canale, striscia pallida e rettilinea, ove nemmeno l'azzurro riesce a specchiarsi in riflessi nitidi, ricacciato dall'ombra degli argini, per me è il canale «Fil-di-Noia». Ho sempre pensato con un certo senso di compassione e di tristezza all'acqua dei canali. È lo stesso senso che mi fanno gli uccelli tenuti in gabbia. Si sente che deve annoiarsi, che deve essere malata di malinconia, la povera acqua, e la sua malinconia la sua noia si effondono anche in chi la guarda. L'hanno tolta alla bella libertà del fiume, dove era cosí garrula, dove aveva cosí lieti gorgogli, dove rimbalzava cosí viva in spume bianche tra i ciottoli e l'hanno costretta – ella, la sempre ribelle – a diventare obbediente agli uomini, epperò si è immusonita e fatta taciturna. Ora va, va, sempre eguale, serrata entro due piatte sponde parallele, rigida e geometrica come la formula in virtú della quale l'ingegnere idraulico l'ha catturata, rassegnata a perpetuo tedio.

Ma il «Fil-di-Noia» col suo tedio è già lontano.

Rossa di mattone, entro una nevicata odorosa di fiori di pero, l'osteria della «Piccola Nuova York» mi si affaccia e mi è portata via. È un baleno, ma riesco tuttavia a leggere le lettere dell'insegna. Non lontano è un fiume. Ci si deve pescare della buona frittura di pesce. Sicuro, il proprietario deve essere stato in America, dieci o dodici anni a Nuova York, ed ora ha un bel gruzzolo da parte e dinanzi una bella pancia.

Una villa chiusa, come dimenticata nello squallore di un giardino abbandonato da anni, una residenza che non ha piú nessuno e nessuno piú vuole, entro un muro di cinta che la isola anche in una maggiore solitudine, e sul muro di cinta, a grandi pennellate, l'annuncio: «Villa da vendere»: è un'altra visione che passa e dilegua. La villa è morta, una famiglia, già tanto opulenta, è forse oggi esule, raminga pel mondo, forse rovinata, forse spenta! I bimbi che giocavano al cerchio tra i suoi viali, che tendevano dal cancello le manine ai passanti, fatti uomini, forse l'hanno perduta una notte in una bisca. I nonni vi accoglievano cari ospiti un tempo!

Altri paesi ed altri paesi. E quelli che solo si indovinano? Donde viene quel filo di fumo verdognolo che si attorce in fondo al cielo? Che cosa c'è dietro il brusco svolto del viottolo? A che s'accompagna, in basso, il culmine aguzzo del campanile che s'alza, unica vetta bianca, sulla marea del bosco che cancella il resto?

E le vite, le vite che per qui sono trascorse, da tempi immemorabili! Falangi di antica umanità tormentata popolano i luoghi. Genti cacciate da orde barbariche, lasciano le capanne di mota e di paglia, e fuggono; cavalcate di legati pontifici, di messi imperiali, di podestà armati, di vescovi ferrei, calpestano l'erbe e recano odii e stragi. Bagliori d'incendi, la notte, guizzano sulla pianura. Le epoche seguono alle epoche, generazioni surgono e si spengono, clamori d'uomini succedono ad altri clamori, la vita irrequieta mai non ristà... Il treno segue... E genti e paesi passano... Sono passati.




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License