XLII.
Ragionamento
della filosofia e de' filosofi.
Nulla unquam respublica nec maior, nec sanctior, nec
bonis exemplis ditior fuit.
Tit. LiV.
Non vi fu
mai repubblica maggiore, nè più santa, nè che più abbondasse in esempi buoni.
Io vorrei sapere un
tratto qual significato abbia il nome di filosofo, e che cosa sia quella che
filosofia vien chiamata. A leggere gli antichi, l'è amore di sapienza. Ma
cotesta sapienza in qual modo avea ella a ritrovarsi, e dove, per volerle bene?
Ognuno di que' gravissimi capi i quali additavano la via altrui, e insegnavano
l'abitazione in cui ella dimorava, chi diceva: Ella sta in cotesto luogo, chi
in cotesto altro; e ad ogni modo non dovettero sapere nè dove abitasse, nè chi
la fosse; perchè uno la dipingeva con uno aspetto, un altro dicea che non fosse
vero, ma che la faccia sua avea altre fattezze; sicchè a me pare che si
beccassero il cervello, e che facendosi torce e lanterne per insegnare altrui
la via, rompessero finalmente il collo a sè e a chi andava dietro a loro. Di
qua avvenne che, col passare de' secoli, gli uomini non avendola mai ritrovata,
scambiarono opinione, e la cercarono per vie così strane e così nuove, che si
chiamavano filosofi fino coloro che davano ad intendere altrui di signoreggiare
all'Inferno, e di sapere in qual punto di stella si avesse a condur fuori un
esercito e ad azzuffarsi col nemico. A' dì suoi un certo Guido Bonato si
acquistò il nome del maggior filosofo di quei tempi con le più strane prove del
mondo. Ogni uomo lo richiedeva del suo consiglio, e ricorreva a lui come ad
oracolo; ed egli, dando ad intendere d'essere un incanta-diavoli, si spacciava
d'essere filosofo con questo mezzo. Se mai la filosofia fu occulta, ella è a'
nostri tempi. Ognuno, secondo il suo temperamento ed umore, chiama filosofia
quello ch'egli fa, e non si dà altra briga. Tanto è filosofo uno il quale è
collerico e insofferente d'ogni cosa, quanto un altro che sarebbe atto a
sofferire che gli fosse mozzato il naso. Il saper bene guidarsi nelle cose
d'amore è filosofia, ed è filosofia il guidarsi male. Un uomo il quale lasci
andare le faccende sue domestiche come le vanno da sè, è filosofo: un altro che
giuochi gli occhi del capo, può essere stimato anch'egli filosofo; e, in breve,
non c'è condizione d'uomo veruno, e faccia quello che si voglia, che non si
stimi filosofo da sè, o non si chiami talora con questo prelibato nome. Io ho
sentito spesso anche qualche femmina ravviluppata in tutte le brighe del mondo,
che di tempo in tempo diceva: Trista a me, se non fossi filosofessa; vi so dire
che la filosofia mi giova. - Tanto che, per quanto io fantastichi, non so
stabilire in che sia riposto il vero fondamento di questo nome.
Tali capricci mi si
aggiravano pel cervello ora sono poche notti passate, quando addormentatomi tra
sì fatti pensieri, m'avvenne quello che racconterò qui sotto.
Pareami di vedere una
femmina non altrimenti fatta che colei la quale è dagli antichi poeti per la
Fortuna descritta. Veniva essa in una navicella tutta dipinta e così da' venti
favorita, che a guisa di saetta fendeva l'acque, attorniandola i marini Dei e
le Nereidi, che ne venivano con canestretti di coralli e di perle, quante se ne
può vedere in un sogno. Costei approdata colà dove io era, e fattomi cenno con
mano che seco ne andassi, accompagnò l'atto con sì benigna e graziosa faccia,
che io senza punto mettere tempo in mezzo, salii sopra un ponticello ch'era
stato gittato dal suo legnetto alla riva, e che incontanente dopo il mio salire
venne alla navicella ritratto. Mai non fu il mio cuore tocco da tanta
allegrezza, a vedere che dovunque il vascelletto passava, fiorivano d'intorno
le sponde, cantavano gli uccelletti, e parea che cielo, terra, acqua e aria
salutassero la mia condottiera e le usassero ogui favore. Mentre che uno zefiro
tutto amorevole con uguale e dolcissimo soffio feriva la vela, la mia novella
signora, fattomi sedere appresso di sè, in tal guisa mi cominciò a favellare.
Io credo che tu alle fattezze mi riconosca; perchè quantunque io non mi sia
fino a qui mostrata molto tua amica, tu non hai però cessato giammai di
seguirmi e di guardarmi da lontano quanto potevi; tanto che m'avvidi benissimo
che la mia immagine ti deve essere rimasa scolpita dentro. Per la qual cosa
lasciando stare di dirti chi io sia, bastiti per al presente il sapere la
cagione che a te m'ha fatto venire. Egli è gran tempo che tu farnetichi per
intendere qual sia la filosofia, e in che si stia il vero nome di filosofo. In
prima voglio che tu sappia, che colà dove io non sono larga dispensatrice de'
miei doni, filosofia non può essere, ma solamente una maschera che a quella
somigli. Dappoichè gli uomini dalle necessità della vita continuamente
travagliati, comechè di fuori possano fare buon viso, hanno però dentro al
cuore un continuo tarlo che li rode, e un mortifero veleno che a poco a poco
toglie loro il fiato. Io ti potrei provare che Diogene era un ipocrita,
Aristippo un adulatore, Aristotile un cortigiano. Ma nè io ho voglia
d'erudizioni, nè tu, che ti stai quasi tutto il dì e la notte spenzolato sui
libri, avresti caro ch'io ti empiessi ora gli orecchi con allegazioni di cose
antiche. Il proposito mio è di farti vedere una mia bella e fiorita scuola di
filosofia, nella quale i miei discepoli hanno ritrovata quella tranquillità che
Minerva non ha mai saputo far ai suoi seguaci ritrovare. E già, mentre che io
ti parlo, eccoci giunti a riva. - Diceva la mia scorta il vero. Approdò la
barchetta. Scendemmo. Io non so, o lettore, in qual modo o con quale eloquenza
ti potrò descrivere il luogo, quale s'appresentò dinanzi agli occhi miei.
Vedevasi in faccia un palagio con semplice architettura edificato, di tanta
capacità che potea un gran numero di persone contenere. Lo circondavano da
tutti i lati tutte quelle ricchezze che possono offerire i meglio coltivati
terreni. Di qua un'amenissima corona di colli verdeggiava di pingui ulivi, di
là una spaziosa pianura dava certissima speranza di biade; ed un terreno
vedevasi tutto di vigne vestito da un'altra parte; e da un'altra, quanto potea
giungere l'occhio, scorgevansi prati coperti di minuta erba qua e colà rôsa da
infiniti branchi di pecorelle. Al rifiatare entrava per le canne un'aria piena
di tanta salute, che se ne rifaceva il corpo in un momento. Gli occhi erano
legati da un dolce incantesimo, l'animo era in essi. Vedi tu? diceva ella,
queste sono le facoltà delle quali ho i miei discepoli provveduti. Sappi però,
che quando io ti dico miei discepoli, questo è da scherzo. Lascio l'onore
dell'elezione a loro. Eglino furono che scelsero questa pacifica vita: e
arricchiti da me con tutti questi preziosi beni che tu vedi qui intorno, non
pensarono a disperdere i benefizj miei con la furia delle passioni; ma di farne
quell'uso che sia di grandissimo prò a loro, e in grati uffizj d'ospitalità
impiegarli. Vieni, e vedrai in qual forma passano la vita loro, e quale
accoglienza facciano a coloro che qua ne vengono. - Così detto, accostasi
all'uscio, e seco mi conduce al suo fianco. Non vi fu chi con mal viso
s'appresentasse. Vedeasi l'ilarità in tutti gli aspetti, e in tutti di fuori appariva
l'interna contentezza del veder genti, dell'accoglierle, del vezzeggiarle.
Feci la prima sperienza
de' molti agi di quell'immenso palagio nelle scale; perchè laddove, a salire
altrove, io avea provato sempre un certo affanno nel casso, e uno scapito nelle
ginocchia per la soverchia altezza de' gradini; quivi all'incontro non mi parea
di andare all'erta, perchè con sì studiata misura furono dall'artefice tagliati
e posti, che poco più vi s'alza il piede a montare, che a movere il passo
altrove sul piano. Quando fummo su, non vi fu altra cerimonia; tanto che la
casa de' filosofi mi parea mio proprio albergo, e potea andare e venire a mio
beneplacito, o ragionare di quello che avessi voluto. In tutte le camere
vedeansi libri di ogni qualità e ragione. Né mi ricorda mai di avere in altro
luogo veduto tale abbondanza di antichi e moderni scrittori, quanto quivi in
una nobilissima stanza raccolti. I ragionamenti erano quali si convenivano a
dottissimi uomini; e in ogni argomento si dimostravano periti nelle buone
dottrine. Ma non crediate però che sdegnassero di tempo in tempo di favellare
ancora di cose della villa, e appartenenti alla coltivazione della terra, dalle
cui viscere traevano il modo di potere agiatamente vivere ed usare la loro
cordialità con altrui. Ogni segreto sapeano intorno alle lanute pecorelle, al
pigiare delle uve; nè v'era masserizia che non l'intendessero a fondo, tanto
che io mi maravigliava grandemente nell'udire uomini fra gli studj accostumati
penetrare con tale accorgimento ne' più segreti misterj di quella cotanto utile
disciplina. Urtavami col gombito la mia condottiera, e talora mi domandava
all'orecchio di quello che a me ne sembrasse. Io le rispondeva alzando le
ciglia, quasi le volessi dire: Oh vera scuola di filosofia ch'è questa! oh
intelligenza non fallace e non guidata dalle astrazioni e da cose aeree, le
quali applicate all'umano vivere nulla giovano! Non è qui la tranquillità e la
pace? Non si può, quando altri il voglia, sfogare il capriccio de' libri, e poi
all'utilità rivolgere l'intendimento? Siccome l'avere sempre l'animo rivolto a
quest'ultima atterra l'ingegno, e sì l'avvilisce che più non può a nulla nè di
grande, nè di nobile sollevarsi; così standosi esso avviluppato nelle continue
lezioni e considerazioni incorporee, suol essere finalmente inutile a sé
medesimo e ad altrui, per essere andato troppo alto. - Tutte queste cose voleva
io significare nel guardare la mia scorta; ed ella intendeva benissimo tutti i
miei occulti pensieri. Mentre che con queste mutole significazioni
s'esprimevano i nostri sentimenti, io andava inoltre osservando con quanto
avvedimento in ogni luogo erano adattate fino le pitture, le quali richiamavano
alla mente l'ufficio che in esso luogo si facea. Nelle stanze assegnate al
dormire, vedevasi qua Morfeo con la tacita compagnia de' suoi sogni; colà i
villanelli, stanchi per li diurni lavori, sui tagliati manípoli delle biade
dormire. Aristotili e Platoni con lunghe barbe leggevano, e Archimedi col
compasso in mano erano figurati colà dove si avea ad attendere alle dottrine.
Parvemi finalmente che io fossi invitato a pranzo, e ch'io mi mettessi a sedere
ad una mensa di finissimi lini coperta, da splendidi cristalli attorniata,
pieni di squisiti vini, e da molti bicchieri che sopra ricche coppe attendevano
il cenno de' convitati, perchè i destri e bene avvezzi servi ad una semplice
occhiata dentro il vino versassero. Molte erano le vivande, e tutte sì dilicate
che la mano era sempre in sospetto quale d'esse avea a preferire. I gravi
ragionamenti furono quindi tutti sbanditi, ma non la modestia: fioriva la
ricreazione in graziosi detti, i quali l'uno all'altro si appiccavano, vivaci,
repentini, vicendevoli, ma non mordaci, nè maligni. Ogni cosa spirava
giocondità. Coperte erano le mura da tele che rappresentavano, come altrove,
cose appartenenti al fornire la mensa. Vedeasi dall'un lato una torma di
pastorelli dipinti, ch'entrando in un cortile arrecavano agnellini, cavretti,
polli: villanelle con cestelline d'uova, con canestretti di frutte. Da un altro
queste robe ricolte vedeansi essere riposte con sollecitudine, e separate nei
luoghi dove aveano a stare. Poco più là si vedeano fanti e fantesche sgozzare,
scorticare, pelare; e in un'altra tela pestare in mortai le salse, negli
schidioni infilzare, fuoco accendere, caldaje e pajuoli bollire. In un'altra
apprestavansi mense: chi ne' canestretti arrecava pane, chi allogava
risciacquati bicchieri; di là si spillavano botticelli e prendevansi
fiaschetti, e in fine nell'ultima tela appariva una bella corona di genti la
quale sedeva alla mensa tutta lieta, e a un di presso somigliante alla nostra,
la quale potea vedere le sue attitudini nel quadro rappresentate. Prò alla
filosofia, dicea la mia guida, e bevea, - ed io: Prò pure -, dicea, e alzava il
gombito, versandomi nel seno un liquore che mi ristorava tutte le vene. Ma chi
s'ha a fidare de' sogni? Io non so in qual modo ogni cosa mi sparve dinanzi; nè
altro mi rimase svegliandomi, fuor che il frutto dell'aver conosciuto qual sia
la dottrina degli uomini dabbene e de' veri filosofi.
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