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Ernesto Ragazzoni Buchi nella sabbia e pagine invisibili IntraText CT - Lettura del testo |
I Baedeker prima, e le cartoline illustrate poi, gli uni per un verso, le altre per un altro, hanno ai dí nostri tolto al viaggio ogni impreveduto, ogni poesia.
I paesi, grazie a questi due portati dalla civiltà odierna, perdono ogni pregio di novità: tutto quanto v'è di stupefacente, di ammirevole è in anticipazione descritto, misurato, calcolato, pesato..., fotografato! E addio impressioni vergini! Addio rivelazioni improvvise di paesaggi e di cieli! Addio punti di esclamazione sgorgati spontaneamente davanti a luoghi ignoti e ignorati!
Tutto quanto si vede è già cosí conosciuto! già cosí saputo! già cosí veduto!
L'attenzione di chi oggi viaggia, pertanto, deve essere portata sovra le piccole cose, sulle cose che sfuggono alle guide ed ai fotografi, sulle scene umili, sui panorami dimenticati. È solo a questo patto che la gioia del viaggiare, questa gioia che è simile a quella di una liberazione, può essere ancora sentita e provata!
Lungi dagli ufficiali Baedeker, dalle borghesi cartoline illustrate ecco cosí, di una mia rapida scorsa pei monti e i laghi della troppo nota Svizzera, qualche veduta... ancora ignota. L'atmosfera è afosa e c'è bisogno di aria smossa...
La prima impressione, anzitutto, è di una notte in treno sulla linea del Gottardo.
Fino a che il crepuscolo non si è interamente spento, quel lasciarsi trascinare indefinitamente e mollemente lungo l'interminabile matassa dei fili telegrafici, dietro cui il paesaggio, a grado a grado, si fa opaco e svanisce, è dolcissimo. I fischi della locomotiva sembrano appelli gioiosi verso un paese di libertà e di festa, gli squilli dei campanelli elettrici nelle stazioni sonano come risatine di persone amiche che vi diano il benvenuto.
Un benessere strano e complesso penetra ogni fibra: il movimento del treno addormenta con una cadenza continua di ninnananna, ed il tramonto riempie l'anima di poetica malinconia.
Ma a poco a poco la notte cade, la conversazione dei vicini langue, le pupille diventano pesanti, e il treno, come se esso pure non ci vedesse piú, dà improvvisi sobbalzi sulle rotaie, e sembra, abbandonata la giusta via, filare cecamente, vertiginosamente verso qualche luogo misterioso e lontanissimo.
A partire da questo istante non si è piú seduti in un vagone, ma travolti in una raffica, in preda ad una forza occulta e paurosa, implacabile.
Ed il sonno, intanto, mentre la vettura vi assale da un lato, vi prende e vi afferra dall'altro; di qui un incubo senza nome. Non v'ha nulla al mondo che sia paragonabile ai sogni di un sonno di questo genere. Si dorme e non si dorme, si è ad un tempo nel paese delle chimere e nella realtà; in un sogno, per cosí dire, anfibio.
Di tratto in tratto si schiude una palpebra, e le cose intorno paiono trasfigurate da qualche mal genio: il lume della lampada, fisso al disopra del vostro capo, nel mezzo del vagone, sembra un occhio di brage, spalancato, pronto a ipnotizzarvi; i vostri compagni di viaggio, che si abbandonano inerti al rullio ed al beccheggio della corsa, hanno figure cadaveriche, di trapassati.
Ed il cielo è nero, o, piuttosto, il cielo non c'è piú: si ha l'impressione, traverso infinite gallerie, di pozzi interminabili, rivestiti di ferro, di scendere, scendere, scendere verso il centro della terra.
Le stazioni, davanti a cui si fanno brevi soste, al bagliore scialbo delle file di lampade che le illuminano, paiono vacillare come cose riflesse in un'acqua, ed hanno nomi stravaganti ed ostili...
Poi, a tratti, sopra il frastuono, il rombo metallico del treno, giunge all'orecchio, misterioso, uno scroscio di cascate, di acque vorticose, di torrenti precipitanti da chi sa quale balza ignota...
Un tremolio incerto, indistinto, infine, rompe l'oscurità.
Giù in fondo ad una vallata, che sembra spalancarsi come un'enorme mascella, sotto un cielo accigliato e torbido d'autunno, non ancora svegliato dall'alba, appare il Vierwaldstättersee, il lago dei Quattro cantoni, il paese leggendario di Guglielmo Tell.
Un'altra impressione, Basilea veduta dall'alto della cattedrale. Sotto ai miei piedi, ad una profondità di novanta metri, il Reno largo e verde; intorno a me la grande Basilea, davanti a me la piccola Basilea, imperocché il Reno divide la città in due parti, e, come in tutte le città tagliate da un fiume, una parte si sviluppa a detrimento dell'altra. Le due Basilee comunicano fra loro per quattro ponti ed entrambe fanno al Reno, ai due lati, uno strano ricamo di tetti aguzzi, di facciate gotiche, di torricelle affilate.
Questo profilo di antiche case si ripete nel Reno e vi appare capovolto. I ponti, riflessi dall'acqua, prendono l'aspetto strano di grandi scale a piuoli, gittate dall'una riva all'altra. Mazzi d'alberi e macchie variopinte di giardini sospesi dinanzi alle case, si mescolano alle bizzarrie di tutte queste vecchie architetture. Le guglie delle chiese, le torri delle vecchie fortificazioni smantellate formano grossi nodi oscuri, a cui si uniscono, qua e là, le linee capricciose che si svolgono alla rinfusa dai campanili ai pinacoli, dai pinacoli agli abbaini.
E tutto ciò s'arrampica, pullula, si stende, fa capolino, sorride fra una larga ghirlanda di colline che non si apre all'orizzonte che per lasciar passare il Reno...
Un'altra istantanea: un luogo solitario presso Stein, ai confini del lago di Costanza.
Gruppi d'alberi riflessi dall'acqua verdissima; il fumo di un battello a vapore che dilegua in lontananza; le finestre di un villaggio remoto che scintillano, come diventate incandescenti, alle porpore del tramonto.
Un individuo, d'aspetto venerando, vestito di bigio, con un largo cappello rotondo in capo, sbuca dal folto degli alberi.
Sotto il braccio sinistro tiene serrato un noderuto bastone, nella mano destra ha un libro. Il viandante legge attentamente. Ma che cos'è questo grugnito sordo, inquietante, che mi giunge all'orecchio! La macchia di cespugli, che limita la strada, ecco si schiude, ed un leggiadro popolo di quadrupedi, neri e rosei, mi appare.
Il mio filosofo conduceva a spasso un branco di... compagni di sant'Antonio.
Un'altra istantanea: la cascata del Reno. Un effetto di eterna tempesta, di neve vivente e furiosa, qualcosa come il caos, le cateratte del cielo aperte al comando di Dio pel diluvio universale, il frastuono, il rombo di un ciclone in marcia. Le due grosse rocce, erette sull'orlo dell'abisso, ove il fiume precipita, sembrano le pile gigantesche di un ponte di titani stato distrutto in qualche cataclisma.
Una grande roccia, proprio nel punto piú terribile della cascata, appare e scompare sotto la schiuma come il cranio di un gigante sommerso percosso da migliaia di secoli da questa doccia spaventosa.
Si direbbe che è questo gigante, sempre sul punto di affogare, che produce tutto questo formidabile boato che esce dall'acqua.
Sulla piattaforma in ferro dove mi trovo, un gruppo di signore avvolte in un impermeabile (una lira di nolo ciascuno), schiamazza, strilla, ride sotto gli schiaffi d'acqua che il Reno, forse impermalito di essere contemplato troppo da vicino, dispensa a destra ed a sinistra con grande generosità.
In una anfrattuosità della rupe, al disotto di me, noto un ciuffo d'erba disseccata. Disseccata sotto la cateratta di Sciaffusa! In questo diluvio, una goccia d'acqua le è mancata! Vi sono cuori che somigliano a questo ciuffo d'erba. In mezzo al vortice delle prosperità umane avvizziscono! Ohimè! gli è che loro è mancata questa goccia che non sgorga dalla terra, ma scende dal cielo, l'amore...
Un'altra istantanea: una salita a Mürren, in gaia comitiva, verso il tramonto.
Ho detto salita? Avrei dovuto dire ascensione. Si tratta di una funicolare che sale a perpendicolo per oltre mille metri.
Il piccolo vagone, in cui abbiamo preso posto cinque giornalisti torinesi ed un veneziano, cui l'irreparabile perdita del suo campanile non ha tolto il buon umore, il piccolo vagone che sembra essere aspirato verso il cielo dalle due sottili guide d'acciaio, ci solleva da terra come un areostato.
La vallata di Lauterbrunnen, ove si accumulano le ombre della sera, si allarga a poco a poco ai nostri sguardi, scoprendo dorsi di tetti e punte di abeti. In faccia a noi la Jungfrau, una specie di enorme sorbetto alla panna, alto quattromila metri, incendiato dai raggi del sole che tramonta, lentamente va tramutandosi in un sorbetto alla fragola, in una massa d'oro, ove i ghiacci eterni hanno splendori e bagliori di cristalli.
Il vagoncino sale, sale, con un cigolio incessante, tranquillo, persistente, portandoci ostinatamente, vertiginosamente piú in alto, piú in alto, e sembra che la meta, al sommo della rocca, che si erge a picco, man mano si allontani, si faccia piú remota, diventi inaccessibile, voglia nascondersi nelle nuvole...
Mentre siamo cosí sospesi fra il cielo e la terra, piú lontani, invero, dalla terra che dal cielo, un amico, accanto a me, serenamente calcola gli effetti di una caduta.
Una cosa piacevolissima!
Un'altra istantanea, l'ultima, per ora: siamo sulla terrazza dell'Hôtel de L'Epée a Zurigo, al disopra della Limmat, ed in faccia al lago.
È la sera: l'aria ha il sentore dell'aria di Venezia: un sentore vago di pianta acquatica, di reti ancora bagnate, di brezze passate sovra una laguna. Un vaporetto che fischia in lontananza sembra giungere dal Lido...
La kellerina che mi ha servito la cena e versato il caffè mi lascia alle mie fantasticherie: si siede sotto la lanterna, che sola illumina il terrazzo, trae di tasca un libro e si mette a leggere attentamente alla luce scialba, vacillante.
Che diavolo di romanzo può interessare questa ragazza?
Quali inverosimili avventure, quali melodrammatici idilli possono appassionarla cosí! È Ponson du Terrail? È Xavier de Montepin? È Boisgobey? È Richebourg? Quale dei mille ed uno romanzieri di appendice che hanno virtú di far palpitare le portinaie e le cuoche!
Uno squillo impertinente di campanello elettrico strappa improvvisamente la fanciulla alla sua lettura e la chiama di dentro.
Il libro è abbandonato sulla seggiola, e mi avvicino tosto, curioso, per sorprenderne il titolo... Sono le lettere di Madame de Sevigné!