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Gasparo Gozzi Prose Varie IntraText CT - Lettura del testo |
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LXXX.
Scusa dell'Osservatore al Publico.
Gentilissimo e amorevolissimo Publico, dal cui animo ho riconosciuto che qualche cosa sono stati que' fogli che ho fino al presente dettati, io sono giunto a quel termine in cui debbo dimostrarti la mia riconoscenza. Egli è già passato un anno che co' miei varj pensieri ho procurato d'intrattenerti, e tu, pieno di grandissima cortesia, ti sei appagato di tutto quello che mi dettò il cervello di settimana in settimana; e mi desti, pel corso continuo di dodici mesi, segno della tua magnanima cordialità ed affezione. Per dire qualche cosa della mia gratitudine, chè tutto non potrei certamente, io ti confesso che mi sono provato molte volte, e rimirando la picciolezza delle opere mie, mi sono tanto atterrito, che non ho potuto andare più oltre. Riandando così da me a me i passati miei fogli, ho veduto che spesso non erano di tanta dignità che ti dovessero comparire dinanzi, e tali altri non trattavano l'argomento da me eletto con quella o facondia o chiarezza che avrei voluto. Egli è bene il vero che l'amor proprio, il quale signoreggia, quantunque mascherato, ogni cuore, mi somministrava qualche scusa, e dicevami ora che il breve tempo concedutomi dall'obbligo ch'io preso mi avea di dar fuori due fogli alla settimana, era stato cagione di qualche oscurità e negligenza; ora che il mal umore o la poca mia salute mi aveano avviluppato il cervello; sicchè io perdonava a me medesimo quello che non mi gradiva nelle mie scritture. E peggio mi avvenne ancora, chè talvolta, gonfiato da un ventolino di superbia, diceva: Se gli argomenti miei non sono maneggiati con tutto quell'artifizio che ad essi conviene, io ho però in ognuno di quelli qualche onorato merito per l'invenzione, nella quale una poetica fantasia ha gran parte; e, da' versi in fuori, si può dire che in tutti questi fogli si vegga un'immaginativa traportata e invasata dalla cocentissima fiamma delle Muse, alle quali io ho volentieri fiu da' miei primi anni servito. Io ho inoltre cercato in più luoghi di ravvivare l'amore alle buone Arti, le quali sono di non picciolo utile alla società degli uomini, come quelle che con la soavità loro entrando a poco a poco nelle menti e nel cuore de' giovani, introducono in que' teneri e giovanetti animi un certo garbo e una certa buona grazia di gusto, che, senza avvedersene essi punto, divien costume, e si stende per tutte le loro operazioni in tutta la vita. Ho qua e colà scoperti molti difetti delle genti, tenendo sempre in mano il freno della fantasia, sicchè non trascorresse alla soverchia licenza, sfuggendo a tutto mio potere non solo la malignità, ma anche ogni apparenza di quella. - Tutte queste cose io ho pure eseguite ne' passati fogli, diceva io, e non è però stata picciola impresa e fatica. Ma comechè io ragionassi meco in tal guisa per confortarmi, sentiva nella coscienza mia una cosa che non cessava tuttavia di rodere e dirmi segretamente: Tu la pensi male, tu non di' il vero; guarda bene a quello che mediti. Non sarebbe egli il tuo meglio, proseguiva questa segreta voce, che tu riconoscessi la tua picciola attività, l'insufficienza tua, e che riconoscessi quello che sono i tuoi fogli dalla cortesia del publico? - Quando udii queste ultime parole della coscienza, mi avvidi ch'essa avea grandissima ragione, presi la penna in mano e deliberai di seguire la sua volontà, anzi la giustizia delle sue ammonizioni; ma non sapendo con quali parole manifestare il sentimento mio, mentre ch'io fantasticava accettando e ricusando varj pensieri, mi addormentai e mi apparve dinanzi agli occhi questo
Egli mi parea di essere appunto a quel tempo in cui tutti gli uomini, lieti della loro semplice libertà, vagavano per boscaglie e montagne, e ritraendo il bisogno alla propria vita dalla terra, in comune si godevano un quieto riposo ed un vivere spensierato. Quando, non so come, si apersero le lucidissime porte dell'Olimpo, d'onde mi parve che uscisse una voce che col tuono e il fragore di una procella esclamò: Non è bella quanto io vorrei la faccia della terra; vadasi, e si cambino l'erbe e le piante selvagge e di mal aspetto in domestiche o di bella veduta. - Poichè queste parole furono dalla voce mirabile proferite, io vidi scendere dal cielo un picciolo fanciullo con le ali appiccate agli ómeri e con un arco alla mano, da cui non cessava giammai scoceare infinite saette; le quali qua e colà volando con indicibile impeto ferivano intorno le genti, e parea che avessero ad uccidere ogni uomo. Ma che? ne avveniva tutto il contrario. Più vivace colore tingeva a tutti i feriti le guance, scintillavano gli occhi loro di una più vitale e graziosa luce; e gli uni agli altri correvano incontra, profferendosi tutto l'animo ed ogni loro servigio e attenzione. Nello stesso punto io vidi a dividersi in più parti la terra; e a tutti coloro ch'erano quivi, toccarne una porzione, la quale fu da ogni uomo che l'avea sotto di sè, aperta con vanghe, marre, aratri, erpici; per modo che quel terreno il quale avea un solido aspetto, e qua rialzato dai monti, colà dalle fondure avvallato, prese una faccia uguale da ogni parte, e divenne bellissimo agli occhi dei riguardanti. E poco andò poi, ch'io vidi migliaja di mani moversi da tutt'i lati, gittar sementi, sarchiare, rimondare alberi; di che, come ne' sogni avviene, in poco di ora si vide tutto essere divenuto un giardino ripieno di fiori e di bellissime frutte. Mentre ch'io stava guardando con attenzione quella così nobile maraviglia, si accostò a me il fanciulletto con l'arco suo, e mi parlò in questa forma: Oh dormiglioso, oh pigro! che fai tu in questo comune lavoro ed in questo universale movimento? Credi tu forse di averti a godere le delizie altrui, e l'aspetto di questo ameno terreno senza punto moverti e standoti continuamente con le mani a cintola? Non sei tu forse di quella medesima stirpe di cui sono tutti gli altri uomini? Adunque chè non fai tu ancora quello che vedi qui fare ai compagni tuoi? Non sai tu che la società che qui vedi, è formata di uomini che vivono l'uno per l'altro? E non conosci tu che questa bellissima terra, rimirata sempre dall'onnipossente occhio di Giove, riceve di punto in punto bellezza nuova da' suoi abitatori? - Oh qualunque tu sia, celeste giovanetto, che in tal forma meco adirato ragioni, dimmi tu quello ch'io debba fare per appagar le tue voglie, e mi vedrai pronto ad ogni tuo cenno. - In tal guisa risposi al fanciullo. Quando egli sogghignando con una certa sua malizietta, si pose la corda dell'arco alla guancia; e da quella scoccò una saetta che velocemente volando mi percosse qui nel petto appunto, e penetratami nel cuore, tutto in un momento lo accese; e levatosi in sulle ale, mentre che da me spariva, esclamò ad alta voce: Va, tu non hai di bisogno di altri ammaestramenti, oggimai tu medesimo saprai da te qual dee essere l'opera tua. - Allora io rivolgendo il guardo, che seguito avea il mio feritore per gli altissimi campi del cielo, alle circostanti genti, mi sentii tutto rintenerito, e fui preso da un grandissimo amore di quelle, e diceva fra me: Oh! nobile e veramente grande animo ch'è quello di quanti ho qui intorno, i quali senza punto curarsi di pensiero o sudore, abbelliscono con l'opera loro questo terreno, ed i miei desiderosi occhi riempiono della sua maravigliosa bellezza. Io mi godo pure questi fruttuosi alberi e questi coloriti fiori. Questo è pure quel terreno in cui dopo il corso de' giorni miei in questo mondo ritroveranno le ossa mie ricovero e asilo: adunque che fo io? e che indugio? più, chè non adopero queste picciole mie forze a coltivarne la parte mia insieme con tutti gli altri? - A pena ebbi terminato di ragionare in tal modo, che, vergognandomi di me medesimo, adocchiai in un cantuccio certe poche pertiche di terra che non erano state dirozzate ancora, e quivi andato co' miei ferruzzi, cominciai a razzolare in quel modo ch'io potea, tanto che ne feci solchi, e li ridussi a condizione da poter essere coltivati. Benchè io vedessi che il terreno da me lavorato non avea tanta grazia che potesse fare competenza col restante, io mi vedea concorrere intorno infiniti abitatori del luogo, i quali, dalla cortesia dell'animo loro guidati, venivano per diporto a vedere, e mi davano sempre maggiore spirito all'opera, e taluni, credo per empiermi di coraggio, mi andavano dicendo, ch'io era un buon agricoltore, mi assicuravano che il mio picciolo poderetto dava loro nell'umore e ne speravano buon frutto. In questa guisa sempre più io desiderava di compiacerli, e non passava dì o notte ch'io non pensassi di aggiungere qualche cosa alla mia coltivazione, nè avea altro in animo che le buone parole le quali mi venivano dette, sicchè io mi sarei contentato per gratitudine quasi di spirare sulla faccia loro per vederneli veramente contenti. Nè bastava a molti di quelli che venivano, l'esaltarmi con tante non meritate lodi; ma di tempo in tempo mi avvisavano di quello che io dovessi fare per migliorare la mia possessioncella; e spesso alcuni di sementi di fiori e di piante mi furono liberali. Oh! esclamava io sovente, in qual guisa potrò io mai soddisfare all'obbligo mio? In qual guisa almeno ringraziar con parole tanta cortesia e così grande? Io posso veramente dire che questi nobili animi mi diedero la pioggia ed il sole a tempo con le loro commendazioni, acciocchè cresca la bontà del terreno mio; e potrebb'essere forse che tanta gentilezza m'inanimasse ad intraprendere il lavoro di una quantità di terra maggiore. - Mentre ch'io così diceva, mi risvegliai col cuore di gratitudine ripieno, e sempre più bramoso di non essere inutile in quella società in cui vivo.
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