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Gasparo Gozzi
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    • XXXIII.   Il Senno e la Fortuna. - Novella.
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XXXIII.

 

Il Senno e la Fortuna. - Novella.

 

Pare ad ogni uomo, che s'egli avesse la Fortuna nelle sue mani, sarebbe veramente beato. E nel vero, che ad udire i poveri a ragionare di quello che farebbero se fossero assecondati da questa volubile, incerta Dea, s'avrebbe a dire ch'è gran danno che tutti i poveri non vengano da lei beneficati. Chi vorrebbe che tutti gli amici suoi fossero contenti; un altro rasciugherebbe le lagrime del prossimo; chi farebbe questa cosa, e chi quella, tutte ragionevoli e buone. Io ho veduto a' miei alquanti di costoro i quali in un momento, si può dire, fatti salire da un'infima condizione al grado di ricchi, dimenticatisi di quanto aveano detto prima, poco dopo sono divenuti tutt'altro. Essi credevano che l'animo dell'uomo fosse sempre una cosa, e non si cambiasse mai. La stizza che aveano nel vedere adoperate male le ricchezze, facea che, per biasimare altrui, dicessero qual uso essi ne avrebbero fatto; ma quando l'hanno acquistate, il capo loro diventa come una nuova casa abitata da altri pensieri. I primi a poco a poco diventano dinanzi a loro vili e plebei, passa molto tempo che non se ne ricordano più punto o si vergognano d'avergli mai avuti; e chi da nello spenditore fuori di proposito, chi intisichisce nell'avarizia, chi con le ricchezze ti crede d'avere acquistato la grazia, le scienze, o l'amore delle donne; tanto che si vede che la buona fortuna non è sufficiente a far sì che gli uomini sieno quegli uomini che dovrebbero essere.

 

Furono un tempo gli Dei a consiglio, perchè Giove vedendo dall'alto del cielo crescere ogni più l'umana generazione, ed essendo a quella grandemente affezionato, volea pure ad ogni modo che, tra le varie calamità della terra, la facesse quella migliore e più agiata vita che potesse. Per la qual cosa fra i convocati Dei si ragionò a lungo quale spediente si potesse prendere sopra ciò, e chi mandare fra gli uomini sulla terra, acciocchè nelle loro azioni gl'illuminasse e guidasse. Molti e diversi furono di quel Consiglio i pareri, i quali tra per essere cosa avvenuta quasi nel principio del mondo, e tra perchè gli annali delle faccende di Giove furono con gran varietà compilati, io non saprei dire così appunto quali fossero tutte le opinioni; ma l'ultimo effetto si sa di certo, cioè che fu tra gli uomini mandato il Senno, acciocch'egli si prendesse cura delle loro faccende. Costui, ch'era stato allevato dalla sapiente Minerva, discese, mandatoci da Giove, quaggiù, e incominciò con la bontà sua a far conoscere alle genti quello che aveano o non aveano a fare per essere contente, e sì co' misurati suoi modi a reggere ogni cosa, che viveano in una grandissima tranquillità, senza punto sapere che fosse inquietudine, o travaglio. Ma egli avvenne cosa che sturbò tutto questo bell'ordine. Era su nel cielo una Dea, chiamata, come anche oggidì, la Fortuna; una pazzaccia, la quale non teneva più da Pallade che da Venere, avea più in cuore questo Nume che l'altro; ma avea vôlto tutto l'animo a volere ora ingrandir questo, ora quello, secondo che le dettava il capriccio. Per la qual cosa oggi affezionatasi a Venere, e volendola quanto potea innalzare, trovata una subita invenzione, la facea credere a tutti con un maraviglioso incantesimo ch'ella fosse nata dalla spuma del mare, e venisse accompagnata in una marina conca dalle Ninfe marine, e approdasse in Paffo, onde le venivano rizzati altari, arsi incensi, fatti sagrifizj, e tutti concorrevano sulla terra alla novità di Venere, tanto che per qualche tempo fino all'are di Giove ne rimanevano solitarie e deserte. Domani la facea questa grazia a Minerva; un altro a Mercurio; e fino le venne voglia di favorire Ercole, e altri nati da donne terrene. Per la qual cosa Giove, veduto questo scompiglio, fu preso un giorno da sì acuta collera, che senza punto ricordarsi della grandezza e dignità sua, fattalasi venire innanzi, la balzò giù dal cielo con un calcio, ond'ella, rovinando giù, si ritrovò ad abitare fra gli uomini. Il Senno, che conosciuta l'avea fin da quel tempo che abitava nelle altissime sfere de' cieli, e sapea benissimo il costume e gli aggiramenti di lei, al suo primo apparire si tenne perduto, e cominciò quasi quasi a temere di tutto quello che dovea avvenire. Pure, come colui ch'era accorto e giudizioso, immaginò che l'opporsi apertamente a lei non gli sarebbe punto giovato, e deliberò di tentare se col farle buona accoglienza potesse almeno obbligarla a , e renderla alle sue disposizioni ubbidiente.

Per la qual cosa, andatole innanzi con la comitiva delle Virtù, da lui fatte nascere e alimentate sopra la terra, si dolse in prima della calamità di lei, indi offerendole il servigio suo e quello delle sue compagne, la ricolse nella sua abitazione. Io non voglio, diceva egli, che tu, o cosa divina perda le tue facoltà sulla terra, potrei farlo quando il volessi; ritieni pure quell'autorità che avesti, ch'io non la ti contrasto; ma lascia ch'io medesimo qui segua quell'ufficio che mi fu commesso da Giove. Io lascio che a tuo piacere benefichi gli uomini in generale; ma vedi bene che tu non preferissi questo a quello; o se lo facessi mai, non isturbare gli ordini miei, e lascia che, dovunque piovono i tuoi favori, possa io appresso ordinare in qual forma debbano essere distribuiti. - Nel principio della sua caduta, essendo la Fortuna umiliata dal suo caso novello, gli rispose che la rimetteva il suo caso in lui, e che non avrebbe fatto più meno di quello ch'egli le avesse commesso. E già a poco a poco faceva con l'opera sua un gran bene all'umana generazione, perchè beneficando gli uomini in universale, e spartendo le grazie sue fra tutti, ognuno vivea lieto e contento. Ma vedendo coll'andare del tempo gli uomini ch'essa era la principale benefattrice e datrice di tante grazie, quante n'aveano, e che per grazia di lei biondeggiavano i campi d'abbondantissime messi, e le greggie rifiorivano in mille doppi più che prima sotto la sua benefica mano, le posero tanto amore, che solo di lei ragionavano, e incominciarono del tutto a non pensare ad altro che a lei, e quasi quasi a dimenticarsi del Senno che gli avea sì lungo tempo indirizzati, e fatto di loro così buono e saggio governo. Della qual cosa avvedutasi la maligna Dea, concepì di subito il più tristo disegno del mondo, e fu quello di balzare affatto dalla signoria il Senno, e di reggere ella medesima gli uomini, e fare quello che non avea prima potuto degli Dei nel cielo. E per poter mettere ad effetto la sua malvagia intenzione, la si diede incontanente a favorire con le sue beneficenze ora questo, ora quello in particolare; tanto che in poco d'ora alcuni, senza saperne la cagione e senza darsi punto pensiero d'acquistare, si videro a scorrere, a guisa di rivoli, innanzi l'oro e l'argento, e quasi dormendo possedevano inaspettatamente ogni cosa. Di che vogliono dire alcuni che avesse origine quel proverbio: Fortuna, e dormi. Io non potrei dire a mezzo quanta fosse la confusione e quale il rincrescimento del Senno a vedere lo scompiglio e le alterazioni poste da sì fatta novità negli ordini suoi; e poco mancò che per disperazione non si fuggisse allora dal mondo. Ma ricordandosi delle commessioni ricevute da Giove dall'una parte, e dall'altra conoscendo che il favore della Fortuna, impiegato in alcuni pochi, facea poco meno che perire tutti gli altri, pensò fra in qual forma potesse arrecare rimedio a cotanto male. E senza venire all'arme, stordire Giove con le querele, quand'egli vedeva che la Fortuna largheggiava nel favorire uno, gli andava innanzi, e con belle e sante ammonizioni l'ammaestrava in qual forma dovesse le ricchezze sue distribuire per essere fra' suoi confratelli onorato, e per aver gloria di quello che possedeva. E se quivi ritrovava orecchi che ne l'udissero, arrestavasi seco, e parte gliene facea spendere a pro della sua patria, parte a coltivare l'arti e le scienze, una porzione nel giovare a' migliori, oltre a quella che dovea servire agli agi e alla propria tranquillità. S'egli avea a fare con sordi voltava loro incontanente le spalle, e lasciava quella casa, come se fosse dalla pestilenza assalita, nella quale, uscito il Senno, entravano i Capricci, comitiva della Fortuna; e l'oro e l'argento che per opera della loro reina si sarebbe quivi stagnato, in brevissimo tempo n'usciva fuori, gittato fino per le finestre, senza pro onore di chi l'avea posseduto. Da quel tempo in poi non s'è mai scambiato quest'ordine, e non può essere veramente felice colui che avuta la Fortuna, non presta gli orecchi anche al Senno.

 

 

 




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