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Gasparo Gozzi
Prose Varie

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    • LXX.   Il Ragno e la Gotta. - Favola.
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LXX.

 

Il Ragno e la Gotta. - Favola.

 

Narrasi nelle antiche leggende, le quali hanno lasciato memoria de' luoghi d'onde uscirono tutt'i beni e i mali che sono venuti nel mondo, come non contento l'inimico Plutone di aver empiuto, per quanto potuto avea, la terra di calamità e di magagne, egli inventò anche un giorno il Ragno e la Gotta. E volendo mandarli fra gli uomini, chiamò a l'uno e l'altra, e parlò in questa forma: Io ho costassù una gente a me nemica, alla quale io studio con ogni vigilanza e diligenza di fare ogni qualche male; e benchè io non sia giunto ancora a quel colmo ch'è da me ardentemente desiderato, pure ho fino a qui tanto fatto, che non ho cagione di dolermi delle mie invenzioni. Sono usciti di qua gl'infiniti desiderj che travagliano quella genía, l'insaziabilità dell'avere, la guerra, la peste e tanti altri fastidj, che io credo che oggimai non abbiano un momento di riposo. Con tutto ciò, come si fa quando si sono condotte a fine le cose più importanti e massicce, non lascio mai di pensare a qualche novità; e a questi giorni voi mi siete venuti in mente l'uno e l'altra; e benchè non possiate far macelli, rovine universali, a me basta che secondo le forze vostre vi diate ad infastidire i miei nimici. Vedete di quaggiù i luoghi a' quali dovete andare. Quivi sono altissimi palagi e dorati, e dall'altro lato casettine picciole e capanne di genterelle; eleggetevi quale abitazione vi píace. Andate. - Vennero al mondo il Ragno e la Gotta, e data un'occhiata intorno, Oh! disse il Ragno, la natura mia è fatta per dimorare in luoghi ampj e spaziosi. Tu sai bene, sorella mia, che io debbo stendere certe larghe tele, per le quali non avrei campo che bastasse in queste casipole, sicchè pare a me che mi toccasse di abitare nell'ampiezza de' palagi e che tu mi dovresti cedere le abitazioni più grandi. - E così intendo io di fare, rispose la Gotta. Non vedi tu forse come ne' palagi vanno su e giù sempre medici, cerusici e speciali? io son certa che non avrei mai un bene al mondo, e la vita sarebbe un continuo travaglio. - Così detto, le si accordarono insieme, e la Gotta andò a conficcarsi nel dito grosso del piede di un povero villano, dicendo: Di qua, cred'io, non verrò discacciata così tosto, i seguaci d'Ippocrate s'impacceranno de' fatti miei; tanto che io spero di tormentare costui, e di starci con molta quiete.

Dall'altro canto il Ragno, entrato in un palagio molto grande, e salito fra certe travi colorite e con bellissimi lavori di oro fregiate, come se il luogo fosse stato suo, vi piantò la sua dimora, e cominciò ad ordire la tela e a prendere alla rete le mosche. Ma un indiavolato staffiere, quasi non avesse avuto altro che fare, con la granata in mano, parea che avesse preso di mira quella tela, e dàlle su oggi, dàlle su domani, non gli lasciava mai aver pace, requie; sicchè ogni giorno era obbligato il Ragno a ricominciare la sua orditura. Di che preso egli un giorno per disperazione il suo partito, ne andò alla campagna a raccontare la sua mala vita alla Gotta; la quale con dolorosa voce gli rispose: Oh! fratello, io non so qual di noi abbia maggior cagione di lagnarsi. Da quel maladetto punto in cui elessi di venir ad albergare con questo asinone di villano, pensa che io non ho saputo ancora che sia un bene. Sai tu quello ch'egli fa? mi conduce ora a quel bosco a fender legna, e di ad un tratto ad arare i campi, e quello che più mi spiace, a cavare la terra, dove calcando col piede sulla vanga, come se l'avesse di acciajo, non mi lascia mai campo di posare un momento; tanto che potresti dire che non solo io non fo verun male a lui, ma ch'egli all'incontro ne fa molti a me; sicchè si può dire ch'io abbia fatto come i pifferi di montagna, che andarono per suonare e furono suonati. Per la qual cosa, fratel mio, io credo che noi faremmo bene l'uno e l'altra se cambiassimo abitazione. - Il Ragno fu di accordo, ed entrato nella casettina del villano non ebbe più fastidio veruno, perché non vi fu chi gli ponesse mente; e la Gotta sconficcatasi di , andò ad intanarsi nel piede di un gran signore, il quale si dilettava di tutt'i punti della gola, e bevea i più squisiti vini che uscissero delle uve di ogni parte del mondo. Egli non sì tosto la si sentì ne' nodi, che non potendo più, incominciò a starsi a letto, e ad accarezzarla con impiastri, unzioni e mille galanterie, tanto che la vita sua divenne la più agiata e la più soave che mai si avesse.

Amico mio, questa favoletta non è nuova mia; ma facendo essa al proposito vostro, ve la ricordo. L'esercizio è l'unico rimedio a questo male. E se voi non immaginerete di aver le calcagna da villano e vi affiderete alle medicine, rimarrete il più dell'anno nello stato in cui vi trovate al presente.

 

 




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