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Michele Lacetera Persone Storie Parole IntraText CT - Lettura del testo |
Le attuali trasformazioni strutturali e
culturali stanno spazzando via perfino il
ricordo di una città (Roma), di una società,
di una lingua già scomparse. (Mario
Sanfilippo nella prefazione al volume
“La lingua di Roma” di Lino Cascioli).
saèttula, s. f. tralcio di vite in grado di
emettere radici e generare una nuova
sagna, s. f. impasto con acqua, farina, a
volte uova, per ricavarci tagliatelle o altri
sagnoccone, s. m. ingenuo, sciocco, credulone.
Sagra dell’uva, si celebra ogni anno nella
Certamente la più sentita manifestazione
paesana pensata e realizzata durante gli anni
per celebrare i protagonisti della vita quotidiana
della gran parte degli abitanti di Z.
l’uva, la vigna, il vino. Così è stato per
decenni fino agli anni Settanta allorchè il
vino, la vigna e l’uva comninciarono a perdere
la loro centralità nella vita degli zagarolesi
e a contare sempre meno nell’economia
paesana. L’organizzazione della Sagra costituiva
un fatto corale a cui partecipavano davvero
tutti, orgogliosi di mostrare ai visitatori
che giungevano numerosissimi dai paesi
vicini e dalla non lontata Roma il frutto del
lavoro nelle campagne e nei tinelli.
Un palcoscenico ideale, una vetrina per fare
pubblicità al vino prodotto sui colli zagarolesi,
ai piatti tipici del luogo e alla produzione
artigianale. Il contadino di Z. alla ribalta
primo attore della Sagra. Tutto il paese vestito
a festa, le vie e le piazze del centro storico
trasformate in vigne a filari ricolmi di
uva, grandi festoni ad abbellire portoni e
vetrine di negozi. Luminarie, musica, spari e
infine la grande vendemmiata per la gioia
dei visitatori forestieri ai quali non sembrava
vero potersi impadronire di grandi quantità
di uva. Popolazione festante ed euforica.
Il tempo è passato, le vigne sono quasi del
tutto sparite, la terra non piace ai giovani, la
Sagra viene ancora celebrata ma non è più la
stessa. È una festa come tante altre, la gente
ancora scende e si scioglie per le strade e
rivela la voglia di partecipare e divertirsi. La
vigna, l’uva sono lontane, non sono più il
vissuto quotidiano di migliaia di persone,
appartengono alla memoria e se ne trova
traccia nei libri di storia. Alla vecchia denominazione
si è aggiunta quella di Sagra del
folclore in quanto nella medesima occasione
convengono a Z. gruppi folcloristici provenienti
da tutte le regioni italiane che si esibiscono
nelle danze e nei canti dei luoghi dai
quali provengono. La Sagra fu istituita nel
1930 e da allora ha subito l’interruzione
durante gli anni della seconda guerra mondiale
e quelli immediatamente successivi,
precisamente dal 1940 al 1952.
Sagra del tordo matto, istituita nell’anno
2000 per celebrare il prodotto più tipico
della cucina zagarolese si svolge nel mese
di giugno inserita tra i festeggiamenti in
onore di S. Antonio di Padova. Stand
gastronomici esaltano le qualità di questo
esclusivo piatto locale. (tordo matto, v.)
Sagum, denominazione dell’Associazione
dei commercianti e degli artigiani di
Zagarolo. L’Ass.ne ha il compito di tutelare
gli interessi delle categorie rappresentate
nei confronti di terzi e costituisce l’interlocutore
naturale dell’Amministrazione
comunale. Organizza incontri con i
consumatori e corsi di aggiornamento professionale
per i suoi associati.
salamanna, s. f. uva da tavola che si usava
far essiccare per la confezione di dolci fatti
a casa. È il nome di un vitigno e di un’uva
pregiata da tavola con grossi acini croccanti
dal sapore moscato assai piacevole.
sallita, s. f. salita, strada in forte pendenza.
San Cesareo, comune a pochi chilometri
da Z. sulla via Casilina. San Cesaru, per
gli zagarolesi.
Agli inizi del 1900 la miseria e la fame
spinsero alcune centinaia di abitanti di
Capranica Prenestina ad abbandonare il
loro paese per cercare fortuna nella tenuta
di S. Cesareo. Alcuni nuclei familiari
giunsero pure dalle Marche e dall’Emilia
Romagna. Sorse un villaggio di capanne
su un terreno messo a disposizione dai
Rospigliosi, signori del luogo. Si producevano
fagioli, mais, grano, patate e avena.
Vita dura. Stenti e sacrifici.
Nel 1915 il territorio di S. Cesareo, che è
frazione del comune di Zagarolo, viene
attraversato dalla ferrovia Roma-Fiuggi.
Intanto sorgono le prime case in muratura
e il primo nucleo abitativo viene inaugurato
nel 1927. Il paese cresce, i suoi abitanti
si distinguono per la dedizione al lavoro e
la voglia di migliorarsi. Nel frattempo la
tratta ferroviaria Roma-Fiuggi cessa la sua
attività. AS. C. sorge un casello dell’autostrada
del sole. I cartelli stradali segnalano
S. Cesareo, frazione di Zagarolo.
Fino alla metà degli anni Ottanta, quando
esplode il fenomeno dell’autonomismo,
che reclama a gran voce la costituzione del
comune autonomo di S. C. Il movimento,
pur tra mille contraddizioni, approfittando
della inettitudine dimostrata dalla classe
politica zagarolese, impegnata in uno
sciocco braccio di ferro contro un’intera
popolazione, riesce ad ottenere l’indizione
di un referendum in cui i soli abitanti della
frazione vengono invitati ad esprimersi a
favore o contro l’indipendenza. 4387 dicono
si, 646 dicono no. Uno scontatissimo
plebiscito. La Regione Lazio ne prende
atto e il 6 dicembre dell’anno 1989 emana
il decreto di riconoscimento del comune
autonomo di S. C. Zagarolo perde la sua
frazione in un dilagare di inutili polemiche
e i sancesaresi, ormai non più capranicotti
(v.) intraprendono orgogliosamente da soli
Il distacco della frazione non è mai stato
sottoposto ad una seria analisi politica e
sociologica e di conseguenza l’avvenimento
è stato subito passivamente dalla popolazione
zagarolese e dalla sua classe dirigente.
Mai un’autocritica e mai un pubblico
mea culpa da parte di una classe politica
che certamente fu affetta da grave miopia
e, nella circostanza, si comportò con
supponenza e presunzione. A nessuno
venne in mente di poter trattare sulla spartizione
del territorio in modo da ottenere,
pur nella dolorosa separazione (ma per chi
fu dolorosa?) condizioni più vantaggiose di
quelle poi effettivamente ottenute. Si obiettò
allora che sedersi intorno ad un tavolo
per delle trattative sarebbe significato
accettare la logica dei separatisti. Se il giudizio
finale su un avvenimento è giusto che
scaturisca dal risultato conseguito si può
affermare, senza tema di smentita, che chi
non volle trattare ebbe sicuramente torto.
Forse inconsapevolmente sapevano che
quel matrimonio era durato perfino troppo.
sàndulu, s. m. padrino, compare che tiene
a battesimo o a cresima il figlioccio.
Sàntolo è termine usato in tutta l’Italia del
Nord. Dal latino “sanctulum”. Romanesco
“zantolo” “me pare mò, ch’er zantolo
a mercato me pagò un zartapicchio e
’na ciammella” (G.G. Belli, Er ricordo).
sanguinacciu, s. m. sanguinaccio. Non veniva
confezionato nelle case ma nelle norcinerie.
Il sangue, appena il maiale era stato
scannato, veniva agitato e rimescolato per
evitarne la coagulazione. Successivamente
veniva condito con zucchero, essenze speziate,
sale, pepe, buccia di arancio e pinoli.
Cotto in una pentola veniva introdotto nelle
budella del maiale stesso e conservato.
Maestro incontrastato dell’arte del sanguinaccio
era ritenuto Diamante lu Cucculu.
San Lorenzo (chiesa di), dedicata al
santo patrono di Z. che viene festeggiato il
10 di agosto. La chiesa, costruita per
volontà di Marzio Colonna agli inizi del
1600, in sostituzione di un’altra sempre
dedicata al santo patrono, sorge in Piazza
G. Marconi, piccolo gioiello architettonico
di pretta scuola vignolesca, dove sorge
anche il palazzo comunale. La chiesa
negli anni ha subito gravi ingiurie da alcuni
terremoti e dal bombardamento aereo
del 29 gennaio del 1944 che causò la
morte di due bambini: Enzo e Mario
Bonafede. La ricostruzione ha modificato
la scala di accesso. All’interno, che è stutturato
a croce latina, è conservato un trittico
di pregevole fattura opera del pittore
Antoniazzo Romano (Antonino Aquili), il
maggior rappresentante della pittura
tardo-quattrocentesca nel Lazio.
San Pietro (chiesa di), situata nel cuore
del centro storico domina con la sua mole
Costruita dai principi Rospigliosi tra il
1717 e il 1722, sorse su un’area occupata
da un’altra chiesa, demolita perché troppo
piccola e inadeguata alle esigenze del
culto. In puro stile barocco a pianta ellittica
con una profonda cupola. Sui sette altari
sono conservati pregevoli dipinti.
Annesso alla chiesa un ampio locale adibito
a sala per conferenze e alla proiezione
di film o a rappresentazioni teatrali
organizzate da compagnie di dilettanti
locali, intitolato a Mario Fani. (v. cinema).
saraca, s. f. in it. saracca e salacca. Sardina
conservata sotto sale, per anni il companatico
principale nell’alimentazione dei più poveri.
Veniva abbrustolita sui carboni ardenti
e condita con olio crudo. Schiacciata tra
due fette di pane. Venduta nelle pizzicherie
era esposta in recipienti rotondi di legno.
Fig. sta per persona magra e allampanata.
sarapica, s. f. zanzara dal lungo pungiglione
dal morso molto fastidioso.
Appartiene alla famiglia dei pappataci.
Fig. avaro, spilorcio, sfruttatore.
sarapulleto, s. m. terreno assolutamente
SARC, cooperativa nata a Z. nel 1988 con
scopi di supporto e assistenza sociale.
Dagli interventi educativo-formativi per
disabili, all’assistenza scolastica e domiciliare
fino alle attività ludiche di intrattenimento
per bambini. Attualmente gestisce
la ludoteca “Girogirotondo” di Genazzano
(v.) e collabora alle attività promosse dal
museo del giocattolo (v.) di Z.
sardamontone, s. m. 1) il gioco infantile
detto della cavallina in cui i partecipanti
stanno piegati in avanti in fila indiana
mentre un altro li salta poggiando le mani
sulla loro schiena e colpendoli con un calcio
nel didietro. 2) capitombolo.
sardapistellu, s. m. cavalletta.
sarementu, s. m. sarmento, tralcio di vite
sàrica, s. f. 1) manicotto di velluto indossato
dalle donne. 2) indumento indossato
dal prete durante alcune funzioni. Der. di
sargia, che a sua volta deriva dal lat. “sarica”,
fatto di seta. 3) casacca da cacciatore.
sartore, s. m. sarto. Femm. sartora.
Lavoravano tanto i sarti e le sarte prima
dell’avvento della confezione e dell’abito
bell’e fatto e le loro botteghe-laboratorio
erano sempre frequentate da chi aveva
deciso di farsi un abito nuovo. La prima
operazione era quella di “prendere le misure”
che venivano annotate su un quaderno:
la spalla. il gomito, il cavallo ecc. Si succedevano
poi alcune sedute durante le quali il
sarto effettuava le prove e prendeva nota di
eventuali correzioni da apportare e di difetti
da correggere. L’ultima prova precedeva
la consegna del manufatto finito e pronto
per essere indossato. Le botteghe erano
sempre frequentate da ragazzi apprendisti.
Non era facile essere ammessi alla bottega
per imparare il mestiere: venivano interessati
amici, compari e parenti per la rituale
raccomandazione. Sarti adesso a Zagarolo
non ce ne sono più.
sarzefine, s. f. pl. in it. radice bianca, verdura
commestibile dalla lunga radice carnosa.
Gli zagarolesi la piantano nei terreni
“scassati”, cioè lavorati in profondità e
costituisce, insieme ai tordi matti, (v.) uno
dei piatti più tipici del paese. Le radici ben
lavate e ridotte a pezzetti di 5-10 cm. Si
mettono in un tegame con olio, aglio,
prezzemolo, pomodoro, sale, peperoncino
unitamente a salsicce o baccalà e si lascia
cuocere a fuoco lento. Si consiglia accompagnarle
sassu bardassa, s. m. erba con effiorescenza
gialla. Usata una volta per confezionare
scope. Con ogni probabilità si tratta
della pianta chiamata “sassifraga”,
cosiddetta perché si riteneva che fosse in
grado di sciogliere i calcoli (che rompeva
i sassi).
sbannimentu, s. m. vendita all’asta, dove
c’è il banditore che ad alta voce legge le
sbarattà, v. tr. sistemare, mettere ordine
eliminando tutto ciò che si ritiene superfluo.
Sbarattare, sbaraccare, sbarazzare.
sbeccà, v. tr. rompere, scheggiare (vasellame,
sbelà, v. tr. scoprire, riportare in superficie,
disseppellire. Contr. “rebbelà” (v.).
sbidentà, v. tr. preparare il terreno per la
semina (specialmente del mais). L’operazione
veniva praticata con il bidente.
sbillentà, v. tr. allentare, ridurre la tenuta
di qualcosa. Agg. p.p. “sbillentatu”.
sbillungone, s. m. spilungone, longilineo.
sbinnonnu, s. m. bisnonno. Femm. “sbinnonna”.
sbinnonnemu, sbinnonnetu” la mia e la
tua bisnonna, il mio e il tuo bisnonno.
sbodigà, v. tr. rivoltare, mettere all’esterno
quello che prima era il rovescio.
sbodigarella, s. f. giravolta, il camminare
a zig-zag.
sbracatu, agg. 1) sbracato, sciatto, disordinato.
2) riferito al giorno significa inoltrato,
sbrasone, s. m. spaccone, gradasso.
sbrillentatu, agg. sfilacciato, disfatto,
sfrangiato. “Aveva un cappottino liscio,
sdrucito e sbrillentato” (P.P. Pasolini,
sbucià, 1) v. tr. bucare. 2) v. intr. sbucare.
sbuciafratte, s. m. piccolo uccello della
famiglia dei passeracei.
scacchià, v. tr. spuntare i tralci della vite.
Pratica agricola estiva che consiste nell’eliminazione
dei germogli improduttivi e
nella preparazione della potatura dell’anno
scacetrà, v. intr. con questo verbo vengono
indicati i versi di alcuni animali dalla cornacchia
alla gallina, dal tordo al fagiano.
scafa, s. f. fava. Dalla forma del baccello
simile ad una imbarcazione.
scafetta, s. f. gesto affettuoso di simpatia
consistente nello stringere delicatamente
la porzione di una guancia tra il dito indice
e il medio.
scafaiolu, s. m. capanno di fortuna usato
dai contadini come ricovero notturno specialmente
al tempo della raccolta del granturco.
In italiano il vocabolo scafaiuolo è
poco usato e indica il barcaiolo, conduttore
di scafa, piccola barca senza vele che ai
tempi dell’antica Roma veniva usata per il
collegamento tra le navi maggiori e la
costa. Questa informazione rende di difficile
lettura il vocabolo usato a Z. e il suo
scagnatellu, agg. non troppo limpido, un
scaicchià, v. tr. disgiungere, spezzare, schiodare.
Cavicchia significa chiavarda e contiene
l’idea di serrare, chiudere ermeticamente.
La “s” privativa-negativa rovescia
il significato della parola senza prefisso.
scaja, s. f. frammento, scheggia.
scajà, v. intr. buscare, essere picchiato.
scalematu, agg. scalmanato, agitato, forsennato.
scallà, v. tr. riscaldare.
scamà, v. tr. pratica agricola consistente
nel separare i chicchi del grano dalle sue
impurità. Il risultato veniva conseguito
con la ventilazione e con la battitura delle
spighe di grano con appositi bastoni chiamati
“frusti e mazzafrusti” (v.).
scampisu, agg. sbadato, imprudente,
incauto. Detto soprattutto di bambini e
ragazzi. “oh, che si scampisu!”.
scanajà, v. tr. controllare, misurare, pesare.
scanajata, s. f. scandagliata, sommaria
scanizza, s. f. sonora sconfitta, batosta.
scanzarote, s. f. 1) una sorta di paracarro
situato a livello stradale, agli spigoli dei
fabbricati, per proteggerli dalle ruote dei
carretti. Fr. id. “tenè lu muccu comme li
scanzarote” (faccia di bronzo). 2) nel
gioco della briscola è una carta di briscola
scapezzà, v. intr. si riferisce all’animale
da soma che mostra di non gradire la
cavezza (o capezza) scuotendo la testa. In
senso fig. si riferisce a chi scuotendo il
capo dimostra di disapprovare qualcosa.
In it. scapezzare o scavezzare significa
capitozzare, potare la cima di un albero.
scapicollasse, v. intr. rifl. precipitarsi, correre
a perdifiato.
scaraccià, v. intr. smottare, franare. Di
terreno impregnato d’acqua che scende a
scarafossu, s. m. strada sconnessa con
scaramuzzà, v. intr. raccogliere frutta in
maniera scriteriata tanto da recare danni
alla pianta e addirittura rovinarla.
Ingaggiare una scaramuccia con la pianta.
Agg. p.p. “scaramuzzatu”.
scardapuzza, s. f. catapuzia, “Euphorbia
lathyris”. Origini Europa e Italia. Ha
infiorescenze circondate da brattee gialle
e compaiono in giugno-luglio. Tutta la
pianta è velenosa e le sue foglie hanno un
scarginatu, agg. scalcinato, malridotto,
male in arnese, senza un quattrino.
scarpiàttula, s. f. persona deforme, di
scartoccià, v. tr. spannocchiare, liberare
dalle brattee la pannocchia del mais.
scarzà, v. tr. scalzare, rimuovere la terra
intorno alle radici di una pianta.
scarzata, s. f. gesto minaccioso consistente
nell’apporre due dita sulla gola di una
scarzocchiu, s. m. sperma.
scassà, v. tr. dissodare a fondo un terreno
per l’impianto di un nuovo vigneto.
scassato, s. m. terreno dissodato e pronto
scassinu, s. m. 1) gomma per cancellare.
2) cancellino per la lavagna.
scastelluccià, v. tr. disfare una catasta di
oggetti precedentemente ordinati. Come
distruggere un castello.
scatalettu, s. m. scaldaletto, contenitore
di rame riempito di brace ardente per scaldare
le lenzuola.
scatarciu, s. m. sputo catarroso.
scatarru, s. m. come scatarciu.
scatorciu, s. m. 1) pannocchia del mais
senza i grani. 2) torso di mela o di frutto
simile. 3) ferrovecchio, trabiccolo, rottame.
Fig. persona malandata, in cattivo
scaulà, v. tr. travasare il vino. L’operazione
si effettua aprendo la “càula” (v.) e permettendo
al vino di fuoriuscire dalla botte.
scauzone, s. m. trascurato, trasandato,
scegne, v. tr. scendere. p.p. “scendo”.
scelloni (a), loc. avv. barcollando (camminare).
scendilena, s. f. lampada ad acetilene.
scendoncella, agg. trasandata, sciatta, trascurata.
scendone, s. m. gonna ampia e lunga fino
ai piedi.
scenicà, v. tr. ridurre in pezzi, stritolare.
scenicatu, agg. lacerato, triturato, ridotto
in pezzi.
scennicatezza, s. f. apatia, debolezza fisica.
scerne, v. tr. vedere. Scernere nel linguaggio
letterario sta per scernere, scorgere,
der. di discernere con aferesi. Il diz. De
Mauro annota la particolarità del passato
remoto di questo verbo che è scersi, (scernei,
scernetti), scernesti, scerse, (scernè,
scernette), scersero, (scernerono, scernettero.)
scerre, s. m. 1) usciere. 2) il messo del tribunale
incaricato di notificare i sequestri
patrimoniali e le convocazioni presso i
giudici. 3) messo esattoriale.
schiametta, s. f. bava del cavallo.
schiattà, v. intr. scoppiare, crepare, morire.
Chi muore all’improvviso, per un infarto o
comunque per un malore non annunciato,
si dice che muore “schiattatu”.
schiazza, s. f. scheggia di legno che schizza
via sotto i colpi dell’accetta. In senso
fig. “fare le schiazze” significa furoreggiare,
avere grande successo, suscitare
schìcchera, s. f. 1) schiaffone, ceffone,
cazzotto. 2) scoppio fragoroso di un tuono
schioppà, v. intr. scoppiare e anche morire.
schioppetta, s. f. fucile da caccia.
schioppu, s. m. schioppo, fucile da caccia.
schizzu, s. m. rudimentale giocattolo ricavato
da uno spezzone di ramo di sambuco
opportunamente svuotato per formare una
cerbottana munita di un pistone chiamato
I proiettili sparati erano costituiti o dai
frutti dell’alloro rotondi come pallottole o
da pallottoline di carta pestata in bocca. Il
divertimento consisteva nel sentire il botto
che lo strumento faceva alla fuoriuscita
del proiettile. Si svolgevano vere e proprie
gare a chi copriva la distanza maggiore.
sciacquatore, s. m. lavello, lavandino.
sciacquoni, s. m. uovo guasto.
scialappa, s. f. gialappa (pianta originaria
del Messico da cui si estrae una sostanza
con proprietà purgative). Sta per saporaccio,
sapore assai sgradevole riferito
soprattutto al vino.
sciamannone, s. m. disordinato, dimesso
nell’aspetto complessivo.
sciamannu, s. m. vestito muliebre lungo
fino ai piedi. In romanesco indica “indumento
sgualcito, logoro e di foggia modesta”
(De Mauro).
sciarabballe, s. m. calesse. Evidente francesismo
da “char e balle” (carro e carico).
sciattu, s. m. impiccio, briga, bega.
scicià, v. tr. liberare i legumi dal baccello.
scifa, s. f. vassoio di legno, usato come
piatto, di forma rettangolare. Veniva collocato
al centro della tavola e vi mangiavano
tutti i componenti della famiglia. Dim.
maschile “scifellu”. Fig. piede molto
lungo.
In archeologia lo scifo è “un tipo di vaso a
forma di tronco di cono rovesciato, molto
capace, usato nell’antica Grecia”. (De
Mauro).
scingià, v. tr. sgualcire, ridurre in brandelli.
Der. di scindere, frazionare, dividere.
sciorda, s. f. diarrea. In it. nel linguaggio
familiare esiste il vocabolo sciolta.
sciornu, s. m. sciocco, sventato, poco
accorto. Dim. “sciornettu”.
sciotu, agg. p.p. sciolto, libero. Di persona
fastidiosa e importuna si suol dire per manifestare
il fastidio arrecato dalla sua presenza
“ma quillu, chi l’à sciotu?”. Il verbo da
cui trae origine è “scioje” (sciogliere).
sciugnògnolo, agg. scivoloso. sdrucciolevole.
scoccià, v. tr. 1) disturbare, dare fastidio.
2) rompere, distruggere. Noci, mandorle o
nocciole “scocciate” sono quelle liberate
del loro guscio.
scocciapàmpane, s. m. rompiballe, seccatore,
scocciapiatti, s. m. ciclamino.
scoccione, s. m. operaio addetto alla frantumazione
di grosse pietre. La breccia che
se ne ricavava veniva utilizzata nella
costruzione delle strade.
scognogne, v. tr. disgiungere, spezzare in
più parti. Agg. p.p. “scognontu” e “scognògnitu”.
sconfittu, s. m. il suono delle campane
all’ora del vespro. Fr. id. “Quanno sona lu
sconfittu, tutti li frati a culu rittu”.
sconocchià, v. tr. ridurre una persona in
cattive condizioni con modi bruschi e violenti
(in uso in tutta l’Italia centrale). In it.
il verbo che appartiene al mondo della tessitura
significa trarre dalla conocchia il
pennecchio che vi è avvolto. È poco usato.
In Toscana, invece, significa mangiare con
scopetta, s. f. dim di scopa. Fig. sfacciata,
scopija, s. f. erica, pianta con foglie acuminate
usata per confezionare scope. È
scoppatu, agg. sfaldato, frantumato, disgregato.
scòrfanu, s. m. deforme, di aspetto sgradevole.
scorporisse, v. rifl. 1) spaventarsi a morte.
2) impegnarsi in un lavoro totalmente inutile
e infruttuoso.
scortà, v. intr. finire. Il regionalismo centrosettentrionale
corto, accorciare. Si nota chiaramente
l’idea di ridurre e da qui al nostro “finire”
il percorso è molto breve. Dal lat. “ex curtare”
(assottigliare, ridurre, amputare).
scorzu, s. m. unità di misura di superficie
agraria equivalente a 1. 000 mq. In realtà
lo scorzo equivaleva ad un sedicesimo del
scoticà, v. tr. rosicchiare la carne intorno
all’osso. Il regionalismo toscano “scoticare”
significa privare della cotenna, ripulire
della carne che vi è rimasta attaccata.
scotrinà, v. tr. scrutare, guardare con
attenzione, probabile deformazione di
scrutinare che nel linguaggio della burocrazia
screpante, s. m. bello ma di modi volgari,
arrogante, smargiasso, vestito in maniera
vistosa. “Pijjava li bburini ppiù screpanti”
(G.G. Belli, Santaccia de piazza Montanara).
Probabile derivazione di Sacripante,
personaggio di poemi cavallereschi.
scrià, v. tr. annullare, distruggere, far
venire meno qualcuno per la paura, per la
disperazione, per il dolore. Der. da un inesistente
“screare”, il contrario di creare.
scrocchià, v. intr. scricchiolare, produrre
scrocchiarellu, agg. che scrocchia, croccante
(pane, biscotti, pizza, grissini e altro).
scrocchiu, s. m. rumore secco, scricchiolio.
Di origine onomatopeica.
scucchia, s. f. mento sporgente e appuntito.
In uso in tutta l’Italia centrale.
scucchione, s. m. fornito, dotato di scucchia
(v.).
scujasse, v. rifl. farsi male a seguito di uno
sforzo fisico eccessivo. Letteralmente
farsi venire l’ernia.
scujatu, agg. p.p. sofferente di ernia.
scuju, s. m. spicchio di noce, il quarto del
scuppulà, v. tr. scoperchiare, mettere allo
scurìa, s. f. peto, scoreggia.
scurià, v. intr. scoreggiare.
sdelamatu, agg. (terreno) franato.
sdelamu, s. m. frana, smottamento.
sdeloffatu, agg. p.p. stanco morto, sfinito,
senza più forze.
sdelongasse, v. rifl. cadere lungo per terra,
allungarsi, sdraiarsi comodamente. Agg.
p.p. “sdelongatu”.
sdeluffà, v. tr. rompere la schiena, picchiare
di santa ragione, rompere i lombi
sdeluffasse, v. rifl. stancarsi fino a rompersi
i reni.
sdemette, v. tr. distruggere, rovinare,
sderazzà, v. intr. allontanarsi dalla propria
razza perdendone le caratteristiche.
sderenà, v. tr. picchiare, spossare, sfiancare,
sderenasse, v. rifl. stancarsi a morte,
sfiancarsi, spezzarsi i reni. Agg. p.p. “sderenatu”.
sderuzzà, v. tr. togliere, liberare dalla ruggine
(ruzza, v.) Termine usato per specificare
la necessaria operazione sulla vanga
che, per risultare efficiente, deve essere
sdeusatu, agg. abbattuto, spossato, affranto.
sdignà, v. tr. rendere indegno, violare. Se
qualcuno tocca le uova riposte in un nido
si dice che quelle uova non si schiuderanno
mai perché, essendo state “sdignate”,
saranno abbandonate e non più covate.
sdòlega, v. impers. usato alla terza persona
singolare e, riferito per es. ad un arto
dolorante, significa che il dolore non
accenna a sparire. “Ssu racciu non se sdòlega”
(questo braccio continua a dolermi).
Il verbo sdogliarsi, poco usato, ha un
sdongu, agg. stanco, malfermo sulle gambe.
sdrucione, s. m. trasandato nell’abbigliamento,
sciatto, che ha poca cura della propria
persona. Da “sdrucio”, sdrucito, scucito,
secca, s. f. 1) siccità. 2) gelata.
seccatìa, s. f. siccità, lungo lasso di tempo
senza piogge.
sècina, s. f. segale. Era considerata il
grano dei poveri. Se ne ricavava una farina
scura e un tipo di pane quasi nero.
sèllaru, s. m. sedano. In tutta l’Italia centrosettentrionale
semmulosu, agg. lentigginoso. I dizionari
italiani registrano il termine “semoloso”
nel senso che contiene semola. In senso
fig. assume lo stesso significato che ha nel
senato, agg. lesionato, danneggiato. Di
bicchiere, tazza, piatto. muro e altro.
sensala, s. f. erba selvatica che infesta i
senzarìa, s. f. senseria, attività mediatrice
serciarolu, s. m. selciatore, operaio addetto
a mettere in opera le pietre per la pavimentazione
delle strade. In Toscana dicono
“selcino”.
serciu, s. m. pietra, sasso, sampietrino. Il
sampietrino a Roma era sia l’operaio
addetto alla manutenzione della Basilica
di San Pietro che la pietra usata per la
pavimentazione delle strade di Roma e di
serementà, v. intr. pratica agricola che
consiste nel raccogliere i tralci della vite
sottoposta a potatura. Si raccolgono in
fasci destinati al fuoco e si chiamano
“fascinelle” (v.).
serta, s. f. treccia di aglio, cipolla e altro.
Da serto che nel linguaggio letterario
significa ghirlanda, qualcosa di intrecciato.
Dal lat. “sèrere”, intrecciare.
servitù, s. f. l’insieme delle sostanze chimiche
usate durante la lavorazione del
vino e in modo particolare la colla schiarente
che si dà al vino per farlo diventare
seta, s. f. setaccio, utensile da cucina per
separare la farina dalla semola. Anche
“setaccetta” e “setacciu”.
sètula, s. f. setola di maiale, cinghiale ecc.
seu, agg. pr. poss. m. s. suo. Le altre forme
sono: sea, see, sei (sua, sue, suoi).
sfogatellu, s. m. sfogatello, fungo novembrino
che nasce alla base di alberi, specie
secchi. Si sviluppa in famigliole.
sfonnone, s. m. errore madornale, sfondone.
sformà, v. intr. restare attonito tanto da
perdere la forma e non riconoscersi più.
sfornaticciu, s. m. residuo di calore nel
forno sfruttato per la cottura dei dolci.
sfraujà, v. tr. spappolare, sbriciolare. Agg.
sfrézzula, s. f. sasso piatto di forma tondeggiante
particolarmente adatto ad essere
lanciato con la “mazzafionna” (v.).
sfrìzzulu, s. m. frammento di grasso di
sfrocià, v. intr. starnutire, soffiare dalle
narici proprio del cavallo. Emettere rumore
dalle frogie.
sfruuià, v. tr. 1) sfrondare, sfoltire. 2)
stuzzicare. Dal napoletano “sfruculiare”.
sgagnulà, v. intr. guaire del cane. Da
sgamà, v. tr. 1) vedere. 2) accorgersi di
qualcosa volutamente nascosto.
sganassone, s. m. ceffone. In it. anche
sgarà, 1) v. intr. sbagliare. 2) strappare,
lacerare. In uso in tutta l’Italia centro
sgargamella, s. f. manrovescio.
sgattameu, s. m. fannullone, buono a nulla.
sghemma, s. f. 1) colpo, urto, scontro. 2)
sgommarà, v. tr. spostare messerizie, traslocare,
sgommarellu, s. m. mestolo.
sgraà, v. intr. sgravarsi, partorire. Si partoriva
in casa e spesso in condizioni igieniche
precarie. In molte case mancava
l’acqua corrente e quando era il momento
occorreva industriarsi alla meglio.
Le partorienti erano seguite durante tutti i
nove mesi della gravidanza dall’ostetrica
condotta che naturalmente le assisteva
durante il parto e nel primo periodo dell’allattamento.
una dipendente del Comune assunta per
concorso pubblico. L’assistenza era gratuita.
Era ai primi passi il servizio sanitario
nazionale. A Z. si ricordano due ostetriche
che prestarono il loro servizio
durante gli anni duri della seconda guerra
mondiale e in quelli successivi: madre e
figlia, Cecilia Fontana (sora Cicia) e
Angela Minetti (sora Angelina). Sono
state le ultime due levatrici di condotta
prima che si prendesse la sana abitudine di
andare a partorire negli ospedali. La condotta
intesa come assunzione di un professionista
in un pubblico ufficio venne abolita
negli anni Ottanta del Novecento. La
sua abolizione fu inserita nella riforma
complessiva del servizio sanitario.
Per un certo tempo presso l’ospedale di
Zagarolo ha funzionato un piccolo reparto
di ostetricia e ginecologia e le donne vi
partorivano. Dopo la sua chiusura, (il servizio
fu trasferito presso l’ospedale di
Palestrina) avvenuta nei primi anni
Ottanta si partorisce a Palestrina, a
Frascati o a Roma. Da allora a Zagarolo
sgraffignà, v. tr. graffiare.
sgraffignu, s. m. graffio.
sgramiccià, v. tr. liberare il terreno dalla
gramigna (ramiccia, v.), bonificare un terreno.
sgricià, v. tr. graffiare, segnare con un’incisione.
sgrignarellu, s. m. vortice di vento, mulinello.
sgrignu, s. m. scrigno, cassetta, cofanetto.
Più in generale indicava anche generici
contenitori di oggetti casalinghi.
sgrìgnula, s. f. scricciolo, piccolo e paffuto
uccelletto bruno dal trillo prolungato.
sgrinfia, s. f. bambina dispettosa, irritante,
molesta. In it. grinfia significa artiglio.
sgrotta, s. f. lavoro praticato su un terreno
con il bidente (v.) per consentire di rivoltarlo.
sgrottà, v. tr. 1) portare il vino fuori dalla
grotta. 2) dissodare un terreno e fare in
modo da rivoltarlo a fondo. La pratica veniva
attuata quando occorreva predisporre un
terreno all’impiamto di un nuovo vigneto.
sgrugnà, v. tr. rompere il grugno, colpire di
santa ragione. In uso nella lingua italiana.
sgrugnasse, v. rifl. scontrarsi, picchiarsi,
sgrugnonottu, s. m. schiaffone.
sgrullà, v. tr. sgrullare, scuotere, agitare.
sgrullone, s. m. violento rovescio d’acqua,
acquazzone di forte intensità. In it.
scrollone significa scossone, strattonamento
signòre, s. f. pl. l’insieme dei chicchi del
granturco soffiato ottenuto ponendoli su
un fuoco assai vivace in un recipiente
coperto in un filo d’olio. (pop corn) I chicchi
del granturco così trattati assumono
forme strane e capricciose tanto da sembrare
delle signore guarnite per di più di
cappello. Degno di nota l’accento grave
sulla penultima sillaba se si consideri che
lo zagarolese per indicare il plurale di
signora dice signore non signòre. Forse
per un’avvertita necessità di operare una
distinzione tra i due significati.
SINDACU, s. m. sindaco. Finita l’epoca
dei prefetti e dei podestà che erano di
nomina governativa è iniziata, appena
chiuse le ostilità di quel grande massacro
che fu la seconda guerra mondiale,
quella dei sindaci eletti dai cittadini in
libere competizioni elettorali, che si
sono succeduti nel seguente ordine:
I sindaci di Zagarolo dal 1944 ad oggi
De Rossi Cesare, professione sarto (nominato sindaco con decreto prefettizio del 13.12.1944 e successivamente
eletto nelle prime libere elezioni del dopoguerra per due legislature e rimasto in carica fino al
1954). Una strada di Zagarolo porta il suo nome.
Zintu Antonello, professore di storia dell’arte (assume la carica il 15 settembre del 1954). Appassionato
cultore della classicità latina e greca provò a restituire agli zagarolesi l’orgoglio delle proprie origini
legate, in qualche maniera alla storia di Roma. Gli è stata intitolata una strada.
Borzi Giuseppe, funzionario INPS (vince le elezioni del 1956). Nelle elezioni politiche del 1978 per il
rinnovo del Parlamento venne eletto senatore.
Zintu Antonello (rieletto nel 1960).
Sacco Felice, ingegnere (elezioni del 1964). A lui è intestato il nuovo palazzetto dello sport.
Caramanica Tarquinio, professore di musica (nominato sindaco nel marzo del 1967). Gli sono state
intitolate una strada e una scuola comunale d’arte che avvia i giovani allo studio della musica e del canto.
Rinaldi Michele, geometra presso la Provincia di Roma (sindaco dal 22.7.1970 al 19.8. dello stesso
anno).
Caramanica Tarquinio (sindaco dopo le elezioni del 1971).
Mastrangeli Elio, coltivatore diretto (nominato sindaco il 26.4.1973). A lui è stato intitolato il campo
sportivo. Affettuosamente soprannominato Lu magu.
Panzironi Laura, commerciante (sindaco dopo le elezioni comunali del 20 giugno 1976).
Pisa Antonio, impiegato delle poste (diventa sindaco il 13 gennaio del 1978).
Quaranta Franco, avvocato (nominato sindaco l’11 febbraio 1981).
Mariani Marcello, medico chirurgo (sindaco dopo le elezioni del giugno 1981).
Calzoletti Edoardo, funzionario Ministero del lavoro (sindaco dal 1987 al 1993). Ha ricoperto anche la
carica di assessore provinciale al Bilancio.
Vallerotonda Sandro, funzionario ACI (eletto sindaco per la prima volta nel giugno del 1993 e riconfermato
per due legislature fino al 2000). Nel 1995 eletto con la nuova legge elettorale che prevede l’elezione
Leodori Daniele, funzionario Regione Lazio eletto nel 2000 e riconfermato nel 2005. Ricopre anche la
carica di consigliere provinciale.
sinende, prep. avv. fino. Indica il limite al
quale si arriva “sinende a dimà” (fino a
domani). Si usa anche “finende” (v.).
Sinergie, associazione culturale fondata
nel 2000 con lo scopo di valorizzare la
storia, la cultura, la tradizione del paese
onde evitare che una cospicua parte della
vita di un’intera comunità cada nell’oblio
e cessi di essere patrimonio comune.
Esplica la sua attività attraverso mostre,
pubblicazioni e ricerca sul territorio.
smarzà, v. intr. superare il mese di marzo.
smelatu, agg. smielato, eccessivamente
smicià, v. tr. frugare, indagare, adocchiare,
sbirciare. Con lo stesso significato i
dizionari italiani registrano il termine
“smicciare” e lo classificano un regionalismo
dell’Italia centromeridionale.
smiciata, s. f. sguardo sommario, sbrigativo.
smogne, v. tr. rovistare, mettere a soqquadro.
smonicasse, v. rifl. abbandonare lo stato
monacale e tornare allo stato laicale. Agg.
p.p. “smonicatu” . In italiano spretarsi e
smorganà, v. tr. livellare un terreno servendosi
smucinà, v. tr. smuovere, mettere sottosopra,
rovistare. Da rimuginare.
smunnulà, v. tr. indossare degli indumenti
per poco tempo e poi rimetterli a posto.
Gli abiti così trattati vengono detti “smunnulati”.
sobboticà, v. tr. rigirare, rivoltare. Forma
rifl. “sobboticasse”.
soccia, s. f. la cliente del fornaio.
Quando il pane veniva confezionato in
casa, il fornaio, all’ora stabilita, “dava una
voce” alle sue clienti e le invitava a portare
il pane al forno per l’infornata. Quando
questa operazione aveva inizio, ancora in
piena notte, si diceva che il fornaio andava
“a commannà” (v.) Una sorta di chiama
o appello nominativo che avveniva in
due tornate successive. Le cose andavano
così: le donne prenotavano la cottura del
loro pane e il fornaio ne prendeva diligentemente
nota sul suo quadernetto. Quando
durante la notte il forno veniva aperto, il
fornaio faceva il primo giro e avvisava le
donne invitandole, ad alta voce, ad alzarsi
per iniziare le operazioni di impasto
(Nannì, fa’ lo pa’). Intanto era stato acceso
il fuoco nel forno e quando il calore era
sufficiente il fornaio faceva la seconda
uscita per la chiamata definitiva (Nannì,
porta!). L’operazione di cottura poteva
avere inizio.
Il posto migliore all’interno del forno era
considerato quello al centro dove il calore
era più uniforme e per tradizione spettava
a chi aveva effettuato per prima la prenotazione.
Non mancavano i battibecchi che
toccava al buon senso del fornaio sedare.
Per riconoscere il proprio pane le donne
usavano un segno di riconoscimento che
poteva essere il disegno di una lettera dell’alfabeto
o altro simile praticato sulla
socciu, s. m. amministratore di un’azienda
agricola. La sòccida è un contratto agrario
di tipo associativo e il soccio è colui che
soccupatu, agg. indica la condizione di
disagio di chi si trova in un ambiente troppo
sodo, agg. incolto, terreno abbandonato.
Un terreno non lavorato sta “’n sodo”.
sòera, s. f. inv. l’albero del sorbo e il suo
frutto. Una delle piante praticamente sparite
dalle campagne zagarolesi.
soerchiu, s. m. agg. superfluo, soverchio.
sòla, s. f. regionalismo centromeridionale,
solaru, s. m. solaio. Poco usato in italiano
sòlegu, s. m. solco. Al pl. “le sòlega”.
solu, s. m. tortiera, recipiente metallico
dal bordo basso per cuocere biscotti o
altro al forno. Quando nelle case non si
disponeva ancora degli elettrodomestici,
per cuocere dolci come torte o ciambelle,
patate, zucche o altro bisognava rivolgersi
al fornaio.
somaracci (a), loc. avv. gioco infantile a
coppie. Ogni coppia era formata da un
somaro (da cui il nome del gioco) e da un
fante. Il somaro doveva cercare di disarcionare
il fante in modo da prenderne il
sore, s. f. sorella. Unito all’aggettivo possessivo
assume le seguenti forme: “sòrema,
sòreta, sòreme, sòrete” (mia sorella,
tua s. le mie sorelle, le tue s.).
sorellu, s. m. mestolo di rame con lungo
manico per attingere acqua dalla conca.
sorgente, s. m. luogo da cui sgorga una
vena d’acqua. Una volta erano tenute in
gran conto e i contadini provvedevano a
mantenerle pulite e sgombre dalle erbe
infestanti in maniera da potervi attingere
l’acqua necessaria ai lavori agricoli, alla
propria igiene personale e per dissetare le
bestie. Adesso sono del tutto abbandonate,
sommerse dalle erbacce e praticamente
introvabili. Le più note e frequentate
erano quelle della “Ulica, di colle Saelli,
di Fossu scuru, di Occa piana e di
Mainellu”.
sòrica, s. f. 1) grosso topo di fogna. 2)
volgarmente designa l’organo sessuale
sòrice muscarolu, s. m. rosso topolino di
sorrecchiu, s. m. falcetto.
sorricchiola, s. f. falcetto, roncola.
spaccapicculi (a), loc. avv. gioco di bambini
spaccarella, s. f. un tipo di pèsca che si
divide in due metà con le mani senza l’uso
del coltello.
spacciu, s. m. 1) tabaccheria. 2) spaccio.
spalà, v. tr. togliere le canne (i pali) dal
vigneto. L’operazione veniva eseguita
dopo la potatura e consisteva nella sostituzione
delle canne andate a male e non più
in grado di fare da sostegno alle viti. Le
canne nuove venivano deposte in terra tra
i filari e formavano le “poste” (v.).
spallà, v. tr. demolire, distruggere.
spallato, s. m. zona del paese in vicolo
spanne, v. tr. stendere, spargere in modo
uniforme. I panni per farli asciugare al
sole o le canne nei filari della vigna.
spannitore, s. m. luogo adatto a stendere i
panni. Le donne che li frequentavano usavano
“prenotare” il posto ponendovi dei
segni di riconoscimento.
spasetta, s. f. vassoio di legno munito di
bordo usato per esporre frutta da essiccare
al sole. Vi si preparavano le “zuzzine”
(v.).
spauracchiu, s. m. 1) spauracchio. 2) spaventapasseri.
spegne, v. tr. 1) spegnere. 2) spingere.
spendulione, s. m. spinta, scontro, urto.
spera, s. f. lancetta dell’orologio.
sperella, s. f. tenue raggio di sole. Dal lat.
“sperula” piccola sfera. In Toscana dicono
“sperata di sole” una breve apparizione
di sole.
spergia, s. f. acquazzone, improvviso e
violento scroscio d’acqua. Probabile derivazione
spernuccià, v. tr. liberare dal peduncolo
un frutto.
spernucciulatu, agg. 1) frutto senza
peduncolo. 2) grappolo d’uva mancante di
molti acini.
sperticonà, v. intr. zigzagare, girovagare
senza meta, gironzolare.
spetturià, v. intr. liberarsi di indumenti,
mostrare il petto nudo. Agg. p.p. “spetturiatu”
spezzinu, s. m. venditore ambulante.
Forse il vocabolo si spiega con il fatto che
sul banco del venditore era possibile trovare
stoffe ridotte in pezzi o scampoli di
tessuto che si potevano acquistare a prezzi
più convenienti rispetto a quelli praticati
nei negozi.
spianatora, s. f. spianatoia, tagliere sul
quale si impasta la farina per confezionare
dolci, pane e simili. Vi si mangia la polenta
dopo che è stata “spianata”. (v. pulenta).
spiccà, v. tr. spiccare, staccare, togliere.
spiccià, v. tr. 1) ordinare, pulire, rassettare.
2) sciogliere nodi, liberare qualcosa da
spicciatore, s. m. pettine a denti larghi e
sottili. Che “spiccia” i capelli.
spidale, s. m. ospedale. Spedale è un
regionalismo toscano, da ospedale con il
Le prime notizie storiche dell’esistenza di
un ospedale a Z. risalgono agli inizi del
1500. Dedicato fin da allora a S. Giovanni
Battista doveva trovarsi in piazza Santa
Maria e disponeva di pochissimi posti
letto. In seguito ad accordi intervenuti tra
i Priori della Confraternita del SS.
Sacramento e l’allora signore di Z.
Principe don Giuseppe Rospigliosi, l’ospedale
venne trasferito in piazza
Massimo d’Azeglio dove è tuttora. (notizie
ricavate da Ospedale “San Giovanni
Battista” Zagarolo, di Eugenio Loreti dal
volume “Gli ospedali della melagrana”)
A causa di vari tentativi aventi lo scopo di
razionalizzare la spesa sanitaria l’ospedale
è passato attraverso varie vicissitudini e
più volte è stato sul punto di cessare la sua
attività. Ciò non è accaduto e l’ospedale,
pur ridimensionato e privato di alcuni servizi,
continua ad essere un presidio importante
per la salute degli zagarolesi.
Sono in via di realizzazione due nuove
importanti strutture sanitarie: una situata a
Colle del pero che diventerà una clinica
specializzata nelle cure per la riabilitazione
motoria e l’altra nei locali della ex
scuola “De Amicis” in via di borgo San
Martino che ospiterà ambulatori specialistici
spidaliere, s. m. lavoratore dipendente
dell’ospedale.
spighetta, s. f. lavanda. Vocabolo mutuato
dal termine scientifico che è
spilà, v. tr. sturare, trarre un liquido contenuto
in un recipiente. Spilare la botte. In it.
spinosa, s. f. istrice. Il vocabolo fa chiaro
riferimento al corpo del mammifero ricoperto
di aculei appuntiti ed erettili.
Animale assai ricercato dai cacciatori che
per aumentare le possibilità di successo
addestravano cani molto piccoli, in grado
di infilarsi nelle tane usate come rifugio
dall’istrice. Chiamati cani da buca.
spinureticu, s. m. biancospino.
spirolà, v. intr. gironzolare, correre di qua
e di là.
spiziale, s. m. farmacista. In realtà lo speziale
è il venditore di spezie, di preparati
medicinali e di erbe medicamentose.
spizzicà, v. intr. 1) trovare piccoli vantaggi,
rimediare. 2) mangiucchiare, sbocconcellare,
spòdicu, agg. libero da ipoteche (terreno).
All’atto della donazione di un appezzamento
di terreno ai futuri sposi, i genitori
ci tenevano a sottolineare che la terra
donata era “spodica”, libera da vincoli e a
totale disposizione dei nuovi padroni.
spondone, s. m. terreno che termina ad
spozzatu, agg. che ha perduto le sue qualità
caratteristiche. Per es. si dice del vino
difettoso che dopo qualche tempo perde le
sue qualità organolettiche.
sprefonnà, v. intr. sprofondare.
sprefonnu, s. m. 1) baratro, precipizio,
sprofondo. 2) per antonomasia luogo lontano,
quasi irraggiungibile.
sprocedatezza, s. f. incontinenza, ingordigia,
incapacità di moderarsi nel mangiare.
sprocedatu, agg. insaziabile, ingordo,
spullà, 1) v. intr. andare via, togliersi di
mezzo, alzarsi dal letto. 2) ripulire una
persona al gioco delle carte, toglierle tutto.
spungicà, v. tr. assaggiare il vino nuovo
praticando un forellino nella bigoncia o
nel tino.
spurgià, v. tr. 1) spulciare, scegliere in un
mucchio di cose. 2) vincere al gioco
spurgu, s. m. azione di ripulitura di un
terreno per liberarlo dai rovi.
ssa, avv. qua, il luogo in cui si trova chi sta
ssu, agg. dim. m. s. questo. Le altre forme
sono “ssa, ssi, sse (questa, questi, queste).
stabbio, s. m. letame di animali allevati in
stalla usato come fertilizzante. In italiano
stabbio è l’appezzamento di terreno in cui
viene fatto pernottare il bestiame affinchè
lo concimi con le sue deiezioni.
stabilì, v. tr. intonacare.
stabilitura, s. f. intonaco.
stazione ferrovie dello stato, a circa due
Km. dall’abitato di Z. sorge la stazione
delle ferrovie dello stato, sulla linea
Roma-Napoli via Cassino. Importante
nodo ferroviario già da molti anni, ha
acquistato negli ultimi tempi una rilevanza
sempre maggiore e oggi la stazione di
Z. viene giustamente considerata come la
più importante dell’intera area prenestina.
Frequentata giornalmente da alcune
migliaia di viaggiatori diretti a Roma, la
loro sede di lavoro. Il pendolarismo, da
sempre una costante del territorio, si è
ulteriormente intensificato a seguito dell’espulsione
di manodopera dall’agricoltura
che una volta, bene o male, garantiva
occupazione e reddito prodotto sul luogo.
La grande massa di questi viaggiatori proviene
anche dai paesi limitrofi dato che la
maggioranza dei treni effettua la fermata a
Z. I collegamenti con le località vicine
sono assicurati dai pulman e la stazione di
Z. è la zona cosiddetta di scambio tra il
trasporto su gomma e quello su rotaia.
L’altro fenomeno che contribuisce a dare
rilievo alla presenza della stazione è la
fuga dalla città e la ricerca di un altro
modello di vita in un centro come Z. raggiungibile
Sempre più frequente il fenomeno di intere
famiglie che da Roma si trasferiscono a
Z. Questo dato consente alla popolazione
di far registrare costanti incrementi numerici
nonostante il fatto che il rapporto
nascite-morti a Z. non si discosti dal dato
nazionale che vede il numero dei morti
superare quello dei nati, anche se c’è da
dire che questa realtà tende e modificarsi
per l’arrivo a Z. di molte coppie di giovani
stranieri, in genere più prolifiche delle
coppie locali. La popolazione zagarolese
fa registrare annualmente un saldo attivo
La qualità del trasporto ferroviario da e
per Roma non è eccellente e spesso il
viaggio, per fortuna assai breve, è fatto in
condizioni di assoluta precarietà. Si
lamentano frequenti ritardi, superaffollamento
e sporcizia. Non sono mancati negli
anni alcuni gravi incidenti dovuti spesso
alla scarsa idoneità del materiale ferroviario
che non viene rinnovato e viene usato
a volte in condizioni di grave inefficienza.
Tutta l’area nei pressi della stazione è
stata sottoposta a lavori di restauro, di
ampliamento e di generale risistemazione.
Ampi parcheggi consentono la sosta, in
gran parte a pagamento, per circa 1. 500
stazione ferrovie vicinali, inaugurata nel
1916 era una stazione intermedia sulla
linea Roma-Fiuggi. Abbastanza utilizzata,
in direzione Roma da studenti e lavoratori
pendolari, fino all’avvento dell’automobile
di massa e al potenziamento della linea
ferroviaria statale. Per gli zagarolesi il trenino
che vi passava era “lu tranvettu” (v.).
Ora la stazione è stata dismessa e l’intera
linea completamente disattivata. Lo stabile
della ex stazione è in attesa di una
stazzola, s. f. piccolo riquadro di terreno
destinato ad una particolare coltivazione.
stazzu, s. m. cortile antistante il tinello
della vigna. Lo stazzo in it. è il recinto
all’aperto dove si ricovera il bestiame di
notte. “Ora in terra d’Abruzzo i miei
pastori lascian gli stazzi e vanno verso il
mare” (G. D’Annunzio, I pastori).
“Lu bicchiere de lu stazzu” è l’ultimo bicchiere
di vino bevuto con gli amici prima
di rientrare a casa dalla vigna.
In tutte le campagne zagarolesi “lu stazzu”
è stato sempre luogo di incontri dove,
quasi sempre all’ombra di un pergolato, si
usava scambiare chiacchiere, fatti e opinioni
e dove il contadino si godeva un po’
di riposo dopo la giornata di lavoro.
stegà, v. tr. liberare i legumi dal baccello.
stemperone, s. m. violento attacco di
diarrea. Nel linguaggio burocratico stemperarsi
significa sciogliersi (stemperarsi in
lacrime). Naturale stabilire un rapporto
con il vocabolo usato un tempo a Z. e con
il suo significato.
stennardone, s. m. persona di statura
molto alta e di grande corporatura.
stennardu, s. m. stendardo, vessillo, bandiera.
stenne, v. tr. 1) porgere. 2) stendere, spargere
stennerellu, s. m. mattarello.
stera, s. f. paletta metallica per togliere il
terriccio rimasto attaccato alla vanga o
alla zappa. Raschietto.
stimatrice, s. f. estimatrice, la donna chiamata
a stimare e valutare il corredo della
sposa. (v. La dote) Aveva un ruolo ufficiale
e la sua azione era altamente considerata
in paese. Si trattava di persona stimata e
rispettata che riscuoteva la fiducia generale.
Dalle sue parole poteva dipendere un
matrimonio:potevano agevolarlo o mandarlo
a monte. Di lei si faceva espressa
menzione quando si compilava la “carta
totale”(v.) In tale occasione la stimatrice
diventava una specie di pubblico ufficiale
e la sua figura veniva ricordata come quella
della “pubblica stimatrice”.
stingà, v. tr. estirpare una vigna, distruggere.
stira, s. f. l’azione di stirare, allungare, stiracchiare.
Si trattava di uno scherzo piuttosto
pesante praticato dai ragazzi ad un
malcapitato coetaneo oggetto delle loro
attenzioni. Costui veniva sdraiato per terra
e tenuto fermo con la forza. Gli si calavano
i pantaloni e qualcuno afferrava il suo
pene e lo stiracchiava con violenza. Il
malcapitato, finito il trattamento, veniva
lasciato a terra con la sua rabbia la sua
stoccà, v. tr. spezzare, fratturare, rompere,
frantumare. Molto in uso l’espressione
minacciosa: “te stocco mmezzo” che equivale
a “ti spezzo in due”. In italiano il
verbo stoccare ha significati diversi.
stoccu, agg. rotto, fratturato.
stoppicciu, s. m. stoppino, lucignolo,
stordona (a la), loc. avv. distrattamente,
sbadatamente, come uno stordito.
stortignacculu, s. m. storpio. Stortignaccolo
stozza, s. f. il cibo che i lavoratori giornalieri
consumavano in una giornata di lavoro.
Oggi indica semplicemente qualcosa
straccale, s. m. inizialmente finimento di
cuoio per bestie da soma atto a reggere il
basto e successivamente bretelle per i calzoni.
stracciambrache, s. m. cespuglio assai
stracinà, v. tr. 1) trascinare. 2) ripassare in
stracinu, s. m. carretto per il trasporto del
vino o altro. Erano tanti i carrettieri che
tutti i giorni caricavano sul carretto i barili
del vino per trasportarli a Roma nelle
osterie o in case private. La partenza avveniva
quando era ancora notte in modo da
raggiungere la città a giorno fatto.
Stradarolo, festival internazionale di artisti
su strada che si svolge nei mesi di settembre
o ottobre.
Interamente dedicato all’arte su strada,
che negli ultimi anni è stata rivalutata e
che tanti consensi continua a ricevere, il
festival coinvolge principalmente i comuni
di Genazzano e Zagarolo e marginalmente
altri centri che ricadono sulla direttrice
Per tre giorni consecutivi le piazze, le vie,
i vicoli dei paesi coinvolti sono animati
dalla presenza di centinaia di artisti che si
esibiscono ognuno nella sua arte. Il poeta
improvvisa versi a volontà, il giocoliere
stordisce con i suoi trucchi misteriosi, il
pianista suona Chopin, l’attore recita
monologhi o favole per bambini, l’uomo
sui trampoli avanza pericolosamente in un
frastuono di luci, suoni e canti.
Un’ atmosfera di festa e di grande partecipazione
collettiva. L’ideazione e la direzione
artistica è stata sempre affidata al
gruppo Tetes de bois, “una band molto
speciale, un sestetto composto di voce,
tromba, contrabasso, piano, fisarmonica e
chitarra. Una storia fatta di strade e svincoli,
di luoghi impropri, di Berlino e di
Parigi, di concerti sulle scale mobili e nei
sotterranei dei metro…” (da Cose di musica
stradone, s. m. la via che collega la piazza
del Comune (P. Marconi) a quella dell’ospedale.
stramà, v. intr. operare parzialmente l’azione
di asciugatura dei panni stesi al sole.
stramatu, agg. quasi asciutto.
stramicione, s. m. disordinato, trasandato
nell’abbigliamento.
stranieri, una nutrita comunità di stranieri
si è insediata da alcuni anni a Z. Da notizie
assunte presso gli uffici comunali si
ricava che il loro numero, tra regolari e
irregolari, varia tra 1.500 e 2.000.
Provengono da tutte le parti del mondo,
Europa, Asia, Africa, America. Moldavi,
Ucraini, Rumeni, Cinesi, Peruviani,
Algerini e via cantando. La comunità più
folta è rappresentata dai cittadini rumeni
che occupano vaste aree del paese, sia nel
centro storico che nelle vicine campagne.
La maggior parte degli uomini, per lo più
molto giovani, sono occupati nell’edilizia,
sia in loco che a Roma dove nei cantieri si
parla più rumeno che italiano. Moltissime
donne sono sistemate presso famiglie
dove una persona anziana ha bisogno di
assistenza. La badante a Zagarolo fa parte
del panorama sociale già da alcuni anni
con reciproca soddisfazione delle assistenti
e degli assistiti. A loro affidiamo le
cose più care che abbiamo. A loro consegnamo
le chiavi delle nostre case. A loro
chiediamo di fare quello che noi non sappiamo
più fare.
In linea generale la famiglia degli stranieri
rimane come un corpo estraneo con
tutte le sue diversità e peculiarità, vive ai
margini del tessuto sociale paesano anche
se nel complesso predomina un atteggiamento
di rispetto e di attenzione reciproca.
Gli zagarolesi si sono dimostrati tolleranti
e poco preoccupati dalla presenza degli
stranieri che tendono essi stessi ad isolarsi
e a cercare soltanto i propri simili. I risentimenti
profondi, viscerali e irrefrenabili,
mossi il più delle volte dalle emozioni più
che dai fatti e dalla ragione, non si sono
posti in evidenza e non si sono verificati
casi gravi di razzismo. La realtà è spesso
maledettamente difficile da vivere. Lo
dicono quotidianamente le cronache dei
giornali. A Z. le cose vanno un po’ meglio
che altrove forse perché si è capito, come
da più parti è stato detto e scritto, che l’immigrazione
è un fenomeno importante,
troppo importante, per il nostro presente e
per il nostro futuro.
In tutte le classi delle scuole di Z. dove la
presenza di alunni stranieri provenienti da
ogni parte del mondo è ormai una costante
che si verifica da più anni, la convivenza
tra locali e stranieri è un fatto compiuto
e non sono mai stati segnalati fenomeni
di intolleranza. Il più delle volte l’unico
vero impedimento che rende problematica
la reciproca comprensione è la lingua, fino
a quando i ragazzi stranieri non si impadroniscono
dell’italiano. E quasi tutti ci
riescono abbastanza in fretta. Lo spaesamento
linguistico non dura a lungo.
Con ogni probabilità l’avvenire sarà nella
mescolanza di diversi colori, di diversi
sapori e diversi linguaggi. Già adesso i
fornai hanno imparato a fare il pane rumeno,
sono sorti phone center per effettuare
telefonate oltre confine, alcuni titolari di
negozi espongono avvisi scritti in rumeno
e nelle edicole sono comparsi quotidiani e
settimanali stampati in Romania o altrove.
Segno dei tempi: si è svolta una importante
manifestazione definita del dialogo tra
Zagarolo e la Romania, con la partecipazione
di personalità rumene e italiane.
La presenza di tante persone bisognose di
alloggi ha prodotto il fenomeno del ripopolamento
di zone del paese che sembravano
destinate al degrado e all’abbandono.
Molte case anche piccole, si tratta a
volte di cantine e locali di fortuna, sono
state ristrutturate, in qualche caso decorosamente
in altri meno, e ampie parti del
paese, son tornate a vivere e a conoscere
la presenza di giovani coppie e di bambini.
Un grande patrimonio urbanistico che,
valorizzato e riqualificato, certamente concorre
al benessere della popolazione zagarolese.
Anche perché, e il fenomeno va
denunciato, in pochi metri quadrati vengono
stipate molte persone alle quali vengono
chieste somme certamente non eque per
il pagamento della pigione. Come fenomeno
collaterale e strettamente collegato a
quello ora descritto va segnalata l’escalation
dei prezzi degli alloggi, quasi allineati
a quelli praticati in alcune zone di Roma.
stranutà, v. intr. starnutire.
stregulà, v. tr. strofinare, frizionare.
strenga, s. f. laccio per le scarpe, stringa.
streppà, v. tr. estirpare (specie la canne).
streppone, s. m. zappa di grandi dimensioni.
streppongellu, s. m. piccola zappa usata
per lo più per l’estirpazione delle canne
dal canneto.
stréppula, s. f. in maniera imprecisata si
riferisce a gambe e piedi malfermi che
non consentono un incedere regolare.
strina, s. f. freddo pungente, vento di tramontana.
Si tratta di un regionalismo centrosettentrionale.
stròlega - stròliga, s. f., zingara, gitana. Il
vocabolo richiama il termine astrologia e
appare evidente il legame tra le parole
dato che le zingare molte volte leggevano
la mano e, in qualche modo, avevano a
che fare con l’astrologia e gli oroscopi. In
italiano esistono i termini strologare e
strozzapreti, s. m. frutti del “Prunus spinosa”
consistenti in drupe sferiche, blu -
violacee a maturità. Da un arbusto, talvolta
albero, con rami spinosi. Fioritura
marzo-aprile. Se ne cibano molti uccelli.
In it. gli strozzapreti sono gnocchi in uso
nel sud d’Italia e altresì un tipo di pasta
strucinà, v. tr. trascinare. In Toscana
“strucinare” significa consumare usando
senza riguardi.
strumentu, s. m. atto notarile di compravendita.
Andare dal notaio per certificare
un passaggio di proprietà con un atto di
donazione ad un figlio che si sposava era
un fatto importante che veniva celebrato
con la dovuta solennità, abbondantemente
annaffiato con generose libagioni.
struppià, v. tr. storpiare, rovinare, sfigurare,
struppiu, s. m. storpio, deforme.
struppione, s. m. erba selvatica spinosa.
È il “Cirsium arvense” detto volgarmente
stuccà, v. tr. ingannare qualcuno non restituendogli
stuccatore, s. m. chi di solito non paga i
stufarolu, s. m. pentola di terracotta,
munita di manici, adatta a cuocere lo stufato.
sturbà, v. intr. perdere i sensi, svenire,
stutà, v. tr. staccare la pannocchia del
stuzzasse, v. rifl. intirizzirsi per il freddo,
gelarsi, ghiacciarsi. Agg. p.p. “stuzzatu”.
stuzzu, s. m. 1) freddo, gelo. 2) malattia
da raffreddamento tipica del gatto.
Impropriamente detto cimurro del gatto,
in realtà è una rino-tracheite o rino-congiuntivite
in quanto interessa la trachea o
gli occhi o entrambi gli organi.
suatta, s. f. pelle di bufalo non conciata
usata in calzoleria, per confezionare “lu
frustu”(v.) e per fissare il battaglio alla
subbia, s. f. lesina del calzolaio usata per
forare il cuoio. Lat. “sùbulam” connesso
subbullì, v. intr. fermentare.
sucamele, s. m. “Pulmonaria saccharata”
detta Polmonaria chiazzata. Pianta
erbacea perenne dal fusto setoloso. Si credeva
avesse effetti benefici e curativi per
malattie polmonari. Fiore dalla corolla
regolare con petali di colore rosso vivo.
Fiorisce verso la fine dell’estate.
suppegnu, s. m. soppalco, palchettone.
svagulà, v. tr. mangiare un grappolo d’uva
staccandone i chicchi a uno a uno.
svèntula, s. f. schiaffone. Fig. donna prosperosa
e procace.
svinverà, v. tr. spifferare, spiattellare,