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Gasparo Gozzi
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    • LXIX.   Ragionamento de' Sogni.
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LXIX.

 

Ragionamento de' Sogni.

 

Ægri somnia.

Horat. de Arte poët.

 

Sogni d'infermi.

 

Sono al mondo certi pazzacci, i quali non avendo cervello quando vegliano, e facendo nel corso della vita ogni faccenda al rovescio, credono che i sogni sieno la vera norma del regolare i fatti loro; e poichè non sanno prendere un consiglio da , conoscere se altri lo dia loro tristo o buono, si rimettono al dormire, e secondo che sognano si apparecchiano all'operare. Egli è bene il vero che per lo più si vergognano di dire: Io farò, ovvero Ho fatto a questo o ad un altro modo, perchè io mi sono sognato sì e sì -; ma da quello che n'esce, non si può conchiudere altra cosa, se non che i sogni sieno stati la loro guida: e chi ha pratica di ciò potrebbe benissimo indovinare da qual sogno sia nato un errore, un granchio, un grillo, una pazzia, una bestialità, le quali non potrebbero nascere se l'uomo non si fosse affidato a' sogni. Quanti sono che con questa fiducia spendono i danari al lotto? Non si sono forse composti libri e formato dottrina del sognare? Che non può apparire dormendo talpa, coccodrillo, albero, paglia,

 

Ne' zaffirj, orinali e ova sode,

Nominativi fritti e mappamondi,

 

i quali non significhino un numero; e benchè la polizza non esca benefiziata, piuttosto che dar colpa a' sogni, si accusa l'ignoranza degl'interpreti, e dopo si dice: Oh! bestia ch'io fui! non parlò forse chiaro il sogno mio? Si potea dare evidenza maggiore? eccoli i numeri, chiari come nell'abbaco. - Ma io la perdono alle femminette e agli omicciattoli da nulla, dappoichè nobilissimi filosofi aveano questa opinione anch'essi. Ippocrate, che pure non fu un'oca, vuole che da certi sogni si possa conghietturare piuttosto una malattia che un'altra; ed ecco una dottrina la più necessaria all'umana generazione, fondata anch'essa sul sognare, come il giuocare al lotto. Oh! non vi furono forse di quelli che sostennero i sogni di tutto l'anno esser buoni, fuorchè quelli dell'autunno? Vedi Plutarco, s'egli vi fa sopra un lungo ragionamento, nel quale mi piace l'opinione di Aristotile riferita da Favorino, che ne la cagione a' frutti nuovi che si mangiano in quella stagione, e al vento e agl'impacci che producono nel corpo, d'onde nascono i sogni torbidi, mescolati e avviluppati per modo che non se ne può trarre nulla di buono. Dopo viene in campo la pensata di Democrito, il quale afferma che i sogni sono immagini che si partono dalle cose che ci stanno intorno, e ci passano per li pori, entrandoci nel corpo non so in qual sacchetto, d'onde poi uscite ci fanno sognare. E pensa che sì fatte immagini ci vengono da tutti i lati, dai vasellami, dai vestiti, dagli alberi, e specialmente dagli animali, perchè questi molto si movono e hanno calore; sicchè si può dire che per li pori ci entrano, come dire, i suggelli di ogni cosa e le apparenze di tutto. Ed essendo nel tempo dell'autunno l'aria disuguale, or fredda, ora umidaccia e ora altro, queste immagini ne vengono ora piano, ora forte, s'incrocicchiano l'una con l'altra, si avviluppano e si confondono; onde così mescolate non hanno il buon effetto delle altre stagioni, e non fanno quella impronta che giova a sapere la verità, sicchè non è da affidarsi punto. Oltre a questi pareri, ve ne sono anche altri, che sarebbe lungo a riferirli; e io non posso fare a meno, vedendo che sì fatti uomini consumavano il tempo in tali cosette, di non ricordar qui quello che diceva Seneca parlando della filosofia.

"Mi vergogno che in una scienza che tanto importa, anche vecchi, trattiamo di frascherie. Topo è due sillabe, ma il topo rode il cacio; dunque due sillabe rodono il cacio. Fa tuo conto ch'io non sapessi anche sciogliere questo argomento, qual danno me ne verrà? qual male? qual fastidio?... O sciocchezza, o puerilità! in così fatte meditazioni aggrotteremo le ciglia? In esse ci è cresciuta la barba? E siamo così pallidi, malinconici e solitarj per insegnar queste belle dottrine?" Io non saprei dare il torto a Seneca, e non credo che ci sia chi gliele volesse dare.

Maladetta sia la erudizione, e il voler parere da qualche cosa con la roba altrui. Ecco che, per innestare questo squarcio di Seneca, io mi sono cotanto dilungato dal mio proposito primo de' sogni, che non so più come rappiccare il filo. Ma sia come si vuole, io so che volea dire che ne ho fatto uno io ancora, il quale sendo di ottobre, non so quello che voglia significare, d'onde diavolo sieno uscite le apparenze di esso per penetrarmi ne' pori; quando non fosse, che io vidi e udii jeri un cieco a cantare e suonare una vivuola; e ho sempre intorno parecchi libri da tutt'i lati; dalle quali cose innestate e rappiastrate insieme, e trapelatemi dentro, sarà nato il seguente

 

 

SOGNO

 

A passo a passo io me ne andava camminando a piede di una certa montagna, la quale con un erto e difficilissimo giogo parea che salisse fino alle stelle; e tutto d'intorno così vestita di folti alberi, e qua e colà renduta scoscesa, dirupata e rotta da massi, da non potervi andar sopra se non con le ale. Io non so qual desiderio mi stimolasse di voler salire; ma mi parea di struggermi, e andava da ogni lato esaminando e spiando qualche luogo facile e qualche adito da potermi, se non altro, aggrappare. Quando in un certo viottolo, mezzo coperto dalle ortiche e dalle spine, vidi sopra un greppo a sedere un uomo canuto con una prolissa barba, il quale tenendo una sua cetra in collo, e movendo con gran prestezza le dita, soavemente accompagnava la sua voce, che proferiva cantando questi versi:

 

Chi cerca di salire all'alto loco,

Di qua venga ov'io sono; è questo il passo.

Ratto andarvi non può, ma a poco a poco

Vedrà la terra piccioletta a basso.

L'ozio abbandoni, la lascivia, il gioco;

Perchè lungo è il cammino ed erto il sasso.

In fin vedrà piaggia felice e aprica:

Ma a gloria non si va senza fatica.

 

Sarà beato, se negli ultimi anni

Della sua vita al colmo giunger puote.

Molti sono i sudor, molti gli affanni

Che sostengon le a Febo alme devote.

Eterna fama poi compensa i danni;

potrà volger di celesti ruote

Toglier la gloria a chi sull'erto monte

Di ghirlanda d'alloro orna sua fronte.

 

Ma non s'inganni chi prende il vïaggio;

Ei molte donne troverà tra via

Che incoronan di salcio, d'oppio e faggio,

Mostrando a' vïandanti cortesia.

Conoscerà chi veramente è saggio,

 Che son Superbia, Vanità, Pazzia:

prenderà per lauro eterno e verde,

Foglia che in breve tempo il vigor perde.

 

In questa guisa cantava con dolcissima armonia il venerando vecchione, a cui accostatomi con grande atto di umiltà, e temendo di sturbare la sua canzone, me gli posi dinanzi, quasi volessi ascoltare s'egli fosse andato più oltre cantando. Ma egli lasciato stare il suono ed il cantare, e voltatosi a me con benigna faccia, mi domandò chi fossi e d'onde venissi, ed io gli risposi: Desiderio di salire sopra questa montagna mi ha qui condotto, per modo che non mi parea più di poter vivere se non mi concedeva fortuna di fare questo viaggio: ma poichè sono avventurato di tanto, che in questo luogo ti ho ritrovato, e tu hai, a quello ch'io udii, gran pratica del monte, io ti prego quanto so e posso, che tu mi dia quegli utili avvertimenti co' quali io mi possa all'alta cima condurre. - Lascia, rispose il buon vecchio ch'io ti vegga; e poscia cominciò a considerare. Magro, aria astratta, malinconico, non molto coltivato in corpo; a quest'indizj tu potresti benissimo incamminarti, e mi sembri uomo da ciò; ma prima è da vedersi se con queste cose estrinseche si congiungono anche le tue operazioni. Alza la faccia, parlami chiaro. In che hai tu consumato il tempo tuo fino al presente? - Da' primi anni miei, risposi, abbandonata ogni altra occupazione e fatto il tesoro mio di un calamajo e di certi pochi libri, non mi sono spiccato mai da essi, parendomi di godere l'ambrosia e il nettare degli Dei quando io posso pacificamente attendere agli studj. - Quale acquisto, ripigliò il buon vecchio, facesti delle tue lunghe fatiche e vigilie? - Acquisto, diss'io? Quanto è alle lettere, io non so, perchè io non ho mai fatto sopra ciò i calcoli miei per timore, vedendo tanti altri ingegni antichi e moderni andati innanzi al mio, che mi par di essere ancora nel guscio: quanto è poi ad avere e alle ricchezze, non solo questa vita non mi ha fruttato nulla, ma ne ho avuto discapito. - E questo discapito, diss'egli, come ti è doluto? - Se, io dissi, avessi a vivere eterno sulla terra, io ti confesso che ne avrei un profondo rammarico; ma avendo io fino al presente passato più che la metà della vita, e vedendo che poco andrà ch'io sarò uscito di ogni impaccio, mi vo confortando con la brevità del tempo avvenire, e me ne curo poco. - Tu hai, ripigliò il vecchio, quel ramo di pazzia ch'è sufficiente a poter andare allo insù di questo monte, e sappi che questo è uno de' bei principj da sperare di giungere alla cima. Oh! se tu avessi forza d'ingegno corrispondente a ciò, io ti prometto che tu saresti nato eterno. Imperciocchè io ti potrei noverare che tutti coloro i quali giunsero ad avere la ghirlanda dell'alloro dalle mani di Apollo, come io poco fa dissi nella mia canzone, incominciarono dall'abbandonare ogni desiderio di mondano bene, e ogni modo di vivere parve loro buono, purchè tirassero innanzi come potevano la vita. Io medesimo fui uno di quelli. O chiunque tu ti sia, che sei qui giunto, sappi che io sono colui che cantai l'ira d'Achille e gli errori d'Ulisse: tu dèi sapere chi sono. - Udendo che quegli al quale io favellava era il divino Omero, incominciai a tremare a nervo a nervo, la voce mi si arrestava nella gola, e dall'un lato la curiosità mi spronava a mirarlo bene in faccia, mentre che dall'altro il rispetto mi sforzava ad abbassare gli occhi. Pur finalmente ripigliando gli smarriti spiriti, gli chiesi scusa se non l'avea conosciuto prima; imperciocchè avendo io udito a dire ch'egli era stato cieco, non avrei potuto mai immaginarmi ch'egli fosse quel desso, dappoichè io lo vedea ora con due occhi risplendenti, e molto più di quello che si richiedesse ad un'età cotanto avanzata. - Io fui cieco, mi rispose, è vero: ma tu dei però sapere che non fui così per tutto il corso della mia vita, di che ti narrerò una storia, che non avrai forse udita giammai, come quella che non fu saputa da uomo veruno.

 

Io fui negli anni della mia fanciullezza cieco, ed essendo dalla povertà consumato, vissi delle limosine che mi faceano i Greci di città in città, cantando io nelle piazze diverse canzoni da me composte in lode di quelle genti che stavano intorno ad udirmi. Questa mia cetera, che porto ancora al collo, una buona voce, ed un incendio di passioni che mi ardevano nel petto, aggiunte ad un ingegno subitano e perspicace, mi rendevano uno squisito poeta; maravigliandosi ogni uomo che senza luce degli occhi potessi tanto sapere. Ma non essendo io sviato dalla varietà degli oggetti ch'entrano a sturbare l'intelletto per gli occhi, passava il mio tempo in continue meditazioni; e vivendo nelle publiche vie, negli alberghi publici, e qua e colà per le botteghe, ebbi occasione di udir a favellare ogni genere di genti, le quali di varie cose ragionando gittavano nella mia mente quelle sementi, che con la meditazione poi germogliavano e facevano frutto. Non ti potrei dire qual concetto avessi in me formato però degli uomini; perchè non vedendo punto le loro operazioni, ed in effetto essendo da quelli sostenuto con le larghezze che mi usavano, diceva fra me: Oh che buona, anzi divina pasta sono costoro! Vedi con quanto amore e con quale benignità mi prestano nelle mie occorrenze assistenza. Ma conobbi finalmente, che tutto ciò facevano per le canzoni ch'io cantava in lode loro. Imperciocchè essendo io giunto un giorno al tempio di Esculapio, e fatto quivi una cordiale preghiera, acciocchè egli mi facesse grazia di concedere agli occhi miei quella luce che non aveano avuto mai, udì le mie preghiere il pietoso nume, ed ebbi allora per la prima volta la vista. Oh non avessi mai pregato il cielo di favorefatto. Chè non sì tosto ebbi ricevuta la facoltà di vedere, conobbi a poco a poco quello che non avea saputo giammai; e quegli uomini ch'io avrei prima giurato che fossero tanti mansueti agnelli, compresi ch'erano lupi, tigri e lioni, che si mangiavano le carni del corpo l'uno con l'altro. Quello fu il punto che non mi lasciò più aver bene, perchè mosso da compassione del mio prossimo incominciai, secondo che vedeva certe male operazioni, a voler ammonire ora questo, ora quello, e, credendomi di far bene, a cantar per le vie qualche buon pezzo di morale; onde mi avvenne il contrario di quel che credea. Tutti mi voltavano le spalle, e vi erano di quelli che dicevano mille mali del fatto mio, e altri, non contenti di ciò, me lo dicevano in faccia, e vi furono alcuni che mi discacciarono dal paese loro; tanto ch'io fui obbligato ad andarmene ramingo ora in questo luogo ed ora in quello, quasi senza più saper dove ricoverarmi. Giunto finalmente a questo luogo, dove al presente mi vedi, posimi per istracco a sedere sopra questo sasso, considerando fra me quello che dovessi fare, parte sdegnato contro alla perversità delle genti, e parte volonteroso di ricondurle, per quanto a me era conceduto, al cammino della verità e ad un umano costume.

Allora dall'alto di questa montagna udii un'altissima voce che a mi chiamò, e mi disse: Omero la tua buona intenzione è veduta e commendata dagl'Iddii ai quali sei caro. Incomincia il tuo cammino, e non temere di nulla; chè la maldicenza non ti potrà punto nuocere, e si disperderà da' venti, che seco portano le cose leggiere. S'egli ti l'animo di vivere con parsimonia e di non curarti punto di agi e di abbondanza di corporei beni, avrai quassù dove io sono, immortalità di nome, e sarai maraviglia di quanti dopo di te verranno. - Questa magnifica promessa mi empiè tutto l'animo di ; e promisi alla sconosciuta voce di fare ogni suo volere, dimenticandomi di tutte le cose terrene; e incontanente vidi un luminoso raggio che mi dimostrava il cammino a salire. Con tutto ch'io avessi l'invisibile ajuto degl'Iddii, non ti potrei dire a mezzo quanto fu il mio sudore e lo stento prima che pervenissi alla sommità della montagna; ma finalmente, superato ogni ostacolo, a capo di parecchi anni mi trovai sulla cima di quella. Io non ti narrerò le accoglienze che n'ebbi, i bene armonizzati suoni e i balli delle leggiadre Muse che costassù albergano; ma solo ti dirò ch'egli mi parve di essere divenuto altr'uomo da quello ch'io era prima: i pensieri miei si fecero più vigorosi e più maschi, la voce più gagliarda, e questa mia cetera, tocca da me costassù, parea un incantesimo a me stesso. Quivi appresi ogni bella dottrina alla sua fonte, e nelle selve abitate dalle deità mi venne voglia un giorno di domandare ad una delle Muse, che mi dicesse lo sdegno orrendo del Pelide Achille, che diede infiniti travagli agli Achivi, e mandò molte generose vite di eroi a Pluto prima del tempo, e li fece preda a' cani e agli uccelli del cielo. Al che ella rispose, che questo era stato volere di Giove; e così dicendo mi empiè il capo di tante immagini e di tanti pensieri, ch'ebbi materia da riempiere ventiquattro libri; ne' quali feci vedere gli effetti delle umane passioni, lodai la virtù, dimostrai i segreti delle deità, la nobiltà del valore, il potere dell'eloquenza, e tante altre cose, che a me medesimo parve impossibile di averne tante sapute, e certo io non le sapea se non fossi stato dal cielo ispirato! Anzi per non riuscire spiacevole agli uomini, cantai di coloro ch'erano già morti, acciocchè le mie lodi non si acquistassero la taccia di adulazione e i biasimi di satira; ma nelle persone già uscite di vita si vedesse uno specchio delle virtù e de' vizj che vivono senza insuperbirsi o sdegnarsi di quello che si legge, perchè non toccando punto il leggitore, nascesse in lui semplicemente l'amore alla virtù, o l'abborrimento del vizio.

parendomi ancora di aver fatto tutto quel bene che avrei potuto fare, terminato ch'ebbi la Ilïade, posi mano a raccontare gli errori di Ulisse, e i varj casi e pericoli ne' quali egli era incorso, per far conoscere in qual forma si dovessero gli uomini diportare ne' male avventurati punti della vita loro, e provare che la sofferenza è il superlativo rimedio di ogni cosa. Quando io ebbi terminate queste due opere, fui dalle Muse accettato nella compagnia loro per sempre, e mi fu dato l'uffizio di guidar quassù coloro che fossero amanti della sommità di questa montagna. - E quanti, diss'io, sono di qua passati dappoiché tu ci se', o Omero? - Pochi, rispose; ma non mi far entrare in questa briga, perchè sarebbe una lunga intemerata a dire le ragioni per le quali così picciol numero è privilegiato. Oltre di che mi viene anche fatta da Apollo proibizione di palesare questo segreto, prendendosi egli spasso nel vedere continuamente un gran numero di persone, le quali si credono di essere in sulla cima, e si diguazzano colà fra le pozzanghere di quella valle, chiamando anitre e oche i candidissimi cigni che nuotano nelle purissime onde del Permesso: di che Apollo si fa spettacolo e commedia, e non vuole che gl'infangati ricevano di ciò avviso veruno; ma si stieno a guisa di mignatte e di tinche nel loro pantano, stimando di batter le ale per l'immenso circuito dell'Olimpo. Ma non ne ragioniamo più, e dimmi se vuoi dar principio al tuo viaggio. - Ben sai che io mi struggo di voglia, rispos'io; e già lo pregava ch'egli mi andasse innanzi, e mi parea di vedere... Ma che? Le mattutine voci de' venditori di frasche e ciarpe altamente gridando per la via mi destarono, e non vidi più Omero, la montagna; ma mi trovai nel letto collo stampatore all'uscio che mi sollecitava per avere il foglio.

 

 

Annotazione.

 

Crederà alcuno che questo sogno celi in varj segreti; e chi sa che non ci sia qualche intelletto perspicace che non affermi che siffatti sogni sono mie invenzioni, e che io li fo quando voglio, e secondo che la fantasia stabilisce che debbano servire. Io ci giuocherei che sarà ritrovato qualche mistero grande in Omero cieco, nella montagna, nel mio desiderio di salire, ne' cigni, nelle oche, e in tutto quello che vi si legge; e potrebb'essere anche ch'io fossi tacciato di un poco di vanità, e nell'avermi lodato. Io accerto chi legge, che quanto ho detto non è stato altro che sogno, e che ogni cosa mi è apparita dormendo; e quando anche si sospettasse che il sognare così fatte cose venga da una certa prosunzione e albagia che ha lo spirito di stesso, la si può comportare; perchè in fine, quando fui per cominciar la salita, si vede che il sonno si ruppe, e che l'animo conobbe lo stato suo e la sua forza, si arrischiò di andare più avanti.

Oh! non si potrebbe però comportare ch'io mi lodassi un tratto in vita mia! Viene un punto nel corso della vita umana, che l'uomo si tiene da qualche cosa: s'egli s'inganna, pazienza. Non ho io forse udito di quelli che in luoghi publici non hanno mai a ragionare di altro che di medesimi? Io ho fatto tale e tale atto di amicizia, dirà uno; e un altro: la schiettezza mia non ha pari nel mondo; e io so fare e io so dire; tanto che pare che il commendar stesso sia necessità; e credo che sia in effetto: stimarsi di tempo in tempo da qualche cosa, purchè sia con una certa moderazione, è una spezie di nudrimento dell'anima. Daresti tu alla gola sempre di che inghiottire? No; perchè ti si empierebbe troppo lo stomaco; saresti sempre col capo pieno di fumo e di un calore che te lo farebbe andare attorno; oltre di che ne avresti di quando in quando qualche malattia, o saresti obbligato a coricarti a letto e ricorrere al medico. All'incontro se vuoi sostenerti in piedi, avere fiato e vigore da far le opere tue, hai di tempo in tempo a ministrare al corpo tuo un discreto cibo che ti rianimi, che ti rinforzi. Pensa similmente che l'avere qualche concetto di sia il pane e la vivanda dello spirito. Se tu vuoi far opera degna di qualche onorata fama, hai a ristorarti talvolta con questo manicaretto. Non lo ingojare però sempre, perchè esso ha una certa facoltà che ti rigonfia, ti empie di vento e ti farà scoppiare; e di ristoro diventa veleno. Se non ne pigli mai, eccoti vicino a morire di fame. L'animo si fiacca e si avvilisce, non gli pare di essere atto a nulla, inciampa ad ogni passo, e tutto gli pare difficoltà, ombra, notte, selva, dirupi; trema sempre. Che può mai uscire di un animo così fatto? Come si può distendere ad opere grandi e nobili? come può andare avanti se gli sembra di non poter stare in piedi? L'avvilimento lo lega, gli mette ceppi e manette, non sa più s'egli possa o non possa nulla, anzi sarà certo un giorno di non poter nulla, e giacerà seppellito nell'ozio. Non senti tu che quando il corpo tuo richiede di essere ristorato, ti sollecita la fame, il palato ti fa sentire il sapore di quello che mangi, con una squisitezza e con una dolcezza che ti tocca il cuore? Natura ti ha dato anche un certo appetito nello spirito di lode, di stima di te medesimo, per rinvigorirlo a tempo, per non lasciarlo sfiorire, e senti bene quanto sapore hanno le lodi, per indicarti che le sono necessarie; e se tu te le dai in coscienza e discretamente, le sono buone, nutritive e giovevoli a sollevare l'anima tua, e renderla capace e attiva nelle operazioni; e quando hai concetto di te a questo fine, io ti consiglio talora a dir bene di tempo in tempo del fatto tuo. Se poi all'incontro fosse tua intenzione che l'esaltar te medesimo fosse avvilimento altrui, e lo facessi a questo fine, guárdati come dal fuoco; imperocchè non si può dar vizio peggiore.

 

 




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