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Gasparo Gozzi Prose Varie IntraText CT - Lettura del testo |
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XLVI.
Non vitae, sed scholae discimus.
Non impariamo a vivere, ma a disputare.
Quando i fanciulli sono grandicelli, il primo pensiero ch'io odo comunemente per tutte le famiglie, si è quello del farli imparare. Mandansi alla scuola chi qua, chi là, ed è un'ottima usanza, se nelle scuole s'avesse avvertenza d'ammaestrare gl'ingegni secondo quella condizione di vita che a un dipresso lo scolare ingrandito dovrà eleggere. A parlare con un villanello che intenda bene l'uffizio suo, egli ti dirà che non tutti gli alberi si vogliono coltivare ad un modo. Pesco, susino, mandorlo, pero son tutti alberi, fanno rami e foglie; ma chi vuol un terreno, chi l'altro; questo ama un'aria, quello un'altra. Se tutti fossero coltivati ugualmente, io non nego che non se ne vedessero rami e foglie; ma la sostanza sta nel fruttificare. Gli uomini sono tutti uomini; ma lasciata per ora la diversità degl'ingegni da' quali dee nascere il frutto, dico che si dee procacciare di far nascere di loro que' frutti che siano convenevoli alla qualità della vita che probabilmente avranno a fare. Quando comincia ad aprirsi la prima capacità dell'intendere negl'ingegni, ad ogni fanciullo si mette in mano la grammatica latina; e a suo dispetto egli avrà ad imparare per un lungo corso d'anni un linguaggio, del quale non avrà più a valersi in vita sua. A poco a poco gli verrà insegnato a parlare con eloquenza latinamente; e s'egli non sa dire due parole nel proprio linguaggio, non importa. Di là si fa passare agli spaziosi campi della filosofia, ne' quali impara tutto quello che non gli abbisogna mai; e in sul fiore dell'età sua, ecco ch'egli avrà compiuto gli studj; ed uscito di là, si troverà come un pesce fuor dell'acqua nelle faccende del mondo. E quel ch'è peggio, avrà assuefatto il capo a credere che le cose si facciano quali egli le avrà lette ed imparate; e ragionerà fra tutti gli altri, che parrà un uomo venuto da lontanissimi paesi. Oltre all'essersi torto il cervello, egli avrà acquistata anche un'altra infermità ch'è quella dell'ozio. Quel continuo star a sedere, a leggere e a scrivere gli ha così legate le membra, che a grandissima fatica potrà più tramettersi negli affari: e se vi s'impaccerà, lo farà così di mala voglia e quasi a dispetto, che non gli riuscirà mai bene, e credendosi di saper molto, tasserà tutto quello che fa il prossimo. Ricórdomi che quand'io andava alla scuola, vi vedea molti fioriti e capaci giovani, i quali studiavano con tutto il cuore, e affaticavansi dì e notte per imparare, gareggiando tutti a chi più s'addottrinava. A me parea allora una bella cosa a vedere que' novellini germogli d'una città, e dicea fra me: oh nobile ed egregio onore che n'avrà questo luogo, quando usciranno di qua così bene ammaestrati giovani e così dotti! - A poco a poco trascorsero gli anni, e coloro ch'io credea di vedere occupati a speculare, a ragionare o a scrivere cose grandi, li vidi appresso condotti dalla condizione di loro famiglie ad occuparsi fin ne' più menomi mestieri e ne' più meccanici lavori. Oh! che diavol, diss'io allora, aveano che fare quelle cotante grammatiche e rettoriche? E a che pensavano i padri loro quando li mandavano ad imparare Cornelio Nipote e Cicerone? Non era egli il meglio avvezzar loro le braccia e la testa a quello che fanno al presente, che empierli di latinità e di figure? non credevano essi forse che tanto sia necessario al mondo un buon calzolajo quanto un buon grammatico e più? Che tanto giovi un perfetto fabbro, quanto uno squisito rettorico? Perchè non s'aprono scuole costà di fucina e martella, colà di seghe e pialle, in un altro luogo di salamoje; tanto che ogni condizione di genti ritrovi l'appartenenza sua, e non s'abbatta sempre ne' primi anni a nomi, verbi, concordanze, tropi e altri cancheri che divorano la giovinezza senza frutto, tolgono l'utilità dell'età mezzana, e l'agio della vecchiezza? In questa forma ci sarebbe anche minor quantità di giudici delle scritture di que' pochi i quali si danno alle lettere; e gli scrittori potrebbero dire, allora, come quel greco pittore: Olà, o tu, non t'impacciare più su che la scarpa.
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