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Gasparo Gozzi Prose Varie IntraText CT - Lettura del testo |
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Proemio di una Conversazione.
O magnum virum! contempsit omnia, et damnatis humanae vitae furoribus, fugit.
O grande uomo! ogni cosa ebbe in dispregio, e si fuggì avendo condannato
Sono infiniti coloro i quali biasimano le faccende mondane, e fanno professione di abborrirle in parole. Non è forse uomo al mondo il quale in vita sua non abbia detto più volte: credetemi, io sono stanco di affari, di aggiramenti, di avere visitazioni, di farne. Ho invidia a' villani, viverei volentieri in una villa, fra i boschi, sconosciuto: e se non fosse ch'io sono ritenuto da tale o da tal catena, io già mi sarei deliberato a fuggire da questo mondaccio tristo, pieno di lacci, reti e trappole, che insidiano qua le braccia e costà i piedi; sicchè a camminare siamo obbligati ad ogni passo a guardare e a far come i cavalli che aombrano. Posto che cotesti tali si stabilissero un giorno ad andare in una solitudine, quando vi fossero stati alquanti giorni cambierebbero ragionamento e direbbero: Oimè! che vita è questa? che noja mortale! Almen che sia, ci fossero qui uomini da poter favellare, o da poter udire qualche cosa da uomini! Ma qui non mi abbatto ad altro che a villani, i quali per aver veduto solo con gli occhi del corpo que' pochi oggetti che si sono loro presentati in questi luoghi solitarj, congiungendo di rado due idee l'una all'altra, a pena sanno sciogliere la lingua; e dall'altro lato ogni più facile e aperto ragionamento che si faccia, par loro un indovinello. Di buoi, di pecore, di castrati non me ne curo; di seminare, potar viti, segar fieno non me ne intendo; sicchè fra poco io sarò condotto a valermi della bocca per isputare e non per altro. Che diavol farò io qui? A che non me ne vado io? - Sicchè ad ogni modo stieno gli uomini in città o in villa, non sono contenti mai, e vorrebbero cambiare la vita loro con istantanee tramutazioni. Ma l'aggiramento e l'incostanza non ci viene dalle cose di fuori, e qui sta il nodo. Egli è che ciascheduno di noi ha in corpo una ruota che mai non si arresta, ma sempre va intorno con grandissima furia; sicchè oggidì vorremmo una cosa e domani un'altra; e se noi non mettiamo prima ogni nostro ingegno per arrestare quest'ordigno, o almeno per indugiarlo il più che si possa, non avranno mai fine i nostri struggimenti e le nostre smanie dovunque siamo. Per giungere a tanta fortuna io non ci veggo altro rimedio, se non che ognuno, quando egli entra nel mondo, studiasse bene intorno a sè, e minutamente esaminasse le circostanze della sua vita; e si appagasse, dal più al meno, di vivere fra esse per tutto quel corso che gli sarà conceduto dal cielo, senza curarsi di altro. E.... Ma che romore è questo mentre che io sto qui meco medesimo filosofando? Genti che vengono a ritrovarmi. Sieno i ben venuti. Convien che io vada loro all'incontro. Chi sa? renderò forse fra mezz'ora conto al publico della mia conversazione. Intanto tralascio di scrivere, e me ne vo.
Breve racconto della mia Conversazione
Pare che alle volte il caso si mescoli nelle faccende degli uomini. Io era quasi impacciato a proseguire il mio ragionamento in questo foglio. Volea troppo sottilizzare, mi stillava il cervello, e forse forse sarei stato inteso poco. Gli amici miei erano una brigatella di galantuomini che andavano alla campagna. Vennero a salutarmi in fretta prima di partirsi. Alcuni di loro dicevano che la vera felicità si gode nella solitudine, altri dicevano il contrario. Uno fra loro dicea che la vera felicità (e questo è il punto ch'io volea trattare) l'uomo non può averla se non la fabrica in sè. Come si ha a fabricarla? Con una bella, gagliarda e instancabile forza della fantasia. Questa sola ci può ajutare a vivere contenti. Vadano le cose come le vogliono, che importa a me se io mi sarò messo in capo che le vadano a modo mio? e facciano gli uomini quello che piace loro, che fa a me se io sarò risoluto a credere che facciano quello ch'io voglio? Io so che tutti voi, quanti qui siete, avete l'umore vôlto agli studj filosofici; e ognuno di voi si ha eletto qualche filosofo per maestro e guida de' suoi costumi. Così ho fatto anch'io; ma lasciando stare tutti gli antichi e i moderni scrittori, ho preso per esempio della vita mia una filosofessa, che vive, mangia, bee e veste panni; la più ampia, sublime e penetrativa mente che mai discendesse ad illuminare la terra, se la fosse creduta e seguita. Ma che? quello che si possiede non si apprezza; e se la fosse venuta da qualche lontano paese a far professione della sua virtù, ognuno le correrebbe dietro; ma essendo nata in Venezia e in una stessa patria con esso noi, non vi ha chi la curi, da me in fuori. Egli è il vero che, per quanto io m'ingegni di andar dietro all'orme sue, le sono ancora molto lontano; ma prima forse ch'io muoja, tanto farò che si saprà ch'io sono suo vero e sviscerato discepolo. - Parlava questo uomo dabbene con tanto entusiasmo, che ognuno di noi ardeva di voglia d'intendere qual fosse la filosofessa tenuta in tanto concetto da lui; onde pregato e ripregato più volte, ci rispose, non già ridendo, ma con indicibile gravità, che la era BETTINA. Rise ognuno di noi a questo nome, e credemmo ch'egli scherzasse; ma il buon uomo alteratosi daddovero, rinovò il suo dire con maggior calore di prima, e fece un ragionamento, ch'ebbe quasi quasi la forma rettorica di un'orazione, dicendo: E fino a quando, o sconsigliati, o ciechi degli occhi mentali, starete voi senza conoscere quel bene che il cielo vi manda? Aggirasi per tutte le contrade questo vasello di ogni morale virtù, e voi insensati no'l conoscete? Tutte sono nel suo seno ed intelletto raccolte quelle qualità che rendono le persone tranquille. La sua nobile fantasia con penetrativo vigore dipinge a lei tutte le cose in quel modo che è utile a lei sola e non disutile altrui. È ella forse travagliata dalla sua povertà? nulla. Stimasi da sè la più qualificata femmina che sia oggidì sopra la terra. Di qua avviene che que' pochi cenci che le danno le genti, gli si acconcia in sul corpo in guisa, che sono alla condizione da lei fortemente immaginata adattati; e quello ch'è limosina delle caritative persone, lo giudica omaggio e tributo. Un canovaccio prende nelle sue mani figura di andrienne, uno squarcio di velo e di pannolino vecchio sul capo suo si trasfigura in corona. Le penne delle oche e de' capponi, con le quali si adorna il collo, sono stimate da lei preziosi gioielli e collane, e con tal portamento ne va, che ben si vede quanto conto ne tenga. Quel suo contegno maestoso d'onde deriva esso, se non che da una coscienza sicura di sua grandezza? Que' risolini ch'ella fa talora, d'onde procedono, fuorché dalla sua intenzione di beneficare di sua grazia i vassalli suoi, ne' quali mette ogni ordine di persone? Voi la vedete poi di un colore brunetto, giallognolo, traente alla woce, con un naso piuttosto lungo, due occhi piccioli e bigi, una bocca grande e ampia. Ma questo che fa a lei, se da sè medesima la si tiene la divina figliuola di Giove, madre degli Amori, in somma la celeste e graziosa Venere? Io so bene che nelle vie, nelle piazze, nelle botteghe ella è salutata, chiamata qua e colà, vezzeggiata da mille persone il giorno, le quali si credono di farsi beffe di lei. Ma prende ella forse cotante cortesie per beffe? No; anzi le stima gentilezze dovute alla sua inestimabile grazia e bellezza, e tiensene da più; e tanto si pregia, che con le dolcissime sue occhiate, giurerebbe che libera dal travaglio i più spasimati amanti del mondo. Io la ho sentita più volte a cantare, e comechè nel principio talvolta pare che l'intuoni bene, a passo a passo poi va giungendo al gorgheggiare con tale frastuono che scortica gli orecchi de' circostanti: ed ella tuttavia crede di mettere negli orecchi di chi la ode l'armonia de' più soavi rosignuoli e delle più dilicate calandre; e s'ella stordisce tutti intorno a sè, questo non fa punto male a lei, quando nella sua immaginativa le sembra di essere la Musica in carne e in ossa; e si gode di quel diletto ch'ella è certa di dare a' suoi uditori. Ma quello che più di ogni altra cosa è in lei degno d'imitazione, è il suo eloquente linguaggio. Oh! quello sì che merita tutta l'attenzione; e se io fossi nell'arte rettorica bene erudito, le andrei sempre dietro per segnare mille bei detti e mille figure ch'io non ho mai ritrovate in altri dicitori. Tutti coloro che fanno professione di parlare o di scrivere con eloquenza, procurano sopra ogni cosa di essere intesi; la qual intenzione, sia con buona licenza loro, non è giudiziosa, nè fa quell'effetto ch'essi credono. Quando l'uomo vuol persuadere e parla chiaro, l'uditore, che maligno è per natura, intendendo subito quello che gli vien detto, gli apparecchia in suo cuore la risposta, e gli si oppone nel suo interno; nè certo da altro nasce la gran difficoltà che si trova nel persuadere, checchè ne dicano i maestri dell'arte. Ma se il parlatore favellerà in modo che non sia inteso da alcuno, con vocaboli scelti, ma proferiti con significato diverso da quello che hanno; e sopra tutto empierà il suo ragionamento di contradizioni continue e di pensieri che non abbiano mai che fare l'uno con l'altro, allora la malignità di chi ascolta non avrà più campo di opporsi, di apparecchiarsi alla difesa, e converrà che ceda il cuor suo al parlatore. Oh! non si può dire che in tal modo rimanga persuaso. Rimarrà sbalordito; e farà quel medesimo effetto. Ma certo voi non mi potreste negare che sia più facile il formare la risposta contro a colui che parla chiaro, che contro a chi parla oscuramente. Quest'ultima forma del favellare, buja, con perpetue contradizioni, paroloni che suonano e proferiti con significato diverso da quello che hanno, è mantenuta perpetuamente dalla filosofessa mia maestra. O nobile e da umana mente inconcepibile Bettina, quando favelli! Dia il cielo alla mia immaginativa il vigore di assecondarti: concedami idee sempre slegate, l'una all'altra opposte, e parole che feriscano con forte colpo gli orecchi di fuori, ma non trovino buco da penetrarvi dentro! E voi, o insensati, che qui mi state d'intorno ad udirmi, se volete aver bene sinchè vivete, dipingete a voi stessi le cose in quella forma che possa acquietarvi l'animo, e non vi curate del restante. - Dappoichè l'amico ebbe favellato in tal guisa, tutti si levarono in piedi, e taciti intorno a lui, stavano pure osservando s'egli avesse così parlato da buon senno o da beffe. Ma vedendo ch'egli non cambiava faccia, e parea più che mai stabile nel proposito suo, scambiarono argomento, e dette alcune poche parole si partirono da me, e s'imbarcarono per la volta della campagna. Io rimasi solo, e considerando che quanto avea udito, si confaceva in parte col suggetto che avea stabilito di trattare stamattina, scrissi il fatto della mia conversazione.
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