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Gasparo Gozzi
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    • XLIV.   Della libertà degli antichi filosofi.
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XLIV.

 

Della libertà degli antichi filosofi.

 

Rex philosophi amicitiam emere voluit, philosophus suam vendere noluit.

Val Max. lib. IV, e. 3.

 

Il re volle comperare l'amicizia del filosofo, non volle il filosofo venderla.

 

A leggere le cose che furono operate o dette da certuni degli antichi filosofi, io mi ricordo che in mia giovinezza avrei giurato ch'eglino erano piuttosto bestie, che uomini. Diogene visitato da Alessandro in Corinto, mentre che tutti correvano in calca intorno ad un principe così grande, non si parte dalla sua botte, e non sa rispondere altro a cotesto nobilissimo re, se non ch'egli se ne vada, e non gl'impedisca il sole. Qual asinità è questa? diceva io fra me. E Zenocrate mandato a pregare dallo stesso principe della sua buona amicizia, e presentato, quasi con pubbica ambasceria, di ricchissimi doni, ritiene la sera gli ambasciadori ad un cenino da pitocchi; e nella mattina vegnente ne li rimanda indietro alla bestiale co' doni, dicendo loro: Voi avete veduto al cenino di jersera, ch'io non ho bisogno di queste boje. Qual superbiaccia è questa? diceva io. Oh! rispondesi con questo rispetto ad Alessandro? E cotesti, che in que' tempi furono chiamati filosofi, io credo che oggidì verrebbero legati con una fune, o rinchiusi in uno spedale co' pazzi loro pari. A poco a poco poi col crescere degli anni, e con l'aggirarmi pel mondo, mi parve di comprendere che non furono quegli uomini bestiali ch'io avea creduto. S'eglino avessino prestato fede alle parole d'Alessandro, e fossino divenuti suoi cortigiani, non sarebbero più stati padroni di e del tempo loro. Quando Diogene, per esempio, avesse stabilito di dormire, gli sarebbe convenuto con gli occhi mezzo chiusi, e sbavigliando, mettersi gli stivali in gamba e gli sproni alle calcagna, sellare il cavallo, e andar trottando dietro alla Maestà Sua con la frotta dell'altre genti: Zenocrate avvezzo alla sua minestra scodellata all'ora assegnatagli dalla fame, avrebbe dovuto attendere che si terminasse una battaglia, prima di sedere a mensa, e far servire le sue budella alla gloria del vincitore di Dario. Noi possiamo essere uomini, dovettero dire fra , e goderci liberamente quest'aria, questo sole e queste altre migliaja di benefizj che ci ha dati Dio; e perchè avremo noi, per un poco di boria, a divenire come i cammelli, le sacca, le valige e l'altro bagaliume che dee seguire Alessandro? Noi siamo nutriti dal dolcissimo latte della filosofia, e perciò non molto atti alle faccende del mondo. Oh! noi avremmo pure un bel garbo in una turba di cortigiani, a bere, e a cantare canzonette, quando la Maestà Sua avesse voglia di scherzare; e forse ne saremmo rabbuffati, scherniti e peggio, se volessimo stare in sul grave.

La libertà è uno de' più bei presenti che natura facesse all'uomo, cominciai a dire; e io non so perchè le genti si leghino da ora con una catena e ora con un'altra. Mi parea maraviglia a vedere che quasi ogni uomo si tenesse un laccio: e non solo ch'egli servisse ora ad un uomo, ora ad una donna sottomettendosi alla volontà e a' capricci di questo o di quella; ma che ci fossero le reti delle cerimonie, i vincoli delle lettere senza importanza, come dire di capo d'anno o d'altro, gli uncini del visitare, i nodi del trarsi il cappello, e mille altre inconvenienze, che col nome di convenevoli si chiamano. Mi si arricciarono i capelli in alcuni paesi, ne' quali entrato di nuovo, fui dall'oste avvisato per carità ch'io guardassi molto bene camminando, s'io andava a manritta o a mancina; e credendo io che mi desse tale avviso perchè non mi rompessi il collo in qualche fogna o burratto, mi disse che no; ma che ciò facea per una certa pratica degli abitatori, i quali venivano a zuffa contro a chi non avesse voltato a tempo il timone per trovarsi da quella parte, che non offendesse chi gli veniva dirimpetto. In altri luoghi trovai dagli abbachisti noverati i passi che s'aveano a fare, il numero degl'inchini e delle sberrettate ch'io credetti d'essere diventato un oriuolo, e di movermi per forza d'ordigni, tanto che fui per impazzare. Lodato sia il cielo! le lunghe meditazioni, e la conoscenza che da quelle deriva, ha finalmente condotto il mondo ad un'altra maniera di vivere. Appena ci rimane più l'obbligo di salutarci l'un l'altro. Hanno conosciuto uomini e donne, vecchi e giovani, padri e figliuoli, che tutti siamo d'una pasta medesima, e che ognuno può vivere da stesso. Que' brachierai de' nostri maggiori aveano posto una differenza grande fra queste classi, e la vita era un disagio. All'entrar del padre rizzavasi in piedi il figliuolo, e si sberrettava umilmente. Ora può il padre entrare e uscire quanto vuole, che al figliuolo non tocca più questa briga, e si sta a sedere, o sdrajato, quanto vuole. Quanti inchini si facevano, e come si misuravano le parole al venire d'una donna! Ora, s'altri non vuole, non è obbligato a levarsi, a scambiare ragionamento; ed ella che sa la gentilezza della nuova usanza, e l'agio di questa, ride incontanente, ed entra nell'argomento, accomunandosi gentilmente a quello che trova. Vecchiaja, gioventù, maschi, femmine, tutti sono membra del mondo, e componitori del corpo di quello. Perchè s'hanno queste membra ad avere tanti rispetti, se tutte sono necessarie all'integrità del formato corpo? Ognuno faccia l'ufficio suo liberamente. Perchè avrà la gola a salutare il naso, s'esso starnuta, e perchè lo stomaco flatuoso avrà a temere degli orecchi? Queste sono necessità pel mantenimento del corpo intero; e chi vuole che stia sano, non s'ha ad aggravarlo con ritegni di cirimonie, e con anticaglie di decenze e di bella creanza.

 

 

 




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