Qualche volta anch'io medito al
chiaro di luna. Immagino d'essere un poeta, di possedere una visione mia, una
mèta di gloria e d'avere la forza di volontà e la ricchezza di sentimento
necessarie per conquistarla. Allora siedo ai piedi di qualche albero solitario,
sperso nella campagna, e mi lascio cullare dal mio sogno, agevolato dalla viva
bianchezza lunare. Momenti rapidi di felicità, nei quali compongo certi miei
canti dolorosi, eppur pieni di speranza, povere cose di un pover'uomo! Poi, a
un tratto, alla svolta di un verso, innanzi alla difficoltà di una rima mi
sveglio. Per chi comporrei questi canti; forse per me, cane randagio in cerca
di nutrimento, o per la luna, che indifferente fa spiovere la sua luce sul mio
corpo come sul tronco freddo e scabro dell'albero, che serve d'appoggio al mio
dorso? Oppure per quei pochi amici, bisognosi al pari di me e più desiderosi di
una buona mensa che di versi cattivi? O per i miei veri amici, i gatti
vagabondi dai grandi occhi pieni di curiosità, scintillanti nelle tenebre della
notte? I gatti! Li ho amati e li amerò sempre come i miei più cari compagni.
Sono i consueti consolatori, sia ch'io ripari il mio corpo in qualche buio
porticato o che mi ponga alla ricerca faticosa di qualche avanzo di cibo fra
mezzo ai mucchi d'immondizie, addossati ai muri dei vicoli. La comunanza di
banchetto e di giaciglio, e fors'anche un inconscio senso, che mi addita ad
essi come un amico, me li rende subito favorevoli. Ogni tanto faccio qualche
nuova conoscenza. Mi avvicino, nella mia caccia notturna, a un cumulo di torsi
di cavolo e d'ossa rosicchiate. Due occhi fosforescenti si spalancano su di me,
poi si riabbassano sul cibo. Il loro possessore, ha riconosciuto un alleato e
non fugge, neanche se la mia mano tenta dì sfiorarlo con una timida carezza di
presentazione.
Una volta strinsi una salda
amicizia con uno di questi vagabondi felini: una bestia magnifica, sebbene un
po' magra, tutta bianca, tranne per due macchie nere sulla testa e sul dorso.
Mi accompagnava sempre nelle mie peregrinazioni. Credo lo facesse anche per un
ragionamento egoistico, poichè sapeva per esperienza ch'io conoscevo i posti
buoni e scovavo le ossa migliori. Quando dormivo, il mio amico mi
s'accovacciava sul petto e rimaneva lì, tranquillo, sino all'alba, scaldandomi
col tepore del suo corpicino. M'ero abituato a raccontargli le mie pene; ero
certo che mi comprendeva. Talvolta, lo confesso, quando la fame e il freddo mi
facevano balenare nella mente qualche sinistro disegno, provavo un senso di
paura innanzi a quegli occhioni tondi e scintillanti, che mi fissavano
intensamente. Una notte non trovai più il mio gatto. Forse qualche ragazzo lo
aveva ucciso a sassate. Ne piansi.
Un amico di meno e un ricordo di
più. Così la mia vita, sempre: molti piaceri fuggevoli e moltissimi ricordi, un
pesante fardello di ricordi. Qualche volta le mie spalle si curvano e sembra
vogliano spezzarsi sotto di esso. Non sono vecchio; eppure credo di avere un
cervello di decrepito. Ho visto molte cose e molti uomini durante il mio notturno
vagabondaggio. In genere, preferisco la solitudine. Talvolta, per caso, mi sono
accompagnato con altri straccioni miei pari. Tutti mi hanno presto disgustato.
Erano troppo umili o troppo brutali: strisciavano per avere un soldo e poi
sfogavano la loro rabbia di spostati sovra esseri innocui, come i cani e i
ragazzi. Sovente dovetti trattenere il braccio di qualcuno alzato sulla testa
di un bimbo. Essi picchiavano, così, come bruti, senza nessuna ragione. Io,
invece, amo quelle piccole creature, non ancora formate alla lotta, che portano
nella mollezza dei lineamenti infantili la pace e anche sotto la sporcizia
conservano un po' dell'ingenuità sognatrice dei poeti e dei vagabondi. Spesso
ne ho preso qualcuno sotto la mia protezione, qualche monello venditore di
cerini o qualche infelice lasciato per la strada dalla famiglia. Li tenevo
vicini a me, scaldandoli col mio corpo; e poi raccontavo loro storielle
meravigliose e li facevo ridere con quei dentini fitti e bianchi, luccicanti
fra le rosee labbrucce. Mi volevano bene, quei piccini! Qualcuno piangeva nel
lasciarmi. Ne ricordo uno, un ometto pallido e melanconico, lasciato dai
genitori a gironzolare per le strade nel pieno della notte, il quale mi fece
dare un tuffo al sangue balbettandomi: Babbo, tu! Oh, come avrei voluto
veramente essere suo padre, possedere il diritto di proteggerlo e di amarlo. In
quel rapido istante ho intravisto una stanzetta illuminata dai bagliori di un
piccolo focolare. E intorno al caminetto ho visto dei bimbi, che ridevano e battevano
le manine guardando me, che, seduto sovra una vecchia poltrona, raccontavo
qualcosa.
Dopo quei momenti di gioia
ricadevo nella più cupa tristezza. Allora cercavo di distrarmi con lunghe
passeggiate a traverso le vie della città, seguendo però quelle più oscure, non
illuminate dalla opprimente luce elettrica, ma sulle quali si diffonde appena
un debole chiarore da rare lanterne a gaz. Qualche volta mi sono anche
ubbriacato. Ma di rado; poichè il vino mi dà sogni troppo violenti e l'alcool
mi rende cattivo, ferocemente perverso Sotto il suo influsso odio tutti, anche
i gatti e i bambini; perciò evito di bere come schivo le guardie. L'alcool mi
eccita, queste mi esasperano terribilmente. Voglion sempre sapere troppe cose.
Talvolta mi hanno condotto in prigione, avendomi trovato senza carte. Quali
carte dovevo portare in tasca? Non ero uno straccione, non mi si leggeva in
viso il mio mestiere e il mio destino? E poi, avevo diritto di possederne e
avevano essi diritto di chiedermele? Forsechè la società è un enorme
incasellamento e forsechè tutti hanno l'obbligo di possedere una casella?
Possedere? Avevo io mai posseduto qualcosa? Sciocchezze! Eppure mi si buttava
in prigione per non avere ciò, che nessuno mi aveva mai dato. Uno stato civile,
io, che vivevo fuori della civiltà! Perchè non si rivolgevano ai miei genitori,
se pure questi esistono in qualche parte del mondo?
Allorchè udivo qualche compagno
di miseria maledire le guardie, mi associavo alla maledizione. Qualcuno urlava
anche contro i borghesi. Questo, non lo comprendevo. Chi erano i borghesi, e
poi a me che avevano fatto di male? Io non avevo chiesto loro mai nulla ed essi
nulla mi avevano dato. Anzi, talvolta li avevo trovati gentili. Qualche
giovanotto, a notte inoltrata, mi aveva invitato a bere in sua compagnia e non
s'era sdegnato nel vedere i suoi eleganti abiti riprodotti nello specchio
accanto ai miei stracci. Briciole dei ricchi, degnazioni a buon mercato! Ma
c'era forse motivo di lagnarsi per una generosità non chiesta ed amichevolmente
concessa? Due o tre mi strinsero anche la mano, lasciandomi. Li avrei
abbracciati.
Non nego di esser soggetto
anch'io ai miei quarti d'ora di rabbia. Che volete! Spesso le piccole
contrarietà irritano più delle grandi. Questa sera, per esempio, me ne capitò
addosso una, poca cosa a ben considerarla, ma atta ad esasperarmi. Ho sempre
dormito qua e là, sotto le piante in aperta campagna, fra le banchine del molo,
in vecchie barche, nei portoni oscuri, ovunque mi capitava. Da qualche tempo
avevo trovato un posto eccellente, sotto un sedile solitario, in una strada che
costeggia il mare. Il luogo è riparato dal vento fra quanti ne ho esperimentati
mi sembra il migliore. Ogni notte, dopo la solita caccia al cibo, ho
l'abitudine di rincasare, come son solito dire, sotto quella banchina. Questa
notte svoltando l'angolo della strada, ho trovato il posto occupato da tre
giovanotti ben vestiti, che discorrevano rumorosamente. Mi saltò la mosca al
naso. Oh, non avevano una casa ben calda e riparata, quei signorini? Perchè
venivano a rubare il giaciglio del povero diavolo? Passai loro innanzi e li
squadrai rabbiosamente. Essi non badarono a me. Però un rapido esame calmò la
mia collera. Li avevo riconosciuti. Erano tre poeti, ch'io avevo incontrati
spesso nelle mie passeggiate notturne. Li consideravo come amici, quantunque
non avessi mai loro parlato. Pensai: hanno diritto al pari di me di utilizzare
questo posto deserto; e mi allontanai, sotto il chiarore vivo della luna, con
una certa dolorosa dolcezza nel cuore e seguendo con la fantasia lo svolgersi
lento e malanconico di uno dei miei soliti cari sogni.
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