Sono un po' come i vagabondi:
amano camminare per le vie abbandonate delle campagne o lungo il mare, seguendo
nel giuoco dell'immaginazione un sogno sempre sfuggente, eppure caro alte loro
anime malate di sentimento. Quelli, però, cercano le strade soleggiate e il
greve calore del giorno. Gli umili gufi, invece, preferiscono il tenue chiarore
delle stelle o la malinconia della luna. Gli uni come gli altri s'incontrano
spesso, in due o tre, nella vita, e si uniscono fraternamente in una comune
fantasticheria, che ora li culla nel silenzio della natura addormentata, ora
come un incubo sconvolge il cervello ed alita per entro il penoso lavorio del
pensiero. Io ho conosciuto qualcuno di questi esseri misteriosi, nati nel
notturno terrore di un'aurora boreale e destinati fin dall'infanzia alla
dolorosa vita fittizia dell'immaginazione. Appena le prime stelle cominciano a
tremolare nel cielo, essi escono dalle loro recondite abitazioni e si dilungano
per le vie e pei sentieri, tra le siepi fitte o sotto le ombre dei pini o sulle
sabbie umide del lido. Portano un mistero negli occhi profondi e una infinita
tristezza nell'anima. La loro malattia è incurabile; è la malinconia di quanti
sentono al di là dell'esistenza volgare un'altra vita velata a mezzo dalle
nebbie del sogno e intuita soltanto per un meraviglioso, ma ancor troppo debole
sforzo dell'umano pensiero. E chi oserebbe sorridere con una simile visione
negli occhi?
*
* *
Fui compagno per molto tempo di
uno fra questi umili gufi e lo seguii nelle sue peregrinazioni di nottambulo, finch'egli
passò per sempre dalla notte della vita a quella della tomba. Era un uomo
bizzarro, eccezionale come pochissimi; un fanciullo, in fondo, pieno di
perversità e di dolcezze infantili. Aveva uno strano corpo di magro, un po'
slogato, coi piedi, che sembrava volessero staccarsi, a ogni passo, dalle
caviglie e la schiena curva. Sul collo, una testa allungata, coperta di capelli
ispidi. Negli occhi, piccoli e azzurri, un sogno; sul viso, nascosto a mezzo da
una barba selvaggia e da due baffi spioventi, una grande tristezza. La bocca,
sottile e larga, aveva di quando in quando movimenti felini. Quando egli
parlava accalorato, la sua voce assumeva un suono di lima, che strida; quando
diceva dei versi, pareva gli tremolasse nella gola il pianto di tutte le anime
addolorate. Egli era spesso in preda, come confessava, alla malinconia
dell'infinito. Aveva qualche momento di allegria puerile: correva, saltava come
un bimbo dietro una palla di gomma. Poi, tornava ancora più triste verso di me,
quasi temendo un rimprovero.
Facemmo insieme lunghe
passeggiate al chiaro di luna. Parlavamo di poesia, d'arte, che so! Più spesso
tacevamo. Ma allora parlavano i nostri sguardi, le anime avvinte alla bellezza
delle penombre e degli argentei chiarori.
Un giorno dovetti partire,
recarmi in paesi lontani. Prima di lasciarci ci stringemmo a lungo la mano:
sentivamo un pianto dentro di noi. Tornai dopo qualche mese di vita randagia e
chiesi nuove del mio nottambulo; ma non potei saperne nulla di certo. Infine,
lo trovai per caso all'angolo di una via. Era spaventosamente magro, d'una
magrezza spettrale. La schiena gli si era curvata ancor più; gli occhi,
profondi sotto le arcate del cranio, gli scintillavano come presi dalla febbre.
Mi salutò con gioia. Ma, nel discorrere, intesi in lui qualcosa di stentato, un
imbarazzo come di chi vuol nascondere i propri pensieri. Disse che s'era
stancato della vita solitaria e che avea preso moglie, una brava donnina
economa. Sorrisi e non gli credetti. Un poeta come lui non poteva trovare la felicità
nel matrimonio. Fin da quella sera riprendemmo le nostre antiche passeggiate
pei campi. Però il mio amico sembrava ogni volta più melanconico e stanco; si
trascinava più che non camminasse. Una sera mi confessò che la moglie non era
contenta delle sue assenze notturne. Finimmo col non più uscire dalla città. Il
mio amico voleva tornare a casa presto, diceva, perchè aveva da lavorare; e
poi, non si sentiva più in forza. Lo accontentai. Solo qualche volta restavamo
ancora insieme sino a tardi; ma, anzichè incamminarci all'avventura pei campi,
preferivamo andare a sederci al «Carenaggio», una trattoria nella quale, dopo
mezzanotte, si radunavano forestieri ubbriachi, giovinastri e donnine dalle
vesti smaglianti e dagli occhi gonfi dì sonno. Ci raccoglievamo in stanze
puzzolenti di cucina, intorno a tavole imbandite con un falso lusso di
argenteria galvanica. Il mio amico veniva volentieri in quel ritrovo; ma io
osservavo con terrore in lui uno strano cambiamento. Era sempre lo stesso
visionario; ma aveva in più un'allegria malaticcia, che lo sforzava a
intromettersi con la sua voce stridula nei discorsi volgari delle donne.
Mangiava e beveva molto, con un'avidità paurosa di cane vagabondo. Guardandolo,
sentivo crescere sempre più in me un dubbio doloroso.
Cercai di indurlo a parlarmi
della sua famiglia. Si rifiutò a lungo; infine, una notte, ubbriaco, mi disse
brevemente che la moglie lo batteva quasi sempre, quand'egli rincasava troppo
tardi. E poi, c'era un altro mistero. Non volle dir altro e concluse: «Pure, è
una brava donnina, che ha cura di me ed economizza molto sulle spese».
Una sera, uscendo di teatro, lo
trovai tremante, col volto cadaverico. Mi confessò quasi piangendo che la
moglie gli aveva rifiutato il mangiare per tutto il giorno, per punirlo d'una
sua mancanza. Lo portai meco al solito «Carenaggio». Dopo che ebbe mangiato e
più ancora bevuto, divenne di un buonumore inquietante. La sua bocca sdentata e
un po' tremolante lasciava sfuggire un torrente di parole; le braccia lunghe e
magre gli si torcevano nella smania del fraseggiare. Avevo paura per lui. Ad un
tratto iniziò una discussione violenta con una donna. Li ho ancora entrambi
innanzi agli occhi, lei con gli zigomi sporgenti, le mascelle larghe, il viso
rosso di belletto e lui con gli occhi mobilissimi, le labbra contratte, il
corpo scheletrico in sussulto. Essa decantava il proprio corpo e la voluttà del
bacio. Noi la ammirammo, in quel momento. Pure il mio amico non le lasciò
terminare il suo inno. «Io vi obbligherei», la interruppe, «per punirvi della
vostra avidità di mala femmina, a farvi pagare in monete d'oro suonante e a non
spendere il vostro guadagno. Voi dovreste vestire modestamente, mangiare e bere
in una data trattoria a prezzi modicissimi. Così vi abbandonerei all'ossessione
di un tesoro sempre più accumulato e che mai potreste intaccare.»
Fu quella l'ultima notte, che
passai in sua compagnia. Presentivo una disgrazia e pensavo con dolore a quella
povera anima strappata dalle sue immaginazioni notturne e posta in una serra troppo
calda e troppo inadatta al suo vagabondaggio nei paesi dell'armonia e del
mistero. Non quel naufragio noi avevamo sognato nei nostri antichi e buoni
colloqui e nelle pazze escursioni delle notti lunari!
*
* *
Non potei vederlo per molti
giorni. Infine, seppi dove abitava e mi recai subito da lui, con l'animo
sospeso. Un vicolo pieno di folla e di rumore, una scaletta nera e umida.
Bussai alla porta. Mi aprì una donna, la moglie. Io l'avevo indovinata, prima
di vederla. Era una giovine, abbastanza bella, ma dai lineamenti rigidi di
arpia e dall'espressione risoluta. Mi fissò addosso due occhi duri e
indagatori. «Mio marito? È a letto.» «È malato?», chiesi. «Oh, no! È un
fannullone. Non vuol lavorare; e intanto qui c'è il bisogno.» Mi introdusse in una
camera, ingombra di cenci e di libri stracciati. Il mio amico era in letto, in
un lettuccio di ferro dalle lenzuola sporche. Mi sorrise, mi fece segno
d'avvicinarmi. Aveva una pallidezza non più umana. Mi strinse la mano, ma così
debolmente da sembrare che la sfiorasse. Pure, io provai in quel rapido tocco
un'impressione scottante, come se avessi preso fra le dita un tizzone.
«Sei venuto a tempo», mormorò; e
sorrise ancora, ma non più a me. Mi sedetti sul lettuccio, cercai di farlo
parlare.
«Prendi quel manoscritto», mi
accennò; «leggimi qualcosa.» Era un suo poema, bellissimo, impregnato d'una
meravigliosa dolcezza. Man mano ch'io leggevo, il suo corpo si sollevava, gli
occhi gli si animavano sempre più. Sentivo già il suo alito caldo sfiorarmi una
guancia. Quando giunsi all'ultimo verso, ebbi una sensazione di freddo ed udii
un tonfo. Il mio povero amico era ricaduto di peso sul letto. Aveva sempre il
sorriso sulle labbra. Tentò di balbettare: «Bambino!». Gli occhi gli si
impietrarono, rimasero larghi, bianchi, fissi nel vuoto.
Così vidi morire il mio gufo.
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