Nelle soffitte di Torino vivono
ancora gli ultimi campioni di quella strana famiglia, che, preso un nome
zingaresco, abitò un tempo Parigi ed ebbe a storiografi diligenti Murger,
Vallès e De Bernard. Ormai ridotti a pochi e ignorati dal mondo, costoro
conservano tuttavia la dolce pigrizia, ricca di fantasticaggini e il buon
umore, che resero per sempre gloriosi i loro affamati antecessori.
Appunto a Torino conobbi uno di
questi bizzarri figli del caso. Era un simpatico giovinotto sui venticinque
anni, pieno di brio e di vitalità nel suo piccolo corpo irrequieto. I capelli
ricciuti, spioventi di sotto al tradizionale berretto di flanella, largo e
piatto, e la breve barba a punta, di un color castano chiaro, accuratamente
pettinata, lo designavano a prima vista per uno di quei vagabondi artisti
sempre in caccia di un sogno e di una colazione. La finezza del naso aquilino e
la dolcezza dello sguardo temperavano quel po' di studiato e di esteticamente
pretenzioso, che poteva rivelare il resto della fisonomia. Quanto agli abiti,
ne possedeva uno solo, corto e attillato e «completamente all'ultima moda»,
come diceva lui sorridendo. Un piccolo mantello di lana turchina, che gli
arrivava ai fianchi, era l'unico lusso che, nella stagione invernale, si
permettesse. Poteva sembrare un imitatore di altri costumi e di altri tempi;
era, invece, originalissimo. Del resto, la sua poca istruzione non gli
permetteva di appoggiarsi a ricordi letterari. In politica era rimasto fedele
all'impero Napoleonico, in letteratura si limitava a declamare Ugo Foscolo e le
rime di Pompeo Bettini. Ogni altro nome, per lui, era lettera morta. Qualche
sera, allorchè la luna gli carezzava i capelli, bagnandolo col suo vivo
scintillio, ammetteva che potessero esser vissuti altri geni. Ma erano i suoi
minuti di condiscendenza; e guai a chi gliene avesse riparlato il giorno dopo.
Lo conobbi in un momento caratteristico.
Pranzavo in una piccola trattoria del sobborgo, allorchè vidi entrare quel bel
tipo. Portava sotto il braccio un oggetto lungo e rettangolare, involto in
vecchi giornali.
Si avvicinò al banco e,
rivolgendosi al padrone, chiese con aria misteriosa:
— Vi intendete di oggetti
d'arte?
— Non ne compro, rispose quello.
— Aspettate; non vi dico di
comprare. Servitemi un modesto pranzo ed avrete in pegno un capolavoro.
Malgrado il grugnito poco
rassicurante, che accolse la sua proposta, cominciò a svolgere flemmaticamente
l'oggetto. Era una vecchia tavola tarlata, sulla quale la muffa aveva disegnato
una specie di cavallo galoppante, con sulla schiena un moro, che poteva
anch'essere una scimmia.
— Cos'è quella porcheria?,
chiese il trattore, volgendo lo sguardo meravigliato dal guazzabuglio
all'intruso.
— Una porcheria? È un
capolavoro, che nessuna mano d'uomo avrebbe potuto dipingere! Si potrebbero
averne cento, duecento, mille lire, una sull'altra.
— Bene! Rivolgetevi a un
antiquario! ribattè il padrone con un'alzata di spalle.
Mi decisi a intervenire, poichè
mi sentivo vivamente interessato per quel bizzarro venditore. Si trattava di un
imbroglione o di un visionario? Allora non potevo deciderlo; più tardi mi
accorsi che c'era un po' di entrambi in quell'uomo; ma che, sovra tutto, c'era
uno spirito profondo di mistificazione.
— Scusi, dove l'ha trovata?
domandai a quell'entusiasta, additandogli la tavola.
— In casa mia, rispose col tono
con cui avrebbe detto: Nel mio palazzo! Non è, forse, un capolavoro?, continuò,
rivolgendosi verso di me.
— Sì, sì; può darsi. Ma, tale
qual'è, troverà difficilmente un compratore.
— E chi ha detto di venderla?
Non me ne priverei per un tesoro. Volevo soltanto lasciarla in pegno per un
miserabile pranzo.
Nei suoi occhi malinconici vidi
un profondo scoraggiamento; perciò, mi decisi a invitarlo:
— Se vorrà dividere la mia
modesta cena, mi farà un vero piacere.
Quel povero diavolo guardò
ancora una volta il trattore; ma lesse sovra il suo viso un'incrollabile
decisione.
— Accetto, mormorò, stendendomi
la mano.
Poi si diede a frugare nelle
tasche e finì con l'estrarne un biglietto da visita, cioè, per meglio dire, un
pezzo di cartoncino sporco, sul quale eran tracciate, in un carattere lungo e angoloso,
queste parole: Giorgio Rocca scenografo.
Durante il pranzo, ch'egli
divorò con un appetito degno di un corpo più voluminoso, mi narrò l'odissea
della sua vita. Una vita di miserie sopportate allegramente e di allegrie senza
soldi, ricca di incidenti umoristici e di dolori, riboccante di risate e di
lagrime. Quell'uomo aveva fatto un po' di tutto ed aveva sopportati i rovesci
della fortuna con la stessa giocondità, con la quale aveva accolti i pochi
favori.
Ogni angolo di Torino gli era
noto per avervi dormito, allorché si trovava senza alloggio. Ogni trattoria era
conosciuta dal suo naso, che vi aveva fatte innanzi lunghe stazioni, aspirando
i profumi della cucina, che dovevan tenergli luogo di pranzo. Volta a volta
decoratore, pittore, scenografo, qua rifiutato, là accolto con sprezzo,
tollerato per compassione, egli aveva provato tutto, tutto sofferto. Ma il suo
schietto sorriso non era, per questo, fuggito dalle sue labbra. Perfino nella
vita d'impiegato, che aveva fatta per qualche mese, era riuscito a crearsi un
buon umore fittizio. Le sue mani fini di pigro sognatore si erano imbrogliate
fra le pratiche polverose senza strappargli di bocca che risate e motteggi.
Appunto in quell'epoca i colleghi d'ufficio avevan trovato per lui il nomignolo
di Buono-a-niente. Era colpa sua, se le dita, invece di tracciare cifre e note,
disegnavano fogliami o paesaggi? Il soprannome, foggiatogli dalla malignità
burlesca dei mangia-carta e bevi-inchiostro, gli era rimasto anche con i pochi
amici delle soffitte. Ormai nessuno lo chiamava più Giorgio Rocca.
Egli mi raccontava tutto ciò,
ridendo, e confessava che il nomignolo era indovinatissimo. Infatti, a ben poco
si sentiva adatto, tolto dai suoi disegni. E anche in questi si stancava
subito. Quante ordinazioni gli erano andate in fumo per la sua pigrizia! Quante
volte aveva stancato i clienti con la lentezza del suo lavoro! Oh, avevano ben
ragione, amici e nemici, di chiamarlo Buono-a-niente!
*
* *
Da quella sera mi trovai sovente
in compagnia del mio nuovo amico e cominciai ad affezionarmi a quella singolare
natura di spostato. A volte ingenuo come un fanciullo, a volte scaltro come una
scimmia, generoso sempre nella sua miseria, egli profondeva intorno a sè
l'allegria come un tesoro. I momenti di malumore li aveva anche lui, allorchè
gli mancavano i denari in tasca, il tabacco nella pipa e gli amici nella povera
camera all'ultimo piano. Ma passavano subito o, per lo meno, li scacciava
dandosi ad una furiosa passeggiata per le strade più popolose o recandosi a sedere
sovra qualche solitaria panchina in vista del Po e di Superga. Aveva una
cordialità di accoglienza, che gli incatenava i cuori; perciò, anche nei
momenti della più nera miseria, non mancavano amici nella sua camera. Tutti
amici della sua condizione, naturalmente, cioè senza posizione sociale, ed ai
quali non rifiutava mai ospitalità nella notte, cedendo loro il lettuccio e
contentandosi per dormire, di sdraiarsi sovra un tavolaccio, che dal davanzale
della finestra scendeva a piano inclinato sino al coperchio di un antigo baule,
coperto da incisioni di giornali e da note di trattorie.
Qualche capriccio di un mese,
qualche passione di un anno lo avevano addestrato a conoscere l'eterno
femminino.
Malgrado ciò e malgrado le
piccole orgie, alle quali a volte si abbandonava, egli conservava un
inalterabile sentimentalismo, che lo avrebbe reso ridicolo se fosse stato
compreso da chi l'avvicinava. Ma le sartine e le modiste, alle quali rivolgeva
sguardi languidi e frasi delicate, attribuivano al suo cervello balzano quelle
passeggiate al chiaro di luna e quegli idilli sovra i prati, che avrebbero
dimostrato a persone più raffinate una grande sensibilità e un intenso bisogno
di affetto.
Tutti i contrasti si trovavano
nel suo modo di pensare e di agire; ogni parola, ogni gesto rasentavano il
paradossale e cadevano nel misterioso. Soltanto le sue risate erano franche e
chiare, sebbene a volte suonassero come uno sfogo di dolore. Nessuno aveva mai
compreso il mio povero Buono-a-niente; ogni cosa aveva ostacolato quella tempra
d'artista sibarita nel difficile cammino dell'esistenza.
Ricordo un episodio, che
potrebbe dimostrare come, anche nei piccoli avvenimenti, la fatalità si
divertisse a porgergli un'uguale porzione di gioie e di dolori. Uno dei soliti
amori, questa volta con una studentessa; ma un amore disgraziato, poichè si
rivolgeva ad una donna più bizzarra ancora del pittore, piena di contraddizioni
e di capricci.
Il mio amico aveva persa quasi
ogni speranza. Talvolta, mi diceva:
— Forse verrà il momento buono
anche per me. Ma bisogna che mi fidi di quella pazzerella, che è tanto cattiva
e lo farà attendere a lungo!
Una notte, verso le dieci, tornò
a casa. Aveva girato parecchie ore per trovar da mangiare. Digiunava da un
giorno; e a venticinque anni il digiuno è ben lungo! Finalmente, appunto verso
le dieci, aveva trovato un amico fotografo e si era fatto regalare da lui due o
tre cartoline illustrate. Riuscì a venderle a un tabaccaio; poi corse a
comprare pane e prosciutto e s'affrettò verso la sua soffitta. Non aveva ancora
addentato il pane, che gli era costato tante parole e tanti espedienti,
allorchè l'uscio della cameretta si aprì o, per meglio dire, si spalancò,
poichè era sempre socchiuso. Dal buio del pianerottolo suonò una voce
lamentevole:
— Hai da mangiare?
Era un amico, il quale, come lo
spettro della fame, compariva dinanzi a lui in quel critico momento.
— Vieni avanti: divideremo;
borbottò Buono-a-niente.
L'altro, da buon compagno che
vuol rendersi utile, trasse di tasca due mele, un po' guaste, ma ancora
presentabili, e un temperino; poi sedette. Sopra il legno, che serviva da
tavola e poteva anche far le veci di un letto, e sotto gli occhi luccicanti dei
due i commestibili prendevano un aspetto seducente di pietanze da re. Bisogna
dire, però, che un mozzicone di candela non basta con la sua luce a far
giudicare le cose.
Diavolo! Qualcuno picchia
sommesso all'uscio; poi s'ode una risata squillante. Il mio amico dà un balzo,
rovescia a terra le provviste e le copre con una vecchia giacca, mentre l'altro,
attonito e spaventato, corre a rifugiarsi nell'ombra protettrice di un angolo.
Nel vano della porta era comparsa, come una visione, la figura ridente di una
donna, della studentessa! Povero Buono-a-niente, che, con lo stomaco vuoto, si
vedeva costretto a sorridere! Pure, chi avrebbe potuto trattenere un grido di
gioia innanzi a quel nasino provocante e a quelle due guance piene di fossette?
— Non mi aspettavate, vero? Ma
c'era conferenza al Circolo. Mi annoiavo; sono scappata, ed eccomi qui. Ma
buono, veh! E datemi la mano per queste scale buie. Mi condurrete a
passeggiare.
Buono-a-niente lasciò cadere un
ultimo sguardo pietoso sulla giacca sdrucita, che nascondeva la sua colazione e
il suo pranzo, poi si affidò alla sorte.
Il pittore era ubbriaco di fame;
perciò agì come un ebbro. Sentiva che la testa gli girava e cominciò a parlare
per vincere la languidezza, che l'invadeva. Parlò molto, discorrendo della sua
passione come un disperato. Oh, se la studentessa avesse potuto leggere nel suo
cuore e nel suo stomaco!
Debbo aggiungere che
Buono-a-niente piacque? Quando tornò a casa, il mio povero eroe non trovò più
traccia nè della cena nè dell'amico affamato.
*
* *
Ho detto che il pittore abitava
all'ultimo piano, in una specie di soffitta.
Dalla piccola finestra della sua
camera egli dominava un terrazzino. Buono-a-niente rimaneva spesso ore e ore
appoggiato al davanzale, vagando distrattamente con l'occhio per il cielo e
sulla via un po' deserta. Una sola cosa turbava il suo quieto fantasticare e
cioè un bellissimo pappagallo, di una razza rarissima a piume verdi e rosse,
che troneggiava sopra una gruccia nel terrazzino, fra un vaso di rose e uno di
geranî. La bestia pareva fosse stata allevata a bella posta per disturbare i
sognatori, poichè non cessava mai dal cantare certe sue nenie, inframmezzandole
accortamente con brani di dialogo e invocazioni al pasto.
Per qualche tempo Buono-a-niente
sopportò il martirio. Infine, un giorno ebbe una idea. Comprò un secchietto di
latta, una specie di giocattolo col suo manico per tirar acqua dai pozzi
minuscoli, che sogliono fabbricare i bambini. Atteso il momento buono, in cui
nessun volto umano era affacciato alle finestre, calò con una funicella il
secchio colmo di acquavite, sino a portata del becco del pappagallo. L'uccello
cominciò col guatare quel liquido sconosciuto: poi, incuriosito, volle
assaggiarlo.
Pare che il gusto dell'alcool
piacesse al figlio della libera America, poichè in breve il secchietto rimase
asciutto e potè venir ritirato dal suo proprietario. Gli effetti dello scherzo
non tardarono a mostrarsi. Il linguacciuto animale cominciò a sbattere le ali,
a muover le zampe disordinatamente e a cantare con voce rauca le più
lamentevoli arie del repertorio.
Ad un tratto apparve sulla
terrazzina un uomo lungo e magro, con le spalle curve e col corpo avvolto in
una vestaglia da camera, rossa fiammante.
Il nuovo venuto alzò verso il
pappagallo uno strano visetto, che gli sfuggiva di sotto alla papalina ficcata
fin sulle orecchie, tutto zigomi e mento, con gli occhi piccoli affondati nel
cranio e con due grandi buchi per guance. Quel bizzarro individuo cominciò a
chiamare dolcemente l'uccello.
— Cicco! Cicco! Povero Cicco!
Ma sì! Il povero Cicco era
occupato a ballare sulla sua gruccia, accompagnando la strana furlana con lo
sbatter dell'ali e con la voce roca. Il tanfo dell'acquavite non tardò a far
conoscere al vecchio in vestaglia la causa di quello sconcerto. Alzò il capo e
scorse Buono-a-niente.
— Signore, hanno ubbriacato il
mio pappagallo.
— Lo racconti al portinaio,
rispose con calma il mio amico.
— Ma non c'è altri che lei, qui
sopra.
— Davvero? Ma sotto c'è
un'osteria.
— Pretenderebbe che Cicco si
fosse recato da sè alla taverna?
— Chi lo sa? È un pappagallo di
spirito. Inoltre chiacchierava troppo: io ho sempre osservato che le persone
molto loquaci nascondono qualche dispiacere. Il suo pappagallo sarà stato
addolorato e avrà voluto dimenticare..... nell'alcool.
Chiuse la finestra e si gettò
sul letto, ridendo.
L'ubbriacatura portò il povero
pappagallo sull'orlo della tomba. Buono-a-niente, che avrebbe bramato osservare
gli effetti dell'alcoolismo negli uccelli, non potè soddisfarsi, poichè non
ebbe più nuove del chiassoso vicino. Ma, in compenso, un giorno vide l'uomo
dalla papalina e dalla vestaglia avanzarsi sulla terrazza armato di un enorme
trombone. Egli comprese la vendetta e si preparò alla difesa. Pure, per qualche
giorno dovette sopportare i boati dell'orribile strumento e deliziarsi in una
gamma, che al suono più basso gli faceva turar le orecchie e al più acuto,
malgrado la precauzione, lo balzava in aria come un turacciolo. Infine ebbe un
lampo di genio e comprò un piccolo petardo. Due ore dopo, appoggiato
tranquillamente al davanzale, egli studiava l'avversario dall'alto della propria
situazione.
La bocca minacciosa dello
strumento si apriva quasi sotto il suo naso, cacciando fuori, come un mostro
marino, gli sbuffi spaventosi delle note. Il momento era propizio
Buono-a-niente reagì. Il petardo, lanciato da una mano sicura, ruppe una nota
nella gola del trombone e, scoppiando tra le lucide pareti, produsse un vortice
di fumo e di scintille e un boato, quale mai orecchio umano aveva udito prima
d'allora.
Il suonatore rovesciò sul suolo
tramortito dallo spavento, lasciandosi sfuggire dalle mani lo strumento e la
papalina dal cranio.
In quell'istante comparve sul
terrazzo una fata. Cioè, Buono-a-niente vide avanzarsi una creatura sui
diciassett'anni, bionda, rosea, delicata. Il grido di terrore della ragazza
fece rinvenire il mio amico dalla sua estasi. Si precipitò per le scale come
una furia e corse ad attaccarsi al campanello di casa della sua vittima.
Come spiegare la faccenda? I due
giovani s'innamorarono e, dopo cinque o sei mesi, si fidanzarono malgrado il
pappagallo e il trombone.
Pareva che, ormai, la felicità
dovesse arridere al mio amico. Ma che! Seppi, più tardi, che il matrimonio era
sfumato.
Povero Buono-a-niente!
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