Mi trovavo da pochi giorni, in
cerca di pace e riposo, nel paesello di Ruta, in Liguria, allorchè conobbi le
signorine Boony, due sorelle dai corpi aggraziati, sebbene un po' magri, e dal
visetto pallido, incorniciato da una chioma nerissima. Eran gemelle e
somiglianti fra loro in tutto, tranne nel colore degli occhi, che nell'una
avevano i riflessi glauchi del mare e nell'altra la densa profondità delle
tenebre. Orfane e ricche, esse s'erano rifugiate in quel paese meraviglioso,
compiacendosi nel magnifico quadro della natura, che in quei luoghi, pel folto
verdeggiare delle colline e per la stesa purissima del mare, ha il suo aspetto
più sincero e più incantevole.
Il padre delle signorine Boony,
colonnello nell'esercito inglese, aveva trascorsa una gran parte della vita nel
clima snervante dell'India. Ottenuto il congedo e abbandonata la colonia, con
la moglie, figlia di un medico indiano, visse ancora qualche anno in patria fra
mezzo ai ricordi del suo avventuroso passato. Una malattia di languore avviò
quasi contemporaneamente i due sposi pel cammino dell'eterno silenzio. Potei
raccogliere queste poche notizie dalle signorine Boony, alle quali una strana
ed evidente angoscia impediva di fermare a lungo il pensiero sovra i morti
genitori.
Provai fin dal primo momento una
viva simpatia per le due sorelle. Amavo trascorrere le ore al loro fianco,
compiacendomi della squisita sensibilità di quelle delicate creature e seguendo
con interesse ed affetto le diverse manifestazioni delle loro anime di
sognatrici. Ammiravo in Mehara gli occhi turchini e fondi come il cielo
equatoriale e la vivacità di pensiero e di sentimenti; ma quanto più cari mi
erano gli occhi nerissimi di Damianti e la sua melanconica dolcezza! Spesso
quella vaga fanciulla si avvicinava a me con un moto istintivo, che rivelava un
puerile terrore, e posava la piccola mano sul mio braccio, quasi a cercare
protezione ed appoggio. Mehara, invece, mi incuteva timore e in pari tempo
svegliava nel mio animo il più morboso interesse. Bizzarra fusione di estasi e
d'irrequietezza, il corpo in continuo movimento e il pensiero sperso dietro
visioni enigmatiche, quella creatura presentava un duplice aspetto di veggente
e di amazzone. Sovente si dilungava veloce su per le colline di Portofino
innanzi alla sorella ed a me, che più lenti la seguivamo; poi, giunta sul
culmine, volgeva l'avido sguardo all'orizzonte, lasciando sfuggire dal petto
ansante un selvaggio grido d'entusiasmo. E a volte si posava sulla roccia, con
le braccia distese in forma di croce e le mani aderenti per le palme al nudo
sasso, godendo nel sole, che le arroventava le membra, pietrificate in una
specie di profondo abbandono.
La sera, riuniti sulla veranda dell'albergo,
or taciti ascoltavamo i rumori diffusi della campagna, coperta d'ombre,
fissando gli sguardi nel vivo scintillio del firmamento o sull'abisso di
tenebre, che si allargava ai nostri piedi, ora interrompevamo il silenzio con
brevi parole, esclamazioni fugaci che rivelavano le nostre comuni impressioni.
Talvolta Mehara si sporgeva, col corpo sottile, dalla balaustrata, quasi
volesse precipitarsi nella buia voragine; poi, si drizzava con un rapido
movimento e, rigida nella penombra, cominciava a parlare, con una voce
cadenzata e un po' stridula, delle grandi pianure indiane, ove non era mai
stata, e dei templi di Brama e dei sacerdoti, intenti nelle loro ascetiche
contemplazioni. Narrava anche di vaghe forme, da lei intraviste nell'immensità
del cielo, e di strane corrispondenze fra quelle e i pensieri d'ogni umana
creatura. Il mondo non aveva più misteri ai suoi occhi; ogni avvenimento era da
lei presentito, ogni creatura umana aveva l'aspetto di un libro aperto, nel
quale essa poteva leggere a suo piacere. Ma le pupille, spesso, si stancavano
di veder troppo e, offese dalle vibrazioni dell'aria, che si rivelavano
di continuo intorno ad ogni corpo vitale, amavano riposarsi nella notte e nella
calma solitudine delle tenebre. Il segreto delle anime, ignoto ai profani,
assumeva per lei un aspetto iridescente e si profilava intorno ad ogni creatura
come un'aureola rivelatrice. «Gli uomini sono colori, essa diceva con la sua
voce monotona; ma occorre un prisma a conoscerli.»
Il flusso di quelle parole, piene
di mistero e di febbre, faceva tremar me e piangere Damianti, che lasciava
scorrere liberamente le lagrime sulle mie mani, intrecciate con le sue in un
dolce atto fraterno.
*
* *
Mehara si appalesava entusiasta e
profonda conoscitrice della religione braminica e spesso si addentrava con
morbosa curiosità nell'interpretazione simbolica delle strane cerimonie di quel
culto. «Io non vorrei morire mi disse un giorno, se non bruciata dalla fiamma
purificatrice, alla quale la vedova si affida con gioia nei boschi dell'India.»
Ma perchè, manifestando questo folle desiderio, essa volgeva
intensamente i suoi occhi nei miei?
Le nostre relazioni d'amicizia
accennarono lievemente a modificarsi, in quei tempi, assumendo, a poco a poco,
un aspetto diverso. Damianti continuava a trattarmi famigliarmente, ricercando
la mia presenza e abbandonandosi, in ogni occasione, allo svago di un dialogo
confidenziale. Ma la sorella cominciava a dimostrare per me un'inesplicabile
avversione, allontanandomi da sè con frasi fredde e imperiose.
Perdonavo volentieri queste
bizzarrie attribuendole all'indipendenza ed alla stranezza del suo carattere;
inoltre, mi sentivo già troppo dominato dalla dolce fantasticheria, che è quasi
sempre la messaggera dell'amore, per poter volgere a lungo l'attenzione su
quanto non riguardava Damianti, la mia delicata amica. Non osavo ancora
definire i miei sentimenti; se lo avessi potuto, mi sarei sentito debole e
inetto di fronte a una creatura, che sembrava nata più per la pura
contemplazione di una felicità divina, che per le volgari gioie della terra.
Pur finalmente un mattino le
nostre anime si rivelarono, a un tratto, l'una all'altra. Passeggiavamo, io e
la dolce Damianti, per il boscoso declivio di una collina. Mehara, dinanzi a
noi, si era dilungata dalla nostra vista fra mezzo al viluppo degli alberi. Più
nulla si udiva, in quella melanconica solitudine, tranne, di tempo in tempo, il
richiamo breve di qualche contadino o il fievole rintocco di campane.
Quale misteriosa fatalità mi
spinse, in quel punto, a piegar lievemente il viso su quello della cara
fanciulla ed a sfiorare con le mie avide labbra la sua bocca tremante? Ella
corrispose al mio bacio, ingenua e fidente, e si appoggiò tutta su di me,
nascondendo l'imbarazzo e il rossore fra le mie braccia.
Ma la mia benamata fu presta a
sciogliersi dall'abbraccio e a fuggire lieve, tinnendo un piccolo grido, come
di uccello ferito. E a questo rispose, dall'alto, un urlo prolungato e
stridente, che mi agghiacciò il sangue nelle vene e mi paralizzò per un attimo.
Pur mi scossi e mi avventai su per la collina, sino alla vetta nuda. Là,
abbandonata sulla roccia, bianca e rigida come una morta, trovai Mehara: al suo
fianco, Damianti piangeva torcendosi le braccia delicate. Molte cure occorsero
a far rinvenire la fanciulla; infine, i colori della vita tornarono sulle sue
guance e si riaprirono i grandi occhi glauchi. Il suo primo sguardo si posò su
di me, uno sguardo denso d'odio e di minaccia, che mi fece rabbrividire. Poi
Mehara cominciò a parlare pianamente, tenendo fra le sue le mani della sorella
e pur continuando a fissarmi le pupille, nel volto:
— So quanto è accaduto, laggiù,
tra voi due; ho inteso nella mia anima l'eco del vostro bacio. Perdonate
la debolezza, che mi ha vinta per un istante. Il pensiero di dovermi staccare
da mia sorella, di dover dividere con altri il suo affetto, è stato più forte
di me. Voi vi amerete.... ed io me ne andrò, lontano, ove vorrà guidarmi il
destino. Non parlare, Damianti. So quel che vorresti; ma non posso rimanere con
te. Le nostre anime erano indissolubilmente legate l'una all'altra; uno
straniero è venuto e le ha divise, per sempre. Non piangere; la tua pena è
grande, ma non quanto la mia!
Tornammo all'albergo, non osando
guardarci nè rompere il penoso silenzio, che ci gravava sull'anima.
Da allora mutammo profondamente
le antiche abitudini. Io rimanevo assiduo al fianco della mia fidanzata, che
l'affetto di sorella dimenticava per l'amore di donna. Quanto a Mehara, non si
lasciava più vedere da noi. Essa trascorreva le sue ore nella raccolta
solitudine della camera o fra la calma spaziosa dei colli. Talvolta, Damianti
mi pregava sommessa di rinunciare al nostro affetto e di render la pace alla
sorella. Ma le mie parole e più ancora la viva espressione dei miei sentimenti
dissipavano presto la nube del suo dolore e rendevano il sorriso alle sue
trepide labbra.
Una sera, tornavo da una breve
passeggiata, allorchè mi imbattei, sulla strada provinciale, in Mehara, sola ed
assorta. Imbarazzato dall'improvviso riavvicinamento, tentai di balbettare una
frase banale, la prima che mi venne alle labbra. Ma rimasi muto e impietrito di
terrore innanzi al selvaggio aspetto, che aveva in un attimo assunto il volto
della fanciulla. Ora la luna, illuminandola in pieno, rivelava un viso pallido
come marmo, sul quale si aprivano gli occhi, scintillanti e profondi come golfi
di luce, fissi su di me con un'espressione di odio implacabile.
— In nome del cielo, Mehara, che
avete? esclamai.
Mi posò una mano sul braccio,
con violenza:
— Non hai compreso, dunque? Non
hai compreso che, facendoti amare da mia sorella, suscitavi la passione anche
nel mio cuore? I sentimenti di Damianti sono i miei, come la sua vita è la mia.
Non si può rubare l'anima all'una, senza prendere quella dell'altra. Essa lo
sa, essa; ma tenta di dimenticarlo. Insensata! Le nostre due esistenze
sono intimamente legate, come le nostre due anime. E tu non lo hai compreso,
non sei riuscito a leggere nel libro del destino! Ben presto ogni cosa sarà
chiara per te, ma dopo quali dolori! Prepariamoci a subire la stessa sorte,
noi, che la fatalità ha segnati con una sola croce.
Tacque un istante, guatando
attorno, come spaurita; poi riprese:
— Questa notte io partirò, vi
lascierò soli col vostro amore. Ma con te, al tuo fianco, rimarrà la mia anima,
poichè vi resta quella di mia sorella Damianti.
Mi tolse la mano dal braccio,
mormorò ancora:
— Io sono la vedova e mi
appresto al sacrificio.
Poi fuggì rapida per la strada
bianchissima.
*
* *
Un triste presentimento aggravò
improvviso l'anima mia e di Damianti, allorchè varcammo la soglia della stanza
nuziale. Benchè uniti per sempre nella gioia del nostro amore, non riuscimmo a
muovere le labbra per dirci l'un l'altro la nostra felicità; ma, muti ed
assorti, ci tenevamo abbracciati trepidando fra le tenebre, che cominciavano a
invadere la camera. Quando intorno a noi le cose perdettero il loro colore per
immergersi nell'ombra, io mi volsi alla mia compagna e cercai di susurrarle
qualche parola d'amore. Essa mi ascoltava col visino alzato verso di me, bianco
sulle tenebre della stanza. Vincendo il segreto terrore, che mi occupava il
cervello, posai le mie labbra avide di gioia su quella bocca palpitante. Ma la
fanciulla si svincolò dal mio amplesso, gridando con un accento straziante
— Guarda! Guarda!
Volsi indietro la testa,
meravigliato. La parete di fondo della camera s'era come dissipata nell'aria:
al di là, un'altra camera appariva, illuminata dal fosco bagliore di una torcia
di resina. Mehara, nel mezzo, dritta con l'alto e sottile corpo, agitava il
ramo incendiato, da cui sgorgavano globi di denso fumo e scintille. Oh, sempre,
sempre nella mia memoria rimarrà impresso quel volto, cupo d'odio, e il
sogghigno atroce di quella bocca, e il luccichio delle pupille, fisse sovra di
me! L'orribile apparizione balzò agilmente sul letto gettando la torcia fra le
coperte. E subito da ogni lato si innalzarono lingue di fuoco, scarlatto e
listate di nero, avvolgendo il corpo rigido della fanciulla. L'incendio
spaventoso, che si svolgeva senza rumore a pochi passi da me, progrediva
rapidamente, come a traverso un velo di sogno, immergendo la mia anima nel più
profondo terrore. Vidi le vesti di Mehara fiammeggiare, il suo volto e le
tenere carni solcarsi di liste rosse e nerastre, corrose dalla forza
distruggitrice; vidi i suoi lunghi capelli drizzarsi sulla sua fronte e
avvampare come da torcia umana. Fra le lingue di fuoco, che la coprivano, gli
occhi ancor luccicavano, fissi intensamente nei miei. Scorsi ancora le sue
braccia, levate alte sul capo, agitarsi in un ultimo gesto di spasimo; poi
tutto il corpo rovinò in fascio nel vortice incandescente.
La parete della camera
riapparve, impenetrabile come prima. Raccapricciando nelle tenebre, che di
nuovo m'avevano avviluppato, mi affrettai ad accender la lampada, che avrebbe
dovuto vegliare sovra il mio amore. E scorsi Damianti, col corpo abbandonato
sul pavimento, il viso bianco, e gli occhi, ancor pieni di luce, fissi,
spalancati nel vuoto.
*
* *
Seppi al domani la fine di
Mehara, bruciata viva per un incendio fortuito, sviluppatosi nella sua
camera.
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