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Gasparo Gozzi Prose Varie IntraText CT - Lettura del testo |
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XXV.
Ragionamento di Luciano contro un uomo ignorante comperatore di molti libri.
E io ti dico che quanto tu fai ora, è appunto alla tua intenzione contrario. Imperciocchè tu immagini di apparir tu ancora da qualche cosa nelle dottrine, comperando qua e colà con grande ardore tutt'i libri più belli. Ma peggio t'avviene, ch'anche questo tuo comperare conchiude che se' ignorante. In primo luogo tu non comperi i migliori, ma presti fede a chi prosuntuosamente gli loda: sicchè cotesti bugiardi lodatori di libri, quando hanno trovato te, fanno sagrifizio a Mercurio2, e si può dire che tu se' un tesoro aperto a' sensali o ruffiani di libri. Oh! a qual altro segno potresti tu mai distinguere da te stesso gli antichi e di molto pregio, da' dozzinali e da nulla, fuorchè al vedergli rosi e pertugiati; e non chiamassi ad ajutarti in sì fatto esame per giudici e consiglieri tignuole e tarli? Qual giudizio potrebbe mai formare da sè quel tuo capo, e in qual forma, se sono squisitamente corretti, e per eccellenza e fedelmente copiati? Ma via, io ti concedo che tu possa dar giudizio di quanto Callino con molta bellezza di carattere3, o di quanto quel famoso Attico scrisse con infinita diligenza; qual vantaggio avrai tu, o grand'uomo, dal possedere le cose scritte da loro, dappoichè tu non sai punto qual sia la bellezza di quelle; nè farai d'esse mai uso maggiore di quello che si possa godere un cieco la venustà e la grazia delle amate fattezze? Egli è vero che con gli occhi spalancati tu ti stai guardando que' libri e te gli bei; e alcuni ne leggi a furia trascorrendo con l'occhio che va più ratto della bocca. Ma anche questo non è abbastanza; perchè egli s'ha a comprendere di tutte le scritture vizj e bontà, e intendere di che tratta ognuno, e con qual ordine di parole; quello che dirittamente è scritto, o con poco fondamento, o poco lealmente, o falsato. Che di' tu dunque? Che queste cose le sai, benchè tu non l'abbia mai imparate! Donde l'hai tu imparate? O hai tu peravventura, come quel pastore4, avuto dalle Muse il ramo dell'alloro? Io non credo che tu abbia udito mai a ricordare Elicona, dove si dice che coteste Dee abbiano la loro abitazione, nè che tu nell'età fanciullesca sia quivi dimorato mai. Anzi a te non è lecito pure il ricordarti delle Muse. Imperocchè esse non ebbero punto a sdegno di comparire innanzi ad un pastore zoticone, setoluto e tinto e incotto la pelle dal sole. Ma ad un uomo, qual se' tu (io te lo giuro per quella Venere che Libanitide è chiamata, concedimi per al presente ch'io non dica ogni cosa con eloquente amplificazione), io so bene che le non si degnano di venirti appresso, non ch'altro; e in iscambio dell'alloro, le ti flagelleranno con verghette di mirto5 o foglie di malva, perchè tu non sozzassi loro Olmeo6 o Ippocrene, fonti alle assetate greggie tuttavia e alle purissime bocche de' pastori opportuni e patenti. Ma per quanto tu sia prosontuoso e abbia la faccia invetriata, non avrai però animo di dir mai che tu fossi nelle dottrine ammaestrato, nè che avessi più stretta pratica co' libri di quella che tu hai, nè questi fu il mio maestro, o quegli mio condiscepolo. Ma tu speri di compensare tutti questi difetti col solo comperare molti libri. Abbiti pure fino a qui raccolti tutti quei libri di Demostene, che l'oratore scrisse di sua mano, e quei di Tucidide, dei quali otto belle copie fatte dallo stesso Demostene vennero trovate. Se tu avessi tutti quelli che da Atene mandò Silla in Italia, n'acquisteresti tu mai un granello di dottrina di più? Stendigli a foggia di letto, e dórmivi sopra; appiccategli con la colla in sul corpo, e portagli teco intorno a foggia di vestito, sarà quel medesimo. Fornisci una scimmia di dondoli d'oro (dice il proverbio), la ti riuscirà scimmia sempre. Egli è vero che tu hai un libro in mano, e leggi continuamente; ma di quel che leggi non intendi fiato; e come asino ascolti la cetera, movi gli orecchi, e non altro. Se il possedimento de' libri rendesse dotto il padrone, non vi sarebbe oro che pagasse possedimento tale; e sarebbe solo di voi ricchi, potendosi come l'altre mercanzie avere al mercato, e superare noi poverelli. Poi chi potrebbe contrastare di dottrina co' mercatanti e librai, che hanno tanti libri, e tanti ne vendono? E tuttavia, s'esamini la faccenda, tu vedrai che non sono molto più dotti di te; ma hanno una barbara lingua come la tua, e quanto al sapere, nulla intendono: come s'ha a credere che sia di tutti coloro che non badano punto al bene o al male che ne' libri si trova. Oltre a ciò tu n'hai alcuni pochi comperati da loro; ed essi dì e notte squadernan libri. Adunque per qual pro e utile comperi tu, se non pensassi peravventura che sieno dotte le casse de' libri, come quelle che tengono chiuse le scritture di tanti nobili antichi intelletti? Io ti prego, rispondimi; o piuttosto, secondo che verrai da me interrogato, accenna col capo sì, o no, poichè non sapresti dir altro. S'egli ci fosse uno che non sapesse dar fiato alla cornamusa, e comperasse gli strumenti di Timoteo o d'Ismenia, il quale gli pagò sette talenti in Corinto, credi tu che avendoli gli sapesse suonare? O credi tu che, non avendo l'arte di valersene, gli giovasse nulla il possedergli? Tu accenni che no, e hai ragione. E se uno avesse gli strumenti di Marsia o d'Olimpo, quando non ha imparato a suonare, non suonerà. E se uno avesse l'arco e le saette d'Ercole, quando egli non fosse Filottete, che potesse quello stendere, e queste dirizzare al bersaglio, che ti pare? farebb'egli impresa degna di buon saettatore? Ecco, tu accenni che no tuttavia. Per la stessa ragione poni due, l'uno che non sappia reggere navi; e l'altro che non sappia che sia cavallerizza; se il primo si prenderà una ben corredata nave, e lavorata squisitamente tanto pel decoro, quanto per la solidità; e l'altro comperi un cavallo tessalo della generazione de' Centauri, e segnato col marchio della più egregia razza del mondo; nè l'uno nè l'altro ne sapranno fare uso, e ne saranno gabbati. Vedi tu che tu accenni che sì? Or bene, credimi dunque, e accenna di sì anche di quello ch'io dirò. Quando un tuo pari ignorante compera molti libri, che fa egli altro fuorchè mettere altrui in bocca punture, e pubblicare bottoni contro a sè, e contro alla materialità e mellonaggine sua? Sei tu ora forse fra il sì e il no d'affermare? Questo argomento è chiaro come il sole, e chi ha buon occhio vede subito che tanto hanno a far teco i libri, quanto la luna co' granchi. Non è gran tempo passato, che fu già in Asia un uomo ricco, a cui per una certa calamità vennero tagliati tuttadue i piedi: forse, cred'io, perché viaggiando sulla neve, gli si guastarono e incancherirono. Basta, che avvenutogli questo tristo caso, il pover uomo, per confortarsi come potea in tanta calamità, fecesi fare i piedi di legno, e legatigli alla gamba, s'appoggiava a' servi suoi e andava. Ma la cosa da ridere si era, ch'egli comperava sempre bellissime scarpette, fatte alla foggia più moderna, e metteva in quelle ogni studio e pensiero; e oltre a ciò con attillate calzette volea sempre vedersi ornati que' due pezzi di legno, cioè i piedi suoi. Ora, dimmi non fai tu forse lo stesso? Tu hai un intelletto zoppo e di ceppo, e tuttavia acquisti e comperi stivaletti d'oro, ne' quali appena potrebbono andare avanti i più sani e più diritti piedi del mondo. Ma giacchè tu hai fra gli altri libri compero Omero più volte, fa che uno apra e ti legga il secondo libro dell'Iliade; del restante non ti curare, chè non vi ha cosa per te. Vi ha quivi l'imitazione di un certo omicciatto, in ogni sua cosa degno di riso col corpo bistorto e debole, che fa una diceria in pubblico. Se dunque cotesto Tersite (che così ha nome) si mettesse indosso le armi di Achille, credi tu che perciò egli divenisse in un subito bello e vigoroso, e che del varcato fiume con un salto imbrattasse le acque di sangue trojano? Ammazzasse Ettore, e prima di lui Licaone e Asteropeo con l'asta di frassino di Achille, un uomo da beffe che potrebbe portarla sulle spalle a stento? Io so che tu dirai no, e che anzi moverebbe a riso, zoppicando sotto lo scudo, sdrucciolando col muso innanzi pel peso; e (se egli volesse guardare fuori per l'elmo) strabuzzando due occhiacci loschi, sollevando colle spalle gobbe lo schiniere, e strascicandosi dietro gli stivali: cose che farebbero vergogna al padrone delle armi, e al fabbro che le fece. Non vedi tu che lo stesso avviene a te quando tieni in mano un libro bellissimo, ornato di porpora e dorato, e lo leggi in modo che quella tua barbara pronunzia tutto lo disfigura e sconvolge; ridendosi del fatto tuo i dotti, o lodandoti la brigata de' tuoi adulatori, i quali guardansi in viso e spesso ridono anch'essi? Io ti voglio anche narrare un altro caso avvenuto nei giuochi Pitj. Fu una volta un certo Tarentino, chiamato Buonannunzio, uomo a casa sua non volgare, a cui venne in cuore di aver la vittoria in essi giuochi; e veduto che quel lottare ignudo non era cosa da lui, per natura nè robusto nè lesto, si credette di poter vincere facilmente i concorrenti nel suono della cetera e nel canto; lasciatosi a ciò persuadere da certi maladetti uomini suoi domestici, i quali nel lodavano, e gridavano ad alta voce per maraviglia quando egli appena avea messo le dita sulle corde. Per la qual cosa se ne andò a Delfo con magnificenza e sontuosità in tutto. E principalmente si avea fatta fare una veste tessuta di oro e una bellissima ghirlanda di lauro d'oro; e in iscambio delle bacche dell'alloro, vi avea incastrati smeraldi grandi come le bacche. Pensi poi che la cetera era il più mirabile lavoro che mai si vedesse per valsente e bellezza, tutto di oro massiccio, ornata di preziose pietre e intagli, e vi erano fra le altre cose scolpiti le Muse, Apollo e Orfeo: in somma un miracoloso spettacolo ad ogni uomo che veduta l'avesse. Venne finalmente il giorno del contrastamento: tre furono i concorrenti, e toccò a Buonannunzio di uscir a cantare il secondo, dopo un certo Tespi, che non avea però fatto male la parte sua. Eccoti ch'egli entra tutto luce di oro, smeraldi, berilli, giacinti. Si vedea un bello scarlatto con molta nobiltà anche esso fra l'oro risplendere. In sul primo apparire percosse con tanta vistosità il teatro, e tutti gli spettatori erano pieni di una mirabile aspettativa; ma egli si avea finalmente pur a cantare e a suonare la cetera: onde incomincia a strimpellare un certo che di sgarbato e sconcio, e a picchiare in sulla cetera con maggior furia del bisogno, tanto che spezzò tre corde ad un tratto; e volendo cantare, gargagliò una cosa tanto discosta dalla musica e sì materialaccia, che scoppiò fra gli spettatori una risata universale; e coloro i quali presiedevano alla festa, tenendosi beffati da tale sfaciataggine, l'ebbero sì a sdegno, che ne lo cacciarono fuori del teatro colle sferzate. Oh! ti so dir io che allora si fecero le risa grasse a vedere Buonannunzio tutto di oro che piangea come un fanciullo, tratto per la scena da' frustatori con le gambe sanguinenti per le percosse, cogliere dal terreno le figurine lavorate della cetera che gli erano, nel tempo che veniva frustato, insieme con essa cetera in terra cadute. Di là a poco eccoti venire innanzi un certo Eumele eliese, ed avea una cetera molto bene antica coi bischeri di legno, e con una veste indosso e una ghirlanda del valsente l'una e l'altra di dieci dramme. E tuttavia costui cantò così bene, e con tale arte toccò la cetera sua, che vinse la pugna; furono le sue lodi preconizzate dal trombetta, e si fece beffe di Buonannunzio, che si teneva da tanto con quella sua cetera e con quelle sue figure; e narrasi che gli dicesse: "Buonannunzio; perchè tu se' ricco, ne venisti inghirlandato con la corona di lauro d'oro; e io che sono poverello, di apollinee foglie. In fine abbiti della solennità del tuo apprestamento quel solo frutto che ne potevi avere, cioè di andarne via di qua superato, nè compassionato da alcuno, ma odiato da tutti per cotanto tuo vôto di arte e soverchio sfoggio." - Principalmente ha che far teco cotesto Buonannunzio in ciò, che non curi punto il ridere degli spettatori. Ecci anche una favoletta di Lisbia, che non sarà fuori di tempo il raccontartela. Dicesi che avendo le femmine della Tracia lacerato Orfeo, il capo di lui, con la lira nell'Ebro caduto, venne al mar Nero portato; e nuotando capo e lira insieme, quello cantava, secondo che dicono, lamentazioni sopra il morto Orfeo, e la lira, scuotendole i venti le corde, l'accompagnava suonando; onde approdò con questa canzone a Lesbo. Quivi i popoli raccolsero il capo, e lo seppellirono colà dov'è il tempio di Bacco, e la lira dedicarono al tempio di Apollo, in cui venne lungo tempo serbata. Avvenne, dopo un certo spazio di tempo, che avendo Neanto figliuol di Pittaco tiranno udito che cotesta lira avea tratto a sè animali, alberi e pietre, e che niun uomo dopo la morte di Orfeo l'avea suonata più mai, gli venne lo struggimento al cuore di volerla acquistare; onde corruppe con la forza de' danari il sacerdote di Bacco, e lo indusse a metterne quivi un'altra somigliante, e a dar la lira di Orfeo a lui. Dappoichè l'ebbe ricevuta, non parendogli cosa molto sicura l'adoperarla in città di giorno, la si celò in seno fra le vesti, e se ne andò soletto in un sobborgo, dove, trattala fuori, incominciò a toccare, anzi a malmenare le corde, sperando il giovinastro senz'arte e sapere di musica, che la lira mandasse fuori un divino suono da allettar tutti, e di esser egli l'erede della musica di Orfeo; e tanto suonò il meschino, che tratti al suono molti cagnacci insieme, lo fecero a pezzi. Sicchè altro non ebbe di somigliante ad Orfeo, se non che contro di sè convocò que' mastini. Di qua chiaramente si vide che non la lira allettava, ma l'arte ed il canto conceduti in superlativo grado solamente ad Orfeo dalla Musa sua madre; e che la lira di lui non era miglior masserizia di tutte l'altre chitarre. Ma che ti narro io d'Orfeo e di Neanto, se a' nostri tempi fu ed è forse ancora chi comperò per tremila dramme la lucernetta di terra d'Epitteto? Sperando, cred'io, che col leggere di notte illuminato da quella, gli dovesse di subito venire in capo tra le notturne tenebre la sapienza d'Epitteto, e di dover essere a quel maraviglioso vecchio somigliante. E jeri, o jer l'altro, non so quale uomo, anch'egli sborsò un talento per comperare quel bastone che Proteo cinico ripose quando entrò nel fuoco; e tiensi quella gioja, e ne fa pompa e mostra, quale i Tegeti delle spoglie del calidonio cinghiale, i Tebani dell'ossa di Gerione, e que' di Menfi de' ricciolini d'Iside. Ma il gran posseditore di sì nobile maraviglia è ancora più sciocco e sozzo di te, che pure se' infelicissimo, e avresti di bisogno di quel bastone sul capo. Narrasi ancora che Dionisio tiranno dettò una tragedia sì trista e da beffe, che non potendo Filossene ritenersi dal ridere, ne fu più volte condannato alle cave de' sassi. Per la qual cosa, vedendo egli che pur si rideva del fatto suo, comperò con gran diligenza le tavolelle da scrivere d'Eschilo, stimando che quelle di subito gli mettessero lo spirito poetico nel corpo. Ma se mai scrisse cose degne di riso, in esse tavolelle le scrisse, come quand'egli cantò di Doride:
Di Dionisio è venuta la moglie;
o l'altro verso;
Ahi! qual moglie perdei cortese e comoda!
che questo anche uscì di quelle tavolelle, e quest'altro:
Gli uomini pazzi sè medesmi ingannano.
Benchè questo si può dire che quadri a te, e che Dionisio lo dicesse per te; ed è un verso per cui si doveano quelle tavolelle dorare. Quale speranza hai tu mai posta ne' libri, che gli squaderni sempre, o gl'incolli, o gli tondi, o con zafferano e cedro gli tingi, o di pelle gli copri, o di cartepecore, come se n'avessi a trar frutto? Se' tu però fatto migliore da tanto comperare; o puoi tu dire ancora: I libri insegnano sì e sì? Tu se' più mutolo d'un pesce. Tale è la vita tua, che sarebbe una disonestà a dirla; e per le tue laidezze se' venuto a schifo a tutti, come un cane rognoso. Se i libri rendessero tali gli uomini, sarebbe da fuggir da quelli, come dal fuoco. Due sono le cose che può l'uomo apprendere da quegli antichi ingegni: ciò sono, dire e fare quel che si dee, con l'imitazione de' migliori e col fuggire i peggiori. Se nè l'una utilità nè l'altra quindi trae l'uomo, che fa «egli altro, fuorchè apparecchiare co' libri suoi esercizio a' topi, casa alle tignuole, o bastonate a' servì per la poca diligenza nel serbargli? Dirai tu forse che non sia gran vergogna, quand'uno ti trova col libro in mano, poiché sempre n'hai pure alcuno, e ch'egli ti domanda: qual oratore, poeta o storico è questi? tu che pure lo sai pel frontespizio, gli rispondi francamente; ma se, come s'usa, il ragionamento va in lungo, e quegli comincia a lodare o a biasimare qualche squarcio della scrittura, tu non sai più ove t'abbia il cervello, nè proferire parola: or non vorresti tu allora che la terra ti s'aprisse sotto, vedendoti tu con un libro in mano a quel modo, e portarlo intorno come Bellerofonte le lettere? Vedendo Demetrio cinico un certo ignorante in Corinto che leggeva un bellissimo libro, cred'io le Baccanti di Euripide, e trovatolo a quel passo in cui il messo narra l'accidente di Penteo e l'opera di Agave, gli brancò il libro e squarciollo, dicendo: Meglio è che Penteo sia da me lacerato una volta, che tante da te. E certo che per quanto io abbia meditato, non ho ancora potuto ritrovare perchè tu metta tal cura e studio nel comperar libri. Chi sa qual tu se', non può dire che tu ne possa trarre miglior utile, o altro uso farne, che un calvo del comperar pettine, un cieco dello specchio, un sordo di un piffero, un eunuco di femmina, un uomo nato fra terra di remo, o il nocchiere dell'aratro. Oh! ha questo comperar libri una certa ostentazione di ricchezza. E vuoi far vedere ad ogni uomo, che di una grande opulenza spendi qualcosa anche in quello che veruna utilità non ti arreca? Ma per quanto io medesimo ne potei sapere, che pure son Siro, se tu non ti fossi fatto scrivere con frode nel testamento di un certo buon vecchio, saresti fino a qui morto di fame, e avresti messi all'incanto i tuoi libri. Rimane ora a dire che cotesti tuoi cagnotti e adulatori non solo ti dieno ad intendere che tu sia bello e degno di amore, ma, più che niun altro mai fosse, storico ed oratore; onde tu comperi i libri per ratificare le lodi che ti danno. Imperocchè egli si dice che tu reciti ne' conviti dinanzi a quelli, ed essi assetati a guisa di terrestri ranocchi ti gracidono intorno, nè possono bere se prima non sono quasi scoppiati fra le maraviglie e le esclamazioni. Ben se' tu uomo acconcio e facile, dappoichè ti lasci, come un bufolo, menar pel naso e credi quanto ti dicono; per modo che ti diedero fino ad intendere un giorno che tu avevi il viso somigliante ad un certo re, qual fu già quel fittizio Alessandro, e quel follone falso Filippo, e quel simulato Nerone al tempo de' nostri maggiori; o se altro vi fu che di bugia il suo nome contaminasse. Ma qual maraviglia che questo a te, uomo idiota e materiale, accadesse, se col capo alto camminasti, imitando andare, modi e aspetto di colui al quale sì ti compiacevi di somigliare; quando ci narrano che anche a Pirro, per altro grand'uomo e nobile, si fu dagli adulatori guasto il cervello nel fatto della somiglianza, che gli parea di somigliare ad Alessandro, e vi era più da lunge che il gennajo dalle rose? Io vidi già l'immagine di Pirro, e tuttavia egli credeva che in sè fosse espressa la figura di Alessandro. Ma fino a qui troppo grave ingiuria ho fatta a Pirro, avendolo a te in questa cosa paragonato; e con tutto ciò quello che ne vien dietro, ha ancora grandemente che far teco. Imperciocchè essendosi Pirro posto in capo questo capriccio e credendolo, non vi era alcuno che non fosse del suo parere, e con esso lui non infermasse di tal malattia, sino a tanto che una vecchierella forestiera di Larissa, dicendogli la verità, gli trasse questo grillo dal capo. Dappoichè avendole Pirro fatto vedere l'immagine di Filippo, di Perdicca, di Alessandro, di Cassandro e di altri re, le domandò a cui di quelli foss'egli somigliante, accertandosi ch'ella ne sarebbe caduta in Alessandro. Ma ella, stata alquanto sopra di sè, gli disse, a Batrachione cuoco: essendovi a quel tempo in Larissa un cert'uomo chiamato Batrachione cuoco, a Pirro somigliante. A qual giovanaccio o zanzero tu somigli, io nol ti dirò; ma questo so io, che pazzo da catene se' tenuto da tutti, a voler somigliare a cui non somigli. Ed è veramente una maravigliosa pazzia che tu, pessimo pittore di te stesso, voglia parere somigliante a' letterati, e prestar fede a coloro che con tal nome ti chiamano. Ma che sto io scherzando con simili bagattelluzze? Tardi me ne sono avveduto sì; ma nota è la cagione che ti fa volgere con tanta furia il pensiero a' libri. Questa è la tua bella e sapiente invenzione, secondo il tuo parere, e vi fondi sopra altissime speranze; e ciò è che questa tua pratica co' libri venga agli orecchi dell'imperadore, il quale fa grandissimo conto della dottrina. Tu speri in breve tempo di avere ogni grazia da lui, s'egli saprà mai che tu comperi o paghi nolo di molti libri. Ma pensi tu, o sfrontato, ch'egli sia cotanto alloppiato, ch'egli oda solamente a dire la cosa de' libri, e poi non sappia qual sia la tua vita di giorno e di notte, e quanto tracanni, e t'empi il ventre, e con quali uomini e di quale età frasche tu faccia conversazione? Non sai tu che i re hanno molti occhi e orecchi? E sì patenti sono i fatti tuoi, che gli sanno ormai ciechi e sordi. Non sì tosto hai articolata parola, o ti se' nel bagno spogliato, o non ti se' spogliato; se vi entrasti, o se vi entrarono i servi tuoi; che credi tu che sì fatti segreti notturni non si sappiano incontanente? Vienne, e dimmi anche questo, se quel vostro Basso sofista, o quel Batalo suonator di pifferi, o Emiteone, bellimbusto di Sibari, i quali vi dettarono que' vostri nobili statuti del frascheggiare con gran grazia, dell'andare puliti come mosche senza avere un pel torto, profumati e leggiadri; se, dico, alcuno di cotesti vostri maestri di vita gentile si vestisse con la pelle del lione, e ne andasse con una mazza in mano, che credi tu ch'egli paresse agli spettatori? Diremo noi ch'egli fosse mai Ercole? No, s'egli anche avesse a fare con ciechi. Mille cose farebbero testimonianza contro al vestito di Ercole, i misurati passini, la guardatura, la vocina, il soave girar del capo, la biacca, il mastice e il liscio, co' quali vi ornate tanto che, come dice il proverbio, egli è cosa più facile il celare sotto ad un braccio cinque elefanti, che un solo vostro pari. E se la pelle del lione non basta a coprire uno di costoro, speri tu che un libro ti copra? No, non può, e ti scopriranno gli altri indizj della tua vita. La somma si è, ch'egli mi pare che non da' librai, ma dalla propria sua cotidiana vita e da sè dee ogni uomo prendere le sue speranze. E tu ti dai ad intendere che Attico e Callino librai siano tuoi avvocati e testimonj di tutto? No, ma tuoi testimonj e avvocati saranno certi uomini crudeli i quali, quando vorrà il cielo, ti schiacceranno il capo come al tordo, e ti condurranno ad una estrema povertà; che ben dovevi tu, rientrato una volta in cervello, vendere a qualche dotto uomo i libri tuoi e quella tua nuovamente edificata casa, e restituire almeno una parte di quanto è dovuto a' mezzani degli amorazzi tuoi. Imperciocchè due furono sempre i tuoi principali studi e pensieri; l'uno il comperare libri di grandissimo prezzo, e l'altro certe mercatanzie delle quali meglio è tacere che ragionare. Sérbati, fa a mio modo, sérbati i danari a queste ultime, e statti in casa celato e sicuro. Io ti direi nol fare, se credessi di poterti far cambiare costume; ma cane che ha cominciato a rodere il cuojo non lascia più il vizio. Egli ti riuscirà cosa più facile il non comperare libri. Abbastanza se' tu dotto, e sapiente abbastanza; e tutte le cose antiche hai poco meno che sulla punta della lingua. Tu sai tutta la storia, tutti gli artifizj del parlare, l'eleganze, i difetti e gli usi degli Attici nomi. In tanta moltitudine di libri eccoti già divenuto un certo gran che di sapiente e di sommamente erudito. Io voglio pure anch'io passare il tempo in questa minchionatura, dappoichè ti è sì caro che altri ti mostri vesciche per lanterne. Domando io a te: O tu che hai tanti libri, qual di essi leggi più volontieri? Platone, Antistene, Antiloco, o Ipponate? O non fai conto di questi, e tieni piuttosto in mano le opere degli oratori? Di' su. Leggi tu l'orazione di Eschine contro a Timarco? O sai tu già tutte le cose oratorie, e tutti gli oratori conosci? Leggesti tu Aristofane ed Eupoli, leggesti tu la commedia tutta intitolata i Bapti? E non ti sentisti tu a pungere la coscienza per le cose che in essa sono, nè ti vergognasti punto nel vederti in essa dipinto? Maravigliasi e impazza ognuno a pensare con quale intenzione tu tocchi i libri. Con quali mani gli squaderni tu? Quando gli leggi? Di giorno? Nessuno ti ha veduto ancora. - Di notte? Tu hai a far altro. E forse non fai anche altro prima della notte? Che non lasci tu stare i libri una volta, e non badi tu solamente agli altri tuoi fatti? Bench'io ti avrei consigliato a lasciar andare questi ancora, e rispettare quella Fedra di Euripide, la quale per isdegno contro alle femmine dice:
De' segreti del letto consapevoli; Se mai di quelle accusatrice uscisse.
Ma se tu hai pure stabilito di non uscire di tal malattia, va compera libri, e tiengli in casa serrati, godendoti la gloria di tal possedimento. Bastiti questo. Non gli toccare, non leggere, non sottommettere a cotesta tua linguaccia orazioni e poemi di antichi uomini che non ti hanno fatto un male al mondo. Io so bene che fino a qui ho cianciato invano, e, come dice il proverbio, ho lavato il capo all'asino. Tu proseguirai a comperare, a non farne mai uso, e ad essere beffato da' dotti, i quali traggono utilità non dalla bellezza de' libri, nè dal gran valsente di quelli, ma dal parlare e dalla sostanza degli autori. Ma tu credi pure di poter coprire la tua ignoranza e salvarti, e dare ad intendere quello che tu vuoi a' dotti con quella tua gran moltitudine di libri, fondandoti in ciò, che quello che tu ignorantissimo fai, lo fanno anche certi ignorantissimi cerusici, i quali si apprestano cassettine di avorio da mettervi le medicine, e si fanno le ventose di argento e tutt'i ferruzzi dorati; e quando gli hanno ad adoperare, non sanno mettervi mano. E intanto viene uno co' ferri suoi taglientissimi, non ricchi, nè cari, e libera del dolore l'infermo. Ma per fare una comparazione più da ridere del fatto tuo, poni un tratto mente a' barbieri, e vedi che i più periti in quell'arte hanno rasoi, forbici e specchio di prezzo mezzano; laddove quelli che non la sanno, ti fanno una solenne mostra di grandissimi specchi e di gran numero di puliti rasoi; e tuttavia è noto a ciascheduno che nulla sanno. E accade appunto loro cosa più ancora da ridere, che gli uomini i quali si hanno a far tondere, vanno a' vicini, e poi ne vengono a' loro specchi ad acconciarsi i capelli. Sicchè tu puoi, a chi ti prega, dare libri in prestanza, non farne uso tu stesso. Benchè tu non prestasti mai un libro ad alcuno; ma fai come il cane dell'ortolano, che guarda le cipolle e non ne mangia egli nè lascia mangiarne altri. Per ora io ti parlo liberamente solo de' libri; le altre tue scelleraggini e sozzure le sentirai da qui in poi a ricordare di tempo in tempo.
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2 Protettore de' ladri. 3 Anticamente, sa ognuno, non erano altri libri che copiati. 4 Esiodo. 5 Pianta dedicata a Venere. Lo sferza l'autore come lascivo. 6 È l'Olmeo congiunto da Esiodo all'Ippocrene e al Permesso. |
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