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Pierangelo Baratono
Ombre di Lanterna

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I gufi

 

Sono un po' come i vagabondi: amano camminare per le vie abbandonate delle campagne o lungo il mare, seguendo nel giuoco dell'immaginazione un sogno sempre sfuggente, eppure caro alte loro anime malate di sentimento. Quelli, però, cercano le strade soleggiate e il greve calore del giorno. Gli umili gufi, invece, preferiscono il tenue chiarore delle stelle o la malinconia della luna. Gli uni come gli altri s'incontrano spesso, in due o tre, nella vita, e si uniscono fraternamente in una comune fantasticheria, che ora li culla nel silenzio della natura addormentata, ora come un incubo sconvolge il cervello ed alita per entro il penoso lavorio del pensiero. Io ho conosciuto qualcuno di questi esseri misteriosi, nati nel notturno terrore di un'aurora boreale e destinati fin dall'infanzia alla dolorosa vita fittizia dell'immaginazione. Appena le prime stelle cominciano a tremolare nel cielo, essi escono dalle loro recondite abitazioni e si dilungano per le vie e pei sentieri, tra le siepi fitte o sotto le ombre dei pini o sulle sabbie umide del lido. Portano un mistero negli occhi profondi e una infinita tristezza nell'anima. La loro malattia è incurabile; è la malinconia di quanti sentono al di dell'esistenza volgare un'altra vita velata a mezzo dalle nebbie del sogno e intuita soltanto per un meraviglioso, ma ancor troppo debole sforzo dell'umano pensiero. E chi oserebbe sorridere con una simile visione negli occhi?

 

*

*   *

 

Fui compagno per molto tempo di uno fra questi umili gufi e lo seguii nelle sue peregrinazioni di nottambulo, finch'egli passò per sempre dalla notte della vita a quella della tomba. Era un uomo bizzarro, eccezionale come pochissimi; un fanciullo, in fondo, pieno di perversità e di dolcezze infantili. Aveva uno strano corpo di magro, un po' slogato, coi piedi, che sembrava volessero staccarsi, a ogni passo, dalle caviglie e la schiena curva. Sul collo, una testa allungata, coperta di capelli ispidi. Negli occhi, piccoli e azzurri, un sogno; sul viso, nascosto a mezzo da una barba selvaggia e da due baffi spioventi, una grande tristezza. La bocca, sottile e larga, aveva di quando in quando movimenti felini. Quando egli parlava accalorato, la sua voce assumeva un suono di lima, che strida; quando diceva dei versi, pareva gli tremolasse nella gola il pianto di tutte le anime addolorate. Egli era spesso in preda, come confessava, alla malinconia dell'infinito. Aveva qualche momento di allegria puerile: correva, saltava come un bimbo dietro una palla di gomma. Poi, tornava ancora più triste verso di me, quasi temendo un rimprovero.

Facemmo insieme lunghe passeggiate al chiaro di luna. Parlavamo di poesia, d'arte, che so! Più spesso tacevamo. Ma allora parlavano i nostri sguardi, le anime avvinte alla bellezza delle penombre e degli argentei chiarori.

Un giorno dovetti partire, recarmi in paesi lontani. Prima di lasciarci ci stringemmo a lungo la mano: sentivamo un pianto dentro di noi. Tornai dopo qualche mese di vita randagia e chiesi nuove del mio nottambulo; ma non potei saperne nulla di certo. Infine, lo trovai per caso all'angolo di una via. Era spaventosamente magro, d'una magrezza spettrale. La schiena gli si era curvata ancor più; gli occhi, profondi sotto le arcate del cranio, gli scintillavano come presi dalla febbre. Mi salutò con gioia. Ma, nel discorrere, intesi in lui qualcosa di stentato, un imbarazzo come di chi vuol nascondere i propri pensieri. Disse che s'era stancato della vita solitaria e che avea preso moglie, una brava donnina economa. Sorrisi e non gli credetti. Un poeta come lui non poteva trovare la felicità nel matrimonio. Fin da quella sera riprendemmo le nostre antiche passeggiate pei campi. Però il mio amico sembrava ogni volta più melanconico e stanco; si trascinava più che non camminasse. Una sera mi confessò che la moglie non era contenta delle sue assenze notturne. Finimmo col non più uscire dalla città. Il mio amico voleva tornare a casa presto, diceva, perchè aveva da lavorare; e poi, non si sentiva più in forza. Lo accontentai. Solo qualche volta restavamo ancora insieme sino a tardi; ma, anzichè incamminarci all'avventura pei campi, preferivamo andare a sederci al «Carenaggio», una trattoria nella quale, dopo mezzanotte, si radunavano forestieri ubbriachi, giovinastri e donnine dalle vesti smaglianti e dagli occhi gonfi sonno. Ci raccoglievamo in stanze puzzolenti di cucina, intorno a tavole imbandite con un falso lusso di argenteria galvanica. Il mio amico veniva volentieri in quel ritrovo; ma io osservavo con terrore in lui uno strano cambiamento. Era sempre lo stesso visionario; ma aveva in più un'allegria malaticcia, che lo sforzava a intromettersi con la sua voce stridula nei discorsi volgari delle donne. Mangiava e beveva molto, con un'avidità paurosa di cane vagabondo. Guardandolo, sentivo crescere sempre più in me un dubbio doloroso.

Cercai di indurlo a parlarmi della sua famiglia. Si rifiutò a lungo; infine, una notte, ubbriaco, mi disse brevemente che la moglie lo batteva quasi sempre, quand'egli rincasava troppo tardi. E poi, c'era un altro mistero. Non volle dir altro e concluse: «Pure, è una brava donnina, che ha cura di me ed economizza molto sulle spese».

Una sera, uscendo di teatro, lo trovai tremante, col volto cadaverico. Mi confessò quasi piangendo che la moglie gli aveva rifiutato il mangiare per tutto il giorno, per punirlo d'una sua mancanza. Lo portai meco al solito «Carenaggio». Dopo che ebbe mangiato e più ancora bevuto, divenne di un buonumore inquietante. La sua bocca sdentata e un po' tremolante lasciava sfuggire un torrente di parole; le braccia lunghe e magre gli si torcevano nella smania del fraseggiare. Avevo paura per lui. Ad un tratto iniziò una discussione violenta con una donna. Li ho ancora entrambi innanzi agli occhi, lei con gli zigomi sporgenti, le mascelle larghe, il viso rosso di belletto e lui con gli occhi mobilissimi, le labbra contratte, il corpo scheletrico in sussulto. Essa decantava il proprio corpo e la voluttà del bacio. Noi la ammirammo, in quel momento. Pure il mio amico non le lasciò terminare il suo inno. «Io vi obbligherei», la interruppe, «per punirvi della vostra avidità di mala femmina, a farvi pagare in monete d'oro suonante e a non spendere il vostro guadagno. Voi dovreste vestire modestamente, mangiare e bere in una data trattoria a prezzi modicissimi. Così vi abbandonerei all'ossessione di un tesoro sempre più accumulato e che mai potreste intaccare

Fu quella l'ultima notte, che passai in sua compagnia. Presentivo una disgrazia e pensavo con dolore a quella povera anima strappata dalle sue immaginazioni notturne e posta in una serra troppo calda e troppo inadatta al suo vagabondaggio nei paesi dell'armonia e del mistero. Non quel naufragio noi avevamo sognato nei nostri antichi e buoni colloqui e nelle pazze escursioni delle notti lunari!

 

*

*   *

 

Non potei vederlo per molti giorni. Infine, seppi dove abitava e mi recai subito da lui, con l'animo sospeso. Un vicolo pieno di folla e di rumore, una scaletta nera e umida. Bussai alla porta. Mi aprì una donna, la moglie. Io l'avevo indovinata, prima di vederla. Era una giovine, abbastanza bella, ma dai lineamenti rigidi di arpia e dall'espressione risoluta. Mi fissò addosso due occhi duri e indagatori. «Mio marito? È a letto.» «È malato?», chiesi. «Oh, no! È un fannullone. Non vuol lavorare; e intanto qui c'è il bisogno.» Mi introdusse in una camera, ingombra di cenci e di libri stracciati. Il mio amico era in letto, in un lettuccio di ferro dalle lenzuola sporche. Mi sorrise, mi fece segno d'avvicinarmi. Aveva una pallidezza non più umana. Mi strinse la mano, ma così debolmente da sembrare che la sfiorasse. Pure, io provai in quel rapido tocco un'impressione scottante, come se avessi preso fra le dita un tizzone.

«Sei venuto a tempo», mormorò; e sorrise ancora, ma non più a me. Mi sedetti sul lettuccio, cercai di farlo parlare.

«Prendi quel manoscritto», mi accennò; «leggimi qualcosa.» Era un suo poema, bellissimo, impregnato d'una meravigliosa dolcezza. Man mano ch'io leggevo, il suo corpo si sollevava, gli occhi gli si animavano sempre più. Sentivo già il suo alito caldo sfiorarmi una guancia. Quando giunsi all'ultimo verso, ebbi una sensazione di freddo ed udii un tonfo. Il mio povero amico era ricaduto di peso sul letto. Aveva sempre il sorriso sulle labbra. Tentò di balbettare: «Bambino!». Gli occhi gli si impietrarono, rimasero larghi, bianchi, fissi nel vuoto.

Così vidi morire il mio gufo.




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