Qualcuno dietro la porta
A quell'epoca vivevo in camera
ammobigliata. Avevo presa in affitto una stanza al sesto piano, nella quale
passavo soltanto le poche ore concesse al sonno. La mia padrona di casa, una
donna ancora giovane, ma guasta e disfatta dalle quotidiane fatiche, si rendeva
visibile una volta al mese per riscuotere le poche lire, ch'io le dovevo.
Quanto ai miei vicini di stanza, non li conoscevo affatto, poichè di solito
tornavo a casa verso le quattro del mattino e ne uscivo appena sveglio e
vestito. Nell'appartamento una cosa mi aveva colpito e sorpreso, cioè un uscio
sull'anticamera eternamente spalancato. Dapprima credetti si trattasse di una
camera vuota. Una volta, però, essendo rincasato più presto del consueto,
trovai la stanza illuminata. Nell'interno di essa c'era un giovanotto, curvo a
scrivere sopra un tavolino. Alzò il capo e, vistomi, augurò cordialmente la
buona notte. Era un giovane d'apparenza simpatica, con le guance grasse e
lucide e un volto pacato di fanciullone. I suoi occhi, però, contraddicevano
l'apparente calma del resto della persona, poichè si mostravano vivi e
irrequieti e, talvolta, assumevano una strana espressione di febbrile paura.
Non avevo volontà di pormi a letto; colsi, quindi, l'occasione per passare
ancora due ore sveglio e annodai discorso col mio vicino di camera.
Mi si dimostrò subito dotato di
molta semplicità d'animo, ma in pari tempo di molta intelligenza. Aveva letto
una quantità straordinaria di libri e nel parlarne dimostrava una grande
sicurezza di giudizio. Difficile all'entusiasmo, tuttavia sapeva pronunciare le
sue frasi in modo, da far comprendere com'egli le pensasse profondamente. Discorremmo
di molte cose. Infine, non potei trattenermi dal chiedergli per quale bizzaria
egli tenesse di continuo aperto l'uscio della sua stanza. Ebbe un rapido
sussulto; poi, tornato tranquillo, mi confessò sorridendo e con molta
semplicità che soffriva terribilmente il caldo e aveva bisogno assoluto di una
violenta aereazione. La risposta non mi persuase; tuttavia la conoscenza ancor
troppo fresca non mi permise d'insistere.
Da allora spesso la notte ci
trovammo insieme a parlare di letteratura. Io mi sentivo sempre più vincolato a
quell'essere metodico, eppure appassionato, a quello strano impasto di calma e
di ardore, di fermezza e di volubilità.
*
* *
Una notte trovai chiusa la porta
della sua camera. Credetti per un istante che il mio amico non fosse in casa,
quantunque conoscessi le sue inveterate abitudini d'ordine e di regolarità.
Tuttavia, per sincerarmi, bussai leggermente all'uscio. Silenzio, dapprima.
Poi, ad un tratto, udii lungo, straziante come rantolo di moribondo, un urlo
spaventevole, una specie di ringhio pauroso e stridente. Divenni pallidissimo;
pure mi sforzai alla calma e aprii la porta violentemente. La stanza era
illuminata. Il mio amico, a pochi passi dall'uscio, si teneva dritto, i capelli
rigidi sulla fronte, gli occhi bianchi e dilatati, il corpo percorso da un
tremito. Una spuma sanguigna gli colava dalla bocca spalancata. In un attimo
gli fui vicino, lo scossi, cercai di portarlo sul letto. Dapprima non mi
riconobbe e continuò a guardarmi con gli occhi larghi e bianchi non cessando di
emettere il suo strido pauroso. Infine tornò in sè; i lineamenti gli si
ammorbidirono, i capelli gli caddero di nuovo lunghi sulla fronte, gli occhi si
rimpicciolirono, ridivennero normali. S'asciugò le labbra e tentennando andò ad
appoggiarsi alla spalliera del letto. «Non vorrei che qualcuno avesse sentito»,
mormorò; «ascolta se nella casa c'è qualche rumore». Tutto riposava nel
silenzio. Lo rassicurai come mi consentiva lo stato agitato del mio animo;
infine, gli chiesi se poteva dirmi la causa del suo malessere. Mi guardò con
imbarazzo, poi chinò il capo. «Ho voluto esser forte», disse; «ho voluto
provarmi». Poi tacque. Insistei per sapere qualcosa di più preciso. «Non
comprendi», mormorò dopo qualche istante, «che ho voluto tener chiusa quella
maledettissima porta? Oh! Il mio supplizio è orribile! Tu mi crederai un pazzo.
Non lo sono, no, te lo giuro; so ben io perchè soffro tanto!
— Parla, in nome del diavolo!,
urlai.
— Sai tu, continuò con voce soffocata,
sai tu l'orrore di una porta chiusa alle tue spalle? Sai tu quante ore, la
notte, nei primi tempi, allorchè non osavo tener aperto quell'uscio per timore
d'esser giudicato demente, sai quante ore ho passate, il cuore in sussulto, con
le orecchie che mi martellavano e le ginocchia tremanti? Quella porta chiusa
era per me l'inferno; l'ho subìta molte e molte notti. Dietro quel pezzo di
legno sentivo le tenebre pigiarsi con furia, sentivo i tentacoli poderosi dello
spavento e del terrore più pazzo scivolare fra gli interstizi per giungere ad
afferrarmi nella loro frenetica aspirazione. E poi, in mezzo all'ombra densa,
dritto dietro quell'uscio, io vedevo, vedevo, comprendi, un essere con le mani
grosse, stillanti sangue, lo sguardo freddo e crudele, le labbra contorte a un
sogghigno. Era spaventosa la sofferenza! Questa notte ho voluto provarmi. Da
qualche tempo non subivo più alcuna impressione di paura; credevo d'esser
salvo. Perciò ho chiuso l'uscio con un colpo violento. All'istante mi son sentito
preso, afferrato dall'antico terrore. Volevo precipitarmi, riaprire quella
porta. Ma non osavo. Le tenebre, ch'io indovinavo dense dietro di essa,
mi respingevano. E poi, se mi fossi trovato faccia a faccia con lui,
l'uomo dalle mani grosse coperte di sangue e dal sogghigno crudele? Son stato
ore e ore, non so più quanto, a spiare ansioso, dritto innanzi a quell'uscio,
senza osare di muovermi, quasi di respirare, di voltargli le spalle. Le
orecchie mi si erano riempite di sangue, le sentivo scuotersi sotto l'onda
sanguigna. A un tratto, a traverso il loro ronzìo, ho inteso un picchio alla
porta, un colpo discreto e calmo, come quella notte. Ho provato una
sensazione di soffocamento, poi un freddo spaventoso e non ho compreso più
nulla!
Terminò di parlare e si pose a
piangere. Gli dissi quanto mi suggeriva la mia amicizia per calmare la sua pena
e lo esortai a confidarmi tutto. Bevve un bicchier d'acqua, poi mi raccontò la
sua storia.
Un tempo, ancor giovanetto,
viveva con la mamma e il padre in una città di provincia. Amava molto i
genitori e prodigava loro i tesori del suo cuore semplice ed ingenuo. La madre
era ancor giovane, il padre già vecchio più per i dolori sofferti che per
l'età. Vivevano insieme tranquillamente con la pensione paterna e non temevano
l'avvenire, poiché si sentivano forti del loro reciproco affetto. Egli dormiva
nella camera a fianco di quella dei genitori. Anche allora soffriva un po' pei
suoi nervi troppo eccitabili e, sebbene si sapesse vicino ai suoi cari,
spauriva nel trovarsi solo, di notte, nella sua stanza, con la porta chiusa.
Pure, si sforzava di vincere i vani timori.
Una notte, mentre studiava a
tavolino, udì un breve grido soffocato nella casa. Si alzò, un po' inquieto. La
ragione lo calmò subito, dicendogli che il rumore era certo prodotto dalla sua
fantasia. Però, ancora con l'animo sospeso, egli si diresse verso la porta e,
il corpo curvo innanzi, si pose a origliare. A un tratto udì un picchio
discreto e calmo dietro l'uscio della sua camera. Il sangue gli affluì impetuoso
alla testa. Ma che! Vane paure! Doveva esser la mamma, che veniva, per
qualche motivo, a parlargli. L'uscio si aprì con un colpo violento: un uomo
apparve nel vano, dritto contro la tenebra, che si addensava dietro il suo
corpo. Aveva il volto marmoreo, le labbra contratte a un sogghigno, gli occhi
freddi e luccicanti. Stese le mani innanzi, due mani grosse, dalle quali
colavano fili di sangue. Il mio amico cacciò un urlo e si precipitò alla
finestra, per fortuna bassa e aperta. L'altro gli fu dietro, tentò di
afferrarlo. Ma egli era già saltato in strada.
Quando, dopo pochi minuti, tornò
nella casa insieme a qualche vicino, accorso alle sue grida, trovò il babbo e
la mamma morti, con un largo taglio di coltello alla gola. Dell'assassino
nessuna traccia. Soltanto, sul davanzale della finestra si vedeva distinta
l'impronta di due mani sanguinolenti.
|