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Pierangelo Baratono
Ombre di Lanterna

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  • Il soliloquio dello straccione
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Il soliloquio dello straccione

 

Qualche volta anch'io medito al chiaro di luna. Immagino d'essere un poeta, di possedere una visione mia, una mèta di gloria e d'avere la forza di volontà e la ricchezza di sentimento necessarie per conquistarla. Allora siedo ai piedi di qualche albero solitario, sperso nella campagna, e mi lascio cullare dal mio sogno, agevolato dalla viva bianchezza lunare. Momenti rapidi di felicità, nei quali compongo certi miei canti dolorosi, eppur pieni di speranza, povere cose di un pover'uomo! Poi, a un tratto, alla svolta di un verso, innanzi alla difficoltà di una rima mi sveglio. Per chi comporrei questi canti; forse per me, cane randagio in cerca di nutrimento, o per la luna, che indifferente fa spiovere la sua luce sul mio corpo come sul tronco freddo e scabro dell'albero, che serve d'appoggio al mio dorso? Oppure per quei pochi amici, bisognosi al pari di me e più desiderosi di una buona mensa che di versi cattivi? O per i miei veri amici, i gatti vagabondi dai grandi occhi pieni di curiosità, scintillanti nelle tenebre della notte? I gatti! Li ho amati e li amerò sempre come i miei più cari compagni. Sono i consueti consolatori, sia ch'io ripari il mio corpo in qualche buio porticato o che mi ponga alla ricerca faticosa di qualche avanzo di cibo fra mezzo ai mucchi d'immondizie, addossati ai muri dei vicoli. La comunanza di banchetto e di giaciglio, e fors'anche un inconscio senso, che mi addita ad essi come un amico, me li rende subito favorevoli. Ogni tanto faccio qualche nuova conoscenza. Mi avvicino, nella mia caccia notturna, a un cumulo di torsi di cavolo e d'ossa rosicchiate. Due occhi fosforescenti si spalancano su di me, poi si riabbassano sul cibo. Il loro possessore, ha riconosciuto un alleato e non fugge, neanche se la mia mano tenta sfiorarlo con una timida carezza di presentazione.

Una volta strinsi una salda amicizia con uno di questi vagabondi felini: una bestia magnifica, sebbene un po' magra, tutta bianca, tranne per due macchie nere sulla testa e sul dorso. Mi accompagnava sempre nelle mie peregrinazioni. Credo lo facesse anche per un ragionamento egoistico, poichè sapeva per esperienza ch'io conoscevo i posti buoni e scovavo le ossa migliori. Quando dormivo, il mio amico mi s'accovacciava sul petto e rimaneva , tranquillo, sino all'alba, scaldandomi col tepore del suo corpicino. M'ero abituato a raccontargli le mie pene; ero certo che mi comprendeva. Talvolta, lo confesso, quando la fame e il freddo mi facevano balenare nella mente qualche sinistro disegno, provavo un senso di paura innanzi a quegli occhioni tondi e scintillanti, che mi fissavano intensamente. Una notte non trovai più il mio gatto. Forse qualche ragazzo lo aveva ucciso a sassate. Ne piansi.

Un amico di meno e un ricordo di più. Così la mia vita, sempre: molti piaceri fuggevoli e moltissimi ricordi, un pesante fardello di ricordi. Qualche volta le mie spalle si curvano e sembra vogliano spezzarsi sotto di esso. Non sono vecchio; eppure credo di avere un cervello di decrepito. Ho visto molte cose e molti uomini durante il mio notturno vagabondaggio. In genere, preferisco la solitudine. Talvolta, per caso, mi sono accompagnato con altri straccioni miei pari. Tutti mi hanno presto disgustato. Erano troppo umili o troppo brutali: strisciavano per avere un soldo e poi sfogavano la loro rabbia di spostati sovra esseri innocui, come i cani e i ragazzi. Sovente dovetti trattenere il braccio di qualcuno alzato sulla testa di un bimbo. Essi picchiavano, così, come bruti, senza nessuna ragione. Io, invece, amo quelle piccole creature, non ancora formate alla lotta, che portano nella mollezza dei lineamenti infantili la pace e anche sotto la sporcizia conservano un po' dell'ingenuità sognatrice dei poeti e dei vagabondi. Spesso ne ho preso qualcuno sotto la mia protezione, qualche monello venditore di cerini o qualche infelice lasciato per la strada dalla famiglia. Li tenevo vicini a me, scaldandoli col mio corpo; e poi raccontavo loro storielle meravigliose e li facevo ridere con quei dentini fitti e bianchi, luccicanti fra le rosee labbrucce. Mi volevano bene, quei piccini! Qualcuno piangeva nel lasciarmi. Ne ricordo uno, un ometto pallido e melanconico, lasciato dai genitori a gironzolare per le strade nel pieno della notte, il quale mi fece dare un tuffo al sangue balbettandomi: Babbo, tu! Oh, come avrei voluto veramente essere suo padre, possedere il diritto di proteggerlo e di amarlo. In quel rapido istante ho intravisto una stanzetta illuminata dai bagliori di un piccolo focolare. E intorno al caminetto ho visto dei bimbi, che ridevano e battevano le manine guardando me, che, seduto sovra una vecchia poltrona, raccontavo qualcosa.

Dopo quei momenti di gioia ricadevo nella più cupa tristezza. Allora cercavo di distrarmi con lunghe passeggiate a traverso le vie della città, seguendo però quelle più oscure, non illuminate dalla opprimente luce elettrica, ma sulle quali si diffonde appena un debole chiarore da rare lanterne a gaz. Qualche volta mi sono anche ubbriacato. Ma di rado; poichè il vino mi sogni troppo violenti e l'alcool mi rende cattivo, ferocemente perverso Sotto il suo influsso odio tutti, anche i gatti e i bambini; perciò evito di bere come schivo le guardie. L'alcool mi eccita, queste mi esasperano terribilmente. Voglion sempre sapere troppe cose. Talvolta mi hanno condotto in prigione, avendomi trovato senza carte. Quali carte dovevo portare in tasca? Non ero uno straccione, non mi si leggeva in viso il mio mestiere e il mio destino? E poi, avevo diritto di possederne e avevano essi diritto di chiedermele? Forsechè la società è un enorme incasellamento e forsechè tutti hanno l'obbligo di possedere una casella? Possedere? Avevo io mai posseduto qualcosa? Sciocchezze! Eppure mi si buttava in prigione per non avere ciò, che nessuno mi aveva mai dato. Uno stato civile, io, che vivevo fuori della civiltà! Perchè non si rivolgevano ai miei genitori, se pure questi esistono in qualche parte del mondo?

Allorchè udivo qualche compagno di miseria maledire le guardie, mi associavo alla maledizione. Qualcuno urlava anche contro i borghesi. Questo, non lo comprendevo. Chi erano i borghesi, e poi a me che avevano fatto di male? Io non avevo chiesto loro mai nulla ed essi nulla mi avevano dato. Anzi, talvolta li avevo trovati gentili. Qualche giovanotto, a notte inoltrata, mi aveva invitato a bere in sua compagnia e non s'era sdegnato nel vedere i suoi eleganti abiti riprodotti nello specchio accanto ai miei stracci. Briciole dei ricchi, degnazioni a buon mercato! Ma c'era forse motivo di lagnarsi per una generosità non chiesta ed amichevolmente concessa? Due o tre mi strinsero anche la mano, lasciandomi. Li avrei abbracciati.

Non nego di esser soggetto anch'io ai miei quarti d'ora di rabbia. Che volete! Spesso le piccole contrarietà irritano più delle grandi. Questa sera, per esempio, me ne capitò addosso una, poca cosa a ben considerarla, ma atta ad esasperarmi. Ho sempre dormito qua e , sotto le piante in aperta campagna, fra le banchine del molo, in vecchie barche, nei portoni oscuri, ovunque mi capitava. Da qualche tempo avevo trovato un posto eccellente, sotto un sedile solitario, in una strada che costeggia il mare. Il luogo è riparato dal vento fra quanti ne ho esperimentati mi sembra il migliore. Ogni notte, dopo la solita caccia al cibo, ho l'abitudine di rincasare, come son solito dire, sotto quella banchina. Questa notte svoltando l'angolo della strada, ho trovato il posto occupato da tre giovanotti ben vestiti, che discorrevano rumorosamente. Mi saltò la mosca al naso. Oh, non avevano una casa ben calda e riparata, quei signorini? Perchè venivano a rubare il giaciglio del povero diavolo? Passai loro innanzi e li squadrai rabbiosamente. Essi non badarono a me. Però un rapido esame calmò la mia collera. Li avevo riconosciuti. Erano tre poeti, ch'io avevo incontrati spesso nelle mie passeggiate notturne. Li consideravo come amici, quantunque non avessi mai loro parlato. Pensai: hanno diritto al pari di me di utilizzare questo posto deserto; e mi allontanai, sotto il chiarore vivo della luna, con una certa dolorosa dolcezza nel cuore e seguendo con la fantasia lo svolgersi lento e malanconico di uno dei miei soliti cari sogni.




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