LXXVIII.
Sul
Buongusto poetico.
Nec studium
sine divite vena,
Nec rude quid prosit video ingenium.
Horat.
Io non so
a che giovi lo studio senza
un'abbondante
vena di natura, nè un
ingegno
rozzo e nudo di arte.
A questi passati giorni
io ebbi ragionamento con un uomo di molta dottrina e garbato scrittore di
versi, il quale, secondo che nel suo favellare dimostrava, parea ch'egli
credesse non essere in poesia bellezza veruna da potersi affidare che piacesse
o non piacesse al publico. Quante sono le teste, diceva egli, tanti sono i
pareri: chi la vuole ad un modo, chi ad un altro; e però io non oserei di
affermare che ci fosse un'arte la quale insegnasse altrui in qual forma si
potesse contenere chi scrive per dar nell'umore universalmente. Io leggo, per
esempio, un componimento a venti o a trenta persone, e fra esse le scuole
diverse che avranno avute l'educazione varia, le occupazioni differenti, i
pensieri di molte qualità saranno cagione che l'intendono diversamente. Dunque
che ho io a fare? Come posso comporre in forma che i versi miei, entrando per
tutti gli orecchi dei circostanti, facciano un effetto medesimo? Io non potrei
affermare che l'uomo dabbene non avesse così al primo ragione; ma esaminando
minutamente l'arte di cui si valsero gli antichi nel guidare le opere loro,
egli si vede, secondo me, appunto che conobbero la stessa difficoltà, e
ritrovarono un valido mezzo di superarla, e sì la superarono in effetto, che
piacquero a' tempi loro, e sono anche oggidì rimasi vivi fra gli uomini e
modelli perpetui degli altri. Egli mi pare dunque che il primo artifizio usato
da loro fosse quello di tirare a sè tutti gli animi e ridurli ad un solo
pensiero, per averli attenti e pronti ad ascoltare tutto quello che voleano dir
loro, non altrimenti che quel Terone pittore di cui feci io già una volta in
altro luogo ricordanza, il quale avendo dipinto sopra un quadro un soldato che
spirava ira e battaglia, e volendolo mostrare al popolo, prima di scoprirlo,
pagò non so quanti trombetti, acciocchè suonassero un'aria da guerra e a questo
modo mettesse un certo che di bellicoso nell'animo di tutti prima che vedessero
la sua pittura; di che avvenne che tutti gli uomini, lasciati i primi pensieri
varj e differenti, concorsero in un solo, e tratti da tale apparecchiamento,
ritrovarono essere bellissima l'imitazione del soldato, e ne la commendarono
altamente. Questo esempio fu a un di presso seguíto da tutt'i buoni poeti,
s'egli si considera la usanza tenuta da loro; i quali con l'artifizio
condussero gl'intelletti a quel pensiero che vollero, e a soggiacere volentieri
a quello ch'erano per dire appresso.
Per non errare, prendasi
per guida in questo ragionamento Omero, al cui nome s'inchinano e si
sberrettano anche oggidì tutti gli altri poeti. Quello che dirò di lui potrà
confarsi molto bene anche a Virgilio, a Dante, al Tasso, e a qualunque altro
ritrovò la via di rendersi immortale. Leggendo que' libri i quali lungamente
trattano dell'arte poetica, trovasi che fanno un gran ragionare intorno al
mirabile, anima del poema epico; dimostrano bensì con quanto giudizio quel
profondo e capacissimo cervello di Omero seppe incatenare le volontà degli Dei
con le azioni degli uomini, sicchè queste sono quasi anella dipendenti dalle
prime. Osservarono la grandezza e la varietà nella pittura delle cose celesti;
ma secondo quello che ne pare a me, l'invenzione da lui trovata d'introdurre la
maraviglia delle deità nel suo poema, fu a quel medesimo fine con cui Terone
fece dare nelle trombe per ridurre le menti di molti uomini ad un solo pensiero
e tutti gli umori ad un solo umore. Per la qual cosa l'introduzione di tali
divinità non credo io che la giudicasse necessaria per rendere grande, nobile e
mirabile il suo poema; ma sì principalmente per arrestare i varj cervelli ad
una cosa sola, ed essere in istato, dopo di averli renduti attenti con la
maraviglia, di farsi volentieri ascoltare in tutto il restante. Ha la religione
tanto di maestà, di grandezza e di forza comune che, sposta con maestà e
grandezza d'immagini e di stile, non può andar vôta di effetto, e chiamerà
sempre gl'intelletti e gli animi a sè de' circostanti, e li apparecchierà
facili e pronti all'udire: senza questo apparecchiamento egli è impossibile, o
almeno quasi impossibile, il farsi ascoltare e il gradire universalmente. Come
si ha egli così in un subito a movere negli uomini quella passione che tu vuoi
imitare? come a stimolarli improvisamente per modo che tutti sentano quello che
tu sentisti dettando? come potresti tu indurli tutti ad udire volentieri un'azione
repentinamente, e renderli tutti ad un tratto di un animo e di una volontà?
Questo potrai tu ben fare quando li avrai prima scossi e quasi atterriti con la
grandezza delle divinità, e tratto lo spirito loro via dalle altre occupazioni,
e vôtatolo, per così dire, di ogni altro pensiero, sicchè rimanga affatto in
tua balía, e tu lo signoreggi allora come a te pare. Quando avrai così fatto,
puoi correre il campo per tuo, gl'intelletti de' circostanti sono tuoi, tutto
quello che dirai loro sarà ascoltato, tutte le bellezze toccheranno e saranno
rilevate; tu gli hai ridotti atti ad udire, gli hai apparecchiati, sono tutti
di un parere, non temer più che non sia in poesia bellezza universale e di
polso sopra tutti gli uomini, piacerà a tutti. Ma per meglio intendere questo
artifizio, seguasi di passo in passo il primo libro della Iliade, e veggasi
come con l'apparecchiamento della religione si traggono gli ascoltanti
all'attenzione pel restante. Incominciasi dal raccontare che un Nume fu quegli
che trasse a questione e discordia Agamennone e Achille. Il sacerdote di Apollo
chiede ad Agamennone la figliuola sua che gli viene negata. Il re dice villania
al sacerdote, il quale prega Apollo; questi si sdegna, l'esaudisce, e per
gastigare la negativa fa entrare la pestilenza nel campo de' Greci. Notisi con
quanta magnificenza descrive la venuta di Apollo: Discende dalla sommità
dell'Olimpo ripieno di collera, con arco e turcasso. Le saette, agitate dal
rapido valore dell'adirato Iddio, gli risuonano sulle spalle, ed egli da una
nuvola ricoperto ne viene somigliante alla notte. Siede lunge dalle navi,
lancia le saette che, fischiando spaventosamente, fendono l'aria. Prima ferisce
i bestiami, poco dopo i Greci, sicchè in ogni luogo si vedeano monti di corpi
morti sui roghi che continuamente ardevano. Una colpa grave, lo sdegno di
un Nume che la punisce, l'effetto della punizione venuta dal cielo per opera di
uno Iddio, arresta incontanente gli animi, e mettiamo animi inzuppati e ripieni
di quella religione. Ne viene di necessità che tutti debbano concorrere alla
curiosità di sapere in qual modo la pestilenza cessasse, qual riparo potessero
ritrovare gli uomini contro un gastigo venuto dal cielo. Come faranno? chi li
salverà? Basta all'autore l'aver fatto nascere questo desiderio in tutti
concorde. È al segno che volea per farsi ascoltare universalmente. Comincia la
sua narrazione. Mette sulla scena Agamennone, Achille, Calcante, i Greci. La
passione della collera nata fra que' due re è ascoltata volentieri; la descrive
grado per grado, la varia quanto sa e può; ma può stancare, perchè gli animi
umani nelle cose che ricreano, che danno diletto, cercano la varietà; convien
dunque ch'egli di nuovo si dia a rinvigorire e ad apparecchiare qualche
squarcio di religione. Scende Minerva a ritenere il braccio di Achille già
parato ad azzuffarsi con Agamennone. Può allora il poeta far ascoltare il
ragionamento dell'eloquentissimo Néstore, e narrare a suo beneplacito la
spedizione della fanciulla al padre. Dopo si ha a dare qualche consolazione ad
Achille e qualche speranza di vendetta. Si apparecchiano a ciò gli animi degli
ascoltanti col far uscire dalle profonde grotte del mare Tétide madre di lui,
che gli promette di andarsene a Giove e di giovargli con le sue preghiere. Intanto
rimane sospesa la curiosità degli uomini, e vogliosa di sapere in qual forma
dovess'essere acquietata l'ira di Apollo: ascolteranno dunque volentieri i
circostanti la narrazione dell'andata di Ulisse con la fanciulla al sacerdote,
de' sagrifizj fatti ad Apollo e di tutte le altre circostanze di quella
invenzione; e rimarranno contenti quando udiranno che il Nume ha fatta già
cessare la pestilenza. Così andando a passo a passo, ritroverà l'accorto
leggitore che la mirabilità introdotta nel poema di Omero è sempre un artifizio
per preparare gli animi ad ascoltare volentieri il restante.
Quello ch'io dico di
Omero, si può vedere esser vero anche di Virgilio e di Dante. Quest'ultimo più
facilmente di tutti gli altri può far comprendere la verità da me detta; imperciocchè
la religione da lui nel suo poema introdotta è quella che vive negli animi
nostri ed ha grandissima forza in essi. Egli con la magnificenza di quella
rende attenti i suoi leggitori, e li chiama a sè per poter poscia farsi
ascoltare. Dello stesso artifizio si valse il Tasso, e gli riuscì. Ma non basta
che di ciò si valessero i poeti epici. Dove lascerò io una gran parte degli
altri generi di poesia? Può ognuno esaminare da sè che cosa fossero le tragedie
de' Greci, che le ode, che gl'inni: e si può ancora vedere oggidì, che di tutte
le tragedie del signor di Voltaire, la Zaira, l'Alzira e il Maometto hanno una
forza a tutte le altre di lui superiore. Da quanto ho dunque detto fino al
presente, credo di poter conchiudere che la religione sia stata sempre il più
gagliardo mezzo usato da' poeti per chiamare gli animi a sè, e ridurli in
istato di attenzione.
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