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Michele Lacetera
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INTRODUZIONE

     “Molta parte dell’anima nostra è impastata di dialetto”, affermò Benedetto Croce in uno dei suoi numerosi scritti dedicati alla nascita e all’evoluzione della lingua italiana. Lo studioso di Pescasseroli, attraverso un’analisi puntigliosa e rigorosa di modi espressivi, di tecniche narrative, di varietà lessicali presenti in opere di poeti, scrittori e pensatori, cercava di dimostrare che il dialetto costituisce in molti casi la nervatura e la base non solo delle lingue parlate dal popolo ma anche di quelle usate dai poeti e dagli scrittori. Un lento e incessante evolversi dalla semplicità alla complessità, dall’ingenuità alla riflessione. Una specie di zoccolo duro sul quale si sono innestate molteplici novità fatte di parole nuove, di parole più largamente conosciute e comprese per soddisfare il bisogno di guadagnarsi territori sempre più vasti e meno angusti. Dialetto madre generatrice della lingua colta e letteraria. Si trattava di una assoluta verità che già allora, son passati cento anni dalle parole crociane, fotografava la realtà. Linguaggi che si andavano perdendo e nello stesso tempo davano origine ad altri modi di parlare che sempre più si discostavano dalle parlate locali.

            Il tempo non ha arrestato questa tendenza, ma al contrario l’ha potenziata e resa assolutamente irreversibile. Le parlate dialettali si son come rattrappite e ripiegate su se stesse, si sono rinchiuse in recinti sempre più piccoli e son divenute strumenti di basso uso, patrimonio, ormai irrimediabilmente contaminato, di una minoranza esigua di parlanti.

            È il destino delle lingue che non producono più cultura perché innestate in contesti diversi da quelli in cui erano nate e si erano diffuse, dove sono accaduti fatti e fenomeni che hanno sconvolto e rivoluzionato modi di vita, hanno cambiato il sistema delle relazioni tra le persone, in altri termini hanno cambiato la vita delle popolazioni. La lingua non è un abito buono per tutte le stagioni che si indossa a piacimento. La lingua è un organismo vivo che partecipa alla vita e alla morte, alle rinascite e ai tramonti delle civiltà. Uno strumento duttile che si presta a manipolazioni di ogni sorta la cui sopravvivenza è legata a fattori che in qualche modo le sono estranei e verso i quali essa come lingua nulla può. Se pur delle lingue che avevano raggiunto alti livelli espressivi, usate da filosofi poeti e narratori sono state spazzate via e rimesse in qualche museo, quale resistenza può offrire un mezzo espressivo tanto più debole come può esserlo una parlata dialettale?

            Tutti abbiamo assistito negli anni passati ai tentativi tra l’ingenuo e il velleitario, fino ad assumere forme di autentico terrorismo linguistico, operati da quelli della Lega alla caccia di identità perdute che si cerca di far rivivere semplicemente modificando qualche cartello stradale dove Milano e Bergamo diventano Milan e Bergheim o abbeverandosi nelle acque del dio Po alle sorgenti del Monviso. Tentativi patetici e stravaganti. Delirio puro. Assurdità utili forse a raccattare qualche consenso non certo a ridare vita ad un sistema linguistico non più idoneo a stabilire relazioni e rapporti tra le persone. E se una lingua non riesce a realizzare tale obiettivo è una lingua finita.

            Come può essere perseguito un traguardo del genere, come ridare vita ad un organismo senz’anima e sangue in un mondo in cui tutti ormai diciamo good bye, week end ed altro ancora? Dove ormai non si dice più fare la spesa ma fare shopping? Non li sentiamo


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i nostri ragazzi a perfetto agio tra SMS, playstation, gameboy, mouse e via cantando? Questo è il nuovo dialetto, la lingua di tutti, che ti apre il mondo della tecnologia e ti fa sentire cittadino globalizzato e aperto alle novità. Un linguaggio che travalica il tuo paese, la tua nazione e addirittura il tuo continente. Può non piacere, ma le cose stanno esattamente così. Ci sono certamente esagerazioni e si paga un tributo troppo pesante alla moda e alle tendenze dettate dalla televisione, fucina oltre che di scempiaggini anche di parole e modi di dire.

            Ben consapevole della inarrestabilità del fenomeno qui descritto, anzi, proprio perché pienamente consapevole, ho rimesso mano al libro sul dialetto zagarolese che vede la luce con un’altra impostazione, come una piccola enciclopedia paesana in grado di raccogliere in breve le storie, narrate attraverso le parole, vissute nella terra degli zagarolesi. Molte centinaia di vocaboli sono stati aggiunti all’edizione del 1982 a confermare il fatto che un libro sul dialetto, così come pure un vocabolario, non può mai dirsi finito e mai si può essere certi di aver raccolto tutto. Si tratta di libri, quelli sul dialetto, che devono rimanere sempre aperti per raccogliere in ogni momento i ricordi che affiorano e diventano parole che hanno assunto ormai suoni poco familiari alle orecchie dei più. E tutto ciò nel tentativo di non disperdere nel nulla esperienze di vita importanti e per lasciare una traccia, labile e debole quanto si voglia, ma pur sempre una traccia di un passato certo non glorioso e altisonante ma sicuramente dignitoso e meritevole di avere un posto nel cuore e nelle menti delle future generazioni di zagarolesi. Ciò sia detto senza enfasi retorica e senza nessuna nostalgia per un passato fatto per lo più di fatica, sofferenza e privazioni. Sarebbe un autentico nonsenso offrire una visione edulcorata di un mondo dominato dalla fame, dall’ignoranza e in molti casi dalla disperazione generata dalle difficoltà della vita quotidiana.

            Zagarolo come tante altre realtà italiane si avvia a diventare altro da ciò che era e anzi per buona parte lo è già diventato, a contatto con altre parlate, con altre religioni, con altri suoni, con altre culture, con altri mondi che sono penetrati dentro casa nostra. Siamo di fronte a problematiche difficili e dure da gestire, che ci hanno tuttavia cambiato e ci hanno additato altre strade per il futuro nostro e di quelli che ci seguiranno.

            Globalizzazione, multietnicità e multiculturalismo sono oggi i fenomeni da governare se non si vuole esserne travolti. Molta parte del futuro prossimo dipenderà da come tali fenomeni verranno affrontati.

            L’Amministrazione comunale sponsorizza questo libro e merita tutta la mia amicizia. Mi si consentirà di dire un grazie particolare all’assessore per le politiche scolastiche Marco Pacifici generoso di attenzione e disponibilità.

 Gli “Amici di Zagarolo”, l’Associazione che tanti meriti ha acquisito agli occhi dei cittadini zagarolesi curerà la diffusionedi questo lavoro.

            Tanti altri mi hanno aiutato nella ricerca e, a distanza di più di venti anni, si è simpaticamente ripetuta la caccia alle parole perdute e alle abitudini dimenticate.

            Grazie a tutti.

                                                                                  Michele Lacetera




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