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Gasparo Gozzi
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    • LXVI.   L'Eloquenza mandata in terra.
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LXVI.

 

L'Eloquenza mandata in terra.

 

Et oratoribus opus est afflatu quodam divino.

Luc. in Demost. Encom.

 

Hanno anche gli oratori di bisogno del divino entusiasmo.

 

Dispersi per li dirupati dorsi delle montagne e fra le oscure ed intralciate selve anticamente viveano gli uomini di per , facendo una pessima e disagiata vita. Erano l'erbe e le ghiande e le salvatiche frutte la loro pastura, sapeano ancora arte veruna di coltivare la terra, ma quello che da essa spontaneamente nasceva, coglievano senza vermi altro pensiero; e se ad alcuno mancava qualche cosa, lo toglieva con la forza fuor delle mani ad un altro, non usandosi allora compagno, amico. Dappoichè in questa condizione vissero parecchi anni e forse secoli, ch'io non lo so, nacquero al mondo certi ingegni più degli altri privilegiati, i quali vedendo che il terreno fruttificava, tentarono con l'arte di renderlo fecondo delle sementi migliori; e alcuni con pali e frasche imitarono le spelonche ne' monti cavate, e fecero casettine posticce; tanto che a poco a poco incominciarono tutti a valersi di quell'intelletto che aveano ricevuto dal cielo, e a migliorare la vita. Con tutto ciò essendo avvezzi alle boscaglie, e a certe costumanze piuttosto da tigri e da lioni, che da uomini, non aveano mai pace insieme, e sempre o colle pugna o co' bastoni facevano zuffe e battaglie; quando l'altissimo Giove, aperto il suo finestrino sul cucuzzolo dell'Olimpo, deliberò di metter fine alle discordie loro.

Avea egli costassù una bellissima figliuola, la quale nello splendore della sua faccia vinceva tutte le scintillanti stelle; ed era stata fin dal suo primo nascimento allevata fra le caste braccia della sapiente Minerva. Non era cosa che alla divina giovanetta fosse ignota; e quando ragionava, usciva dalla sua dolcissima lingua un'armonia non dissimile da quella che dicono i periti delle cose celesti nascere dall'aggirarsi delle sfere. Non sono aeree le parole di lassù, come sono le nostre; solamente sono composte di aria e di articolazione, sicchè uscite della gola si disperdano subitamente, ma hanno veste durevole; imperciocchè non può essere infecondo quello ch'esce dalle celesti bocche. Per la qual cosa le parole che uscivano delle labbra alla mirabile figliuola di Giove, erano tante anella di oro intrecciate l'una nell'altra a guisa di una catenella; ma tanto invisibile, che occhio umano non sarebbe pervenuto mai a scoprirla, benchè la fosse di una grandissima forza e attissima a legare tutte le intelligenze del cielo. Era costei nominata Eloquenza, la quale fu chiamata un giorno da Giove a , che l'abbracciò, baciò in fronte, e le disse queste parole.

Figliuola, vedi da questo mio finestrino costaggiù nel mondo come sono ravviluppate tutte le faccende. Sempre sono gli uomini alle mani, e nimici l'uno dell'altro. Non hanno di me conoscenza veruna, punto sanno con quali ordini si debbano reggere per avere fra loro pace e quiete. Tu sola puoi con la facoltà della tua lingua spargere sulla terra quelle conoscenze e que' lumi che li rendano mansueti e amici l'uno dell'altro, e con quella tua invisibile e maravigliosa catena di oro legarli in perpetuo vincolo di compagnia e di fede che giammai non si rompa. Tu dèi però sapere che non tale ritroverai essere la forza della tua catena fra gli uomini, quale l'hai fino a qui fra noi ritrovata, imperciocchè quassù tu ritrovi una súbita capacità e docilità a' tuoi soavi legami; laddove fra loro all'incontro ti abbatterai in ingegni duri, rozzi, intenebrati, ne' quali o nulla o poco potrà il vigore della tua favella; e oltre a ciò vedrai animi cotanto ostinati e sì poco avvezzi alla delicatezza, che tu giureresti di aver a fare con sordi, e piuttosto con durissime pietre che con cuori umani. Tu hai a vincere due quasi incontrastabili opposizioni per giungere ad allacciarli. Hanno costoro, che tu vedi colà, due parti per le quali possono esser presi e vincolati; l'una è il cervello, e l'altra il cuore; ed hanno fra queste due parti una mirabile corrispondenza e consonanza, la quale se tu saprai toccarla co' debiti modi, pensa che ne sarai vincitrice: ma la loro ignoranza e stupidità è tale, che tu non sapresti vincere la prova da te sola.

Avea il mio fratello e a me nimico, rettore dei profondi abissi, mandati sulla terra due de' suoi, l'una femmina e l'altro maschio, la prima chiamata Curiosità, e l'altro Desiderio, commettendo a quella che s'ingegnasse di signoreggiare al cervello, ed al secondo al cuore degli abitatori della terra; e se io con un súbito avviso non li avessi fatti legare da Mercurio dentro alle viscere di due disabitate caverne, avrebbero fino a qui condotto il mondo a molto peggior condizione di quella in cui si trova al presente. Imperciocchè la prima con gli stimoli suoi gli avrebbe commossi a voler sapere migliaja di cose che non importano alla felicità della vita loro, ed il secondo con un certo suo impeto naturale gli avrebbe traportati a volere quello ch'è nocivo, in iscambio di quello che giova; sicchè non avrebbero più un bene al mondo. Con tutto ciò l'una e l'altro oggidì sono necessarj; e ordinerò a Mercurio, che di dove prima gli avea rinchiusi, li lasci uscire, e dia loro la libertà del conversare fra le genti; vedendo io molto bene che la tua dolcissima favella non potrebbe far effetto veruno se prima questi due non apparecchiassero gl'intelletti e gli animi alla medicina de' tuoi ragionamenti. Tu sei allevata quassù nell'Olimpo, tu vedi quello ch'è bene, e sai che sulla terra non possono aver pace le genti se non si conformano, per quanto lo soffre la natura umana, ai voleri di quassù; e perciò quando conoscerai che gl'intelletti e gli animi saranno stimolati dalla curiosità e dal desiderio, apri loro con la gratissima fonte del tuo favellare quelle cose che sono le più degne di essere sapute, e quelle che sono le migliori da essere desiderate. Anzi io voglio che tu medesima ne vada con esso Mercurio, e sia la prima a presentare agli uomini la Curiosità e il Desiderio, acciocchè conoscano ch'essi due sono a te soggetti, e che tu sei loro signora, e che puoi condurli, allentarli e tenerli a freno quando a te piace; ed in effetto da questo punto in poi, ecco che io ti conferisco un'assoluta padronanza sopra di quelli. - Quando Giove ebbe così detto, chiamò a Mercurio, e gli ordinò incontanente quello che volea che fatto fosse: e abbracciata di nuovo la sua figliuola, le diede licenza. Volarono Mercurio ed Eloquenza dall'altissima regione de' cieli alla montagna dove si giaceva la Curiosità, e quella dalle sue catene slegarono, tenendola però Eloquenza benissimo stretta a mano perchè non le fuggisse; e di a poco fecero lo stesso del Desiderio, il quale fu aggiunto all'altra; e così tutti e quattro in compagnia si avviarono alla volta delle umane abitazioni. Io non so se saprò dire quello che la divina Eloquenza proferì dinanzi all'umana turba. Egli è impossibile che il suo celestiale ragionamento possa essere notato quale fu appunto dalla mia penna; ma m'ingegnerò a un dipresso di ricordarne la sostanza.

"O usciti, diceva ella dalle mani del supremo Giove, abitatore de' celesti regni, stirpe grande e nobile che da te medesima non ti conosci; sorgi dal tuo profondissimo sonno, e sappi che quelle lucide stelle che intorno al tuo capo si aggirano, furono create per te; che questa terra la quale di frondosi alberi e di fruttifere piante è vestita, è solamente fatta per te così bella. Perchè giaci tu in un perpetuo letargo senza voler nulla sapere? Quel pietoso Giove, a cui più che ogni altra cosa creata stai a cuore, t'invia questa donzella la quale, se verrà da te cordialmente accettata, in breve tempo ti farà comprendere quello che non sai, e ti renderà degna di quell'eterno e mirabile facitore che ti ha creata e ti guarda con diletto dalle sue celesti abitazioni. E perchè il cuor tuo non giaccia in eterna infingardaggine, ma si ravvivi e si accenda di quelle nobili voglie che ti facciano operare cose gradite a lui, eccoti che per parte sua ne viene a te questo giovinetto il quale ti desterà alle grandi opere, e metterà l'umana generazione in un perpetuo movimento di vigore e di vita."

Alzavano gli orecchi tutti gli ascoltatori d'intorno alla parlatrice Dea; e benchè poco ancora intendessero il vero significato delle sue parole, pur si vide fra tutti una grande allegrezza, intendendo ch'erano usciti dalle mani di Giove, e che le stelle e ogni bellezza del mondo era fatta per loro; onde con voci e con atti, quali seppero il meglio, accettarono il dono de' due giovanetti fra loro, e ringraziarono Eloquenza che ne fosse stata la condottiera. Mercurio quando egli ebbe veduto la riuscita della faccenda, salì al cielo ad arrecarne a Giove novella; ed Eloquenza fra gli uomini sulla terra rimase.

Pochi giorni trascorsero, che incominciò fra gli uomini a chiedersi l'imperchè di molte cose, delle quali poco prima non si erano punto curati; e si vedea da ogni lato volere quello che non sognavano di volere pochi giorni innanzi; il che fu ad Eloquenza indizio che gl'intelletti e gli animi erano apparecchiati alla forza del suo favellare. Per la qual cosa quasi ogni saliva in un certo luogo rialto, e proferiva vigorosissime orazioni; per modo che a poco a poco la fece conoscere alle genti la verità, fecele insieme adunare, diede loro leggi, insegnò costumi, e di una salvatica terra che prima si vedea, fece una civile abitazione in cui, in iscambio delle pugne e de' graffi, incominciarono i baciari, i salutari, le cortesie, i convenevoli, e le altre gentilezze che fanno bello il mondo.

 

Osservazione.

 

Non dee ancora da' principj suoi spiccarsi la vera eloquenza. Due cose ella avrà sempre a vincere, cioè l'intelletto ed il cuore umano. Le scienze sono di grandissima necessità, perchè l'uomo è avido di sapere, e con esse solamente si può pascere l'intelletto degli ascoltatori; ma non è perciò men necessario il conoscere tutte le pieghe del cuore umano, per muovere le passioni e guidarle a quel fine a cui vuole il parlatore. Se manca il primo ordigno, non si può allacciare l'intelletto; se manca il secondo, non si può guidar il cuore a suo modo. Beato chi gli ha tutt'e due, e può e sa valersene con arte. La favola da me inventata, e scritta qui sopra, contiene questa intenzione, con la quale rispondo ad una gentilissima polizza che mi fu mandata a questi giorni. I presenti fogli non comportano precetti, particolarità di regole e di arti. Tanti sono i libri che trattano di questa materia, che sarebbe superfluo il ragionarne più oltre. Ringrazii il cielo chi ha avuto natura inclinata a ciò, e sopra tutto non si scosti dall'inclinazione di natura, se non vuole che gli avvenga quello che narra una

 

 

FAVOLA

 

Vengon dall'alto ciel, dal bel soggiorno

Dove han luogo gli Dei l'api gentili,

Che ronzando con grato mormorio

Colgono il dolce mel da' vaghi fiori.

Le prime, che di volsero l'ali,

Presero albergo sull'Imetto; e quivi

Dai nudriti da zefiri soavi

Fiori odorati, trassero il tesoro

Onde fan ricchi i lor beati sciami

Avida mano il mel ne prese, e vota

Ne rimase la cera. In varie faci

L'arte cambiolla. Un borïoso cero

Ornato d'oro e di ben pinte foglie,

Ah! perchè, disse, sì candido e ricco,

Perchè non cerco di durare eterno?

Non vegg'io forse l'impastata terra

Indurarsi nel fuoco, e non consunta

Esser dagli anni? A che non fo lo stesso?

Così detto si lancia ove di fiamme

Ardea gran forza; e nulla ivi rimase.

 

 




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