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Gasparo Gozzi Prose Varie IntraText CT - Lettura del testo |
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Il viaggio del Piacere e della Saviezza.
….........Alterius sic Altera poscit opem res, et conjurat amice.
Così una cosa chiede l'ajuto di un'altra, e fanno amichevole concordia.
Non potea il Piacere, secondo il costume suo, che di ogni cosa si annoja, starsi più saldo in un paese della Grecia, dond'era Saviezza partita. E comech'egli fosse stato cagione ch'essa di là era uscita per disperazione, e per lo gran romore che faceasi giorno e notte di danze, conviti, lungo bere, serenate e altri pazzeggiamenti: pure trovandosi in fine senza di lei, la quale di tempo in tempo moderando col suo grave aspetto e con le maestose parole la licenza altrui, era una dolcissima salsa che facea trovare più saporite le allegrezze e i diletti; posesi il Piacere in cuore di andare in traccia di lei ad ogni modo. Apparecchiossi dunque al cammino, e seguendo il suo capriccio, si pose intorno al capo una ghirlanda di fiori; presesi diversi strumenti di suonare, e varie altre coselline da intrattenersi per non sentire la noja della via, e si diede a camminare. Da ogni lato gli correvano incontro giovani, fanciulle, uomini, donne, e ogni generazione di gente volea vederlo, e da tutte le città e castella si faceva una concorrenza grande, con trombe, tamburi, mascherate di ninfe, di deità boscherecce e di altro; e in tutti i luoghi veniva accolto con magnificenze che parean nozze. Avvenne un dì, che passando per un villaggio, in cui abitavano certi pastori molto bene agiati e provveduti di quanto abbisogna all'umana vita, si abbattè a quella Saviezza, della quale egli andava in traccia; di che salutatala cordialmente, e fattole non so quali brevi scuse, le fece comprendere la necessità grande che aveano dell'esser insieme per vantaggio comune degli uomini. Ella, che intendea le ragioni ed il vero, di nuovo si rappattumò con lui, e fatta la pace, lasciò le capanne e i pastori, e in compagnia del Piacere si pose in cammino. Così dunque andando insieme, e parte ragionando la Saviezza, e parte confortandolo il Piacere co' suoi dilettevoli scherzi, giunsero in sul far della sera ad un castello abitato da un signore, il quale, dimenticatosi di ogni altra cosa, spendeva ogni suo avere in lunghissime cene, in feste e giuochi di ogni qualità; e appunto in quell'ora era tutta la sala del suo palagio con bellissimo ordine illuminata; e uscivano della cucina i più soavi odori di salse che mai fossero stati fiutati al mondo. Presentossi al padrone il Piacere, il quale, come cosa venuta allora dal cielo, fu lietamente accolto e teneramente abbracciato. Ma quand'egli significò al padrone del castello che avea la Saviezza in sua compagnia, non vi fu modo veruno che questi le volesse fare accoglienza; sicché per quella notte, s'ella volle avere alloggiamento, le convenne andare ad una casipola di un sacerdote di Esculapio, dov'ella a pena ebbe di che cenare, e un letticciuolo che parea un canile. La mattina i due compagni furono insieme di nuovo, e la Saviezza raccontò al Piacere la mala notte che avea passata, ed egli a lei le feste che si erano fatte nel castello; tanto che l'uno e l'altra, per due cagioni diverse avendo poco dormito, andavano sbadigliando e sonniferando per la strada. Venuta la sera, giunsero ad una terra governata da un filosofastro, il quale volea che tutte le sue genti stessero in continui studi di filosofia, nè si partissero mai d'in sulle carte, e che a guisa di organetti facessero ogni cosa, non secondo il loro pensiero e la volontà, ma secondo quella setta, io non so se stoica o altro, di cui era egli maestro. Costui poco mancò che non flagellasse il Piacere: tanto gli fece dispetto il vederlo; e accolta la compagna di lui con quella gentilezza che potè così rigido uomo, volle che l'altro uscisse incontanente di buja notte fuori della terra sua; il quale non sapendo in che luogo trovare ricovero, si pose per quella sera in un prato di fiori sotto ad un albero; attendendo la mattina, e sperando meglio per suo conforto. A pena era spuntato il sole, che la Saviezza medesima, stanca de' magri ragionamenti e delle astratte fantasie udite tutta la notte, venne fuori della terra, e si ricreò alla vista dell'amico, e a raccontargli quanto l'era accaduto. Egli all'incontro le fece a sapere che senza di lei appena avea potuto confortarsi della sua solitudine; onde l'uno e l'altra si giurarono di non mai più dipartirsi, e camminare fino a tanto che avessero ritrovate persone che gli accogliessino insieme. Così dunque camminando in ottima concordia molti dì e parecchie notti, e trovando chi or l'una, or l'altro volea, non acconsentirono mai di abbandonarsi, e mantennero quella fedeltà che si aveano giurata. Finalmente volle fortuna che trovassero quello che andavano cercando, e che aveano sì lungo tempo desiderato. Imperciocché giunsero in sul far della sera ad una città, i cui popoli erano guidati dalla più saggia reina che mai vivesse. Le sue santissime leggi teneano tutte le cose in una giusta bilancia, sicché il paese suo fioriva di ogni bene e bellezza. Presentaronsi alla beata reina i due viaggiatori compagni, ed ella volle udir l'uno e l'altro a parlare, imperocchè dalle parole si scopre la condizione dell'animo; e udita la diceria tutta festevole del Piacere, e l'altra saggia e accostumata della Saviezza, accolse l'uno e l'altra nel suo pacifico reame; assegnando loro certi templi, nei quali la Saviezza dovesse gli animi degli abitatori temperare, e il Piacere riconfortargli da' pensieri e dalle fatiche, ordinando la faccenda per modo, che fra le parole e i fatti dell'uno e dell'altra le persone acquistassero una certa uguaglianza di spirito e una certa tranquillità che non possono derivare nè dal solo Piacere, nè dalla sola Saviezza.
La novella scritta qui sopra mi fa entrare in una considerazione. Egli è vero che ognuno può farla da sè; ma dappoichè ho la penna in mano, essa vuol correre, e io che sto osservando le cose altrui, osservo questo per ora di me medesimo, che uno il quale scrive, alle volte a fatica può cominciare, e alle volte a stento finisce. - Torniamo all'argomento. Tutta la diceria fatta di sopra mi fa venire in mente diversi generi di persone di vario umore, le quali la vogliono a modo loro, e tutte credono di aver ragione. Ci sono alcuni i quali entrano sino al ciuffetto ne' diletti. Cominciano oggi da uno che appena assaggiato perde il sapore, domani si tuffano in un altro, e anche quello svanisce; e così fanno di giorno in giorno senza pensare ad altro. Alla fine dicono: Oh che noja! vedi magri diletti che dà il mondo! - -E in ogni luogo trovano il fastidio, la molestia e il dispetto. Questo mondo è come una mensa. Ogni dì s'ha a mangiare. Ci sono certe vivande usuali che si mangiano ogni dì; e perchè l'appetito non se ne stanchi, furono ritrovate le salse che pungono e ravvivano il palato, acciocchè ritorni di buona voglia alle carni consuete. I continui saporetti introducono torpore in esso, sicchè per farlo assaporare, bisognerebbe rinforzare le salse; e non basterebbero in fine i carboni accesi a destarlo. Le nostre carni consuete sono le faccende, i pensieri, e per lo più le calamità: perchè l'animo possa bastare a sofferire, l'onesto piacere è una manna. All'incontro certi Catoni vorrebbero che non si uscisse mai del malinconico e del grave, come se gli uomini fossero di acciajo e non di carne. Questi tali ci vorrebbero affogati nella noja. E quando l'animo è infastidito, non è buono nè per sè nè per altrui. Il meglio è un bocconcello colla salsa di tempo in tempo, e poscia un grosso boccone delle vivande usuali. La misura ne' passatempi è rimedio della vita; ed io tanto veggo magri, sparuti e disossati quelli che non pensano ad altro che al sollazzo, quanto quelli che tirano continuamente quella benedetta carretta delle faccende.
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