Sembra che anche nell'inferno la
noia imperversi costringendo le bocche allo sbadiglio e gli occhi a qualche
lagrimuccia innocente. E poi, c'è quel calore continuo e insopportabile, che
sfibra la più robusta costituzione ed è capace, da sè solo, di produrre
maggiori danni e tormenti di un esercito di morbi, dal raffreddore alla
dissenteria. Per queste e altre più segrete ragioni un giorno il diavolo, fra
uno sbadiglio e l'altro, decise di abbandonare per qualche tempo il suo regno
per recarsi in stretto incognito fra quegli animaletti, che si chiamano
comunemente uomini. Detto fatto, scoccò un languido bacio sulle labbra della
desolata consorte, mise in fretta e furia qualche indumento di primaria
necessità in una sua valigetta, si armò dell'ombrello di famiglia, una vecchia
reliquia rôsa qua e là dalla polvere e dai topi, e si avviò canterellando, rallegrato
dal pensiero di un piacevole viaggio e con la speranza di trovare per via
qualche diligenza o vettura, che gli abbreviasse il cammino.
La prima fermata la fece in un
villaggio di non so più qual regione. Un profumo penetrante di fieno, di stalla
e di concime riempiva l'atmosfera del paese. Le case, piccole e basse, con
larghe tettoie e fienili, che le dividevano, erano formate in gran parte di
terra e paglia battute. Sulle porte di esse fumava qualche vecchietto grinzoso
in lunghe pipe o qualche vecchierella filava canticchiando. Per l'unica strada
del paese passavano uomini affaccendati e coperti di sudore, la vanga sulle
spalle, e ragazze, i piedi e i polpacci nudi, fresche e appetitose pel forte
sangue paesano, che coloriva le guance e rendeva i seni ben colmi. Il diavolo
tentennava la testa. Tutto ciò non gli andava troppo a garbo. C'era troppa
pace, troppa gioia lì in mezzo e per conseguenza poca probabilità di acquistar
sudditi fra quei sani lavoratori. Bisognava cercare un rimedio. S'avvicinò a un
gruppo di vecchi e attaccò discorso. Intanto, la sera calava lentamente sulla
campagna e gli uomini tornavano dal lavoro, a schiere, cantando qualche
stornello. Il diavolo gonfiò le guance, fece la voce grossa e come un banditore
di fiera cominciò a urlare certe sue imprecazioni contro la miseria dei tempi e
lo sfruttamento dei campi e la ricchezza ripugnante dei padroni. In un attimo
intorno a lui s'era formato un fitto cerchio di uditori. Tutto il villaggio
correva a sentire quell'energumeno dal corpo sottile e allampanato e dal rauco
vocione. Il diavolo trionfava, tanto più in quanto osservava sui volti dei
vicini un certo soddisfacimento e una muta approvazione alle sue parole. Che è,
che non è, anche i contadini si mettono a sbraitare. Li aveste sentiti!
Discutevano il lavoro, il guadagno, la questione sociale con la stessa facilità
e disinvoltura con le quali un merciaiuolo parla delle sue mercanzie. Il
diavolo era sbalordito nè osava più aprir bocca. Il nembo di parole, di frasi,
di urli era diventato tempesta, uragano, fitta gragnuola, che pioveva continua
nelle orecchie del povero demonio. Parola d'onore, se non si fosse vergognato
si sarebbe fatto il segno della croce. Tuttavia non si perse d'animo; tentò di
reagire, di dominare con la sua voce il tumulto. Ma quegli ossessi, credendo a
una sua tiepidezza improvvisa, inferociti dai loro stessi discorsi cominciarono
a sbirciarlo di mal'occhio. Una parola di lui, «Calma!» a mala pena intesa da
qualcuno, ripetuta da tutti come un'ingiuria, diede il fuoco alla miccia. In un
baleno quei robusti contadini si buttarono addosso al diavolo, lo tempestarono
coi pugni e coi manichi delle vanghe, gli ridussero il cappello a un cencio e
il viso a una larga ecchimosi. Ebbe appena il tempo di svignarsela in fretta e
furia, affidandosi prima alla sottigliezza del corpo per passare fra mezzo alle
file dei nemici e poi alla sveltezza delle magre gambette per allontanarsi
triste e alquanto mortificato, col sangue che gli colava dal naso e con gli
abiti a brandelli, da quell'esoso villaggio.
*
* *
In poche ore, tuttavia, ogni
ombra di malumore sfumò dal suo cervello. «Eh via! tanto meglio! Tutte anime
prossime a dannarsi!», diceva fra sè e sè stropicciando le mani e asciugandosi
il naso.
Capitò in una grande città. Era
notte. Le vie si mostravano piene di persone affaccendate, che camminavano
nello stesso senso gestendo, discutendo, animandosi sotto la luce viva e
sferzante dell'elettricità. Le case, poi, erano addobbate con tappeti e tende
multicolori. Il diavolo si ficcò nella folla e seguì la corrente, che lo
condusse ben presto a un largo piazzale, formicolante di uomini e invaso dalla
penombra. «Che c'è?», chiese a un vicino. Questi lo guardò sbalordito, poi
diede in una risata e gli volse le spalle. A forza di domandare, il diavolo
seppe che si trattava di festeggiare una nascita reale e che quella folla
attendeva con impazienza che si desse principio a una serie di meravigliose
proiezioni cinematografiche, eseguite da un celebre fotografo e riproducenti le
scene principali delle nozze regali, sposalizio, feste a Corte, ballo finale.
«Questa è una buona occasione»,
si disse il diavolo, «per dimostrare alla folla che la Corte infernale val più
della loro e per invogliare a visitarla dopo morte.» Pensò un poco, poi deliberò
di far concorrenza al cinematografo e di impiantare per conto proprio, allato
al disco delle proiezioni, una specie di palcoscenico ove i suoi diavolini
potessero sbizzarrirsi innanzi agli occhi del pubblico nelle scene più
smaglianti e suggestive. Intanto la prima proiezione si svolgeva. Il re e la
regina, seguiti da una schiera di nobili, di ufficiali, di borghesi decorati,
si avviavano verso il tempio. Il diavolo aspettò che l'ultima vibrazione
fotografica si dileguasse, poi, chiamati mentalmente a raccolta i suoi
dipendenti, urlò: «E che, signori! Vorrete perdere il vostro tempo innanzi a
simili piccolezze? Vi mostrerò ben io che cosa siano le feste principesche e la
pompa regale e la gioia dei balli e dei conviti!» In un lampo una scena diabolica,
illuminata da foschi riflessi, si sbozzò nell'aria. Sovra nuvole orlate di
scarlatto, nere e dense interiormente, innanzi agli sguardi terrorizzati della
moltitudine, una schiera di diavoletti dai volti maligni e dalle lunghe code
arricciate intrecciò danze, formò cori, composta, ordinata come un manipolo di
soldati.
Per la folla corse un tarlo di
spavento e di indignazione. Le donne svenivano, gli uomini correvano
all'impazzata, gettando strida orribili, senza curarsi se i loro piedi si
affondavano nelle carni dei figli, delle mogli, delle madri gettate in terra
dallo scompiglio. Il più pazzo terrore si era impossessato di tutti e certo la
scena offerta dalla moltitudine bestiale e ansante era molto più diabolica di
quella, intravista nell'atmosfera e ora dileguata di nuovo nelle tenebre della
notte. Soltanto pochi tentavano di frenare la folla e di opporsi alla corrente
impetuosa; fra essi uno, un coso lungo vestito di nero, col cilindro in testa e
fra le dita un bastone grosso dal pomo metallico, dopo aver provato a fermare
qualcuno tra i fuggenti, s'avvicinò al diavolo e, postagli rudemente una mano
sulla spalla, borbottò; «Siete in arresto!».
Per miracolo il diavolo sfuggì
alla vendetta popolare; quanto ai giudici, lo scacciarono dalla città con la
doppia taccia di vagabondo senza carte e di mentecatto, facendogli ben
comprendere che soltanto la sua pazzia manifesta e provata lo salvava dalla
prigione. Del resto, si faceva a meno della sua presenza in quei luoghi; guai a
lui, se si fosse attentato di ricomparirvi.
Il diavolo, a capo basso e col
volto atteggiato alla più profonda mortificazione, diede le spalle per sempre
anche a quel territorio.
*
* *
Andando a casaccio per la terra
egli si lamentava seco stesso della propria imprudenza e della malvagità degli
uomini e ruminava un mezzo per vendicarsi di tutti. Alla fine credette di aver
trovato. «La donna», pensò, «è la fonte maggiore di gioie per l'umanità. Se io
potrò far sì che l'elemento femminile mi secondi, avrò raggiunto il mio scopo.»
Detto fatto, si finse ricco industriale a spasso e insediatosi in un magnifico
palazzo di non so qual capitale cominciò a promuovere una violenta propaganda
femminista. In breve tempo centinaia e centinaia di opuscoli, da lui scritti e
fatti stampare, circolarono per le mani delle donne. In essi si parlava della
schiavitù femminile, del servaggio ignominioso che un sesso aveva imposto
all'altro valendosi della forza fisica, si declamavano paroloni sulla dignità e
intelligenza della donna, ben superiori a quelle degli uomini per molti
rispetti. Infine si prometteva a quante, fra le lettrici, avessero aderito a
tali opinioni, un regno ideale, una meravigliosa regione, tutta per l'elemento
femminile, ed ove questo avrebbe trovato feste, gioie, indipendenza e tutti i piaceri,
che possono dare e chiedere il lusso e il capriccio più smodati.
In breve un numero straordinario
di lettere piovve nel palazzo del diavolo. Mille segretari erano incaricati di
riceverle e di rispondere, indicando la località concessa come regno alle donne
e le vie che ad essa guidavano. In pari tempo il diavolo telegrafò in inferno
che si spegnesse il fuoco punitore, si desse una ripulitura agli stucchi e agli
specchi, si aprissero grandi negozi di mode e di novità, e infine si
rimettessero a nuovo, per mezzo di docce fredde e massaggi, quelle povere anime
dannate, un po' consunte dal continuo calore. Una vera coorte di donne
cominciò, allora, a invadere il vasto dominio del re delle tenebre. Eran mogli,
che abbandonavano il talamo, fanciulle, che fuggivano la famiglia, vecchie, che
piantavano in asso i mariti decrepiti. Tutti correvano al richiamo seducente.
In pochi anni la terra si spopolò completamente di donne e se ne popolò
l'inferno, con grande soddisfazione dei dannati, che rivestiti e ripuliti si
davano alla pazza gioia innanzi a un simile inaspettato banchetto.
I poveri uomini, rimasti soli
sulla terra, languivano nella più miserabile condizione e finivano col darsi in
braccio ai vizi più disordinati e pericolosi e, a poco a poco, morendo, andavano
a raggiungere nell'eterna dannazione le spose, le madri e le figliuole. In un
secolo o giù di lì il mondo civile rimase deserto e abbandonato dal genere
umano. Già si vedevano le bestie, lupi, orsi, cani vagabondi, spingersi
curiosando nell'interno delle città silenziose e adocchiare ancor con sospetto
le finestre vuote, le strade melanconiche e i palazzi, ove ragnatele e tribù di
sorci avevano preso il posto dell'umanità. E già le scimmie, montate in
superbia, si erano impossessate di alcune capitali e vivevano beatamente
costituendosi in società, tentando di adottare gli usi e i costumi degli uomini
e di leggere per quei molti libri, che questi avevano lasciati loro in eredità.
Qualcuna, più ardita e più intelligente, abbozzava già progetti di leggi e con
gli occhietti irrequieti e penetranti si raffigurava seduta sovra un trono,
orgogliosa e autoritaria, o a capo di un grande esercito scimmiesco alla
conquista di una napoleonica gloria.
Il diavolo gongolava tutto e si sorprendeva
spesso a guardare il cielo in aria di sfida. Da un pezzo, però, non avea più
rivista la sua regione. L'inferno reclamava il sovrano, il quale, dal canto
suo, cominciava a pensare con tenerezza al focolare domestico e a quella lunga
pipa annerita, che pendeva sul caminetto di casa sua e ch'egli aveva rubata ad
una buon'anima di studente tedesco.
*
* *
Infine, si decise al ritorno.
Gettò un'ultima occhiata sulla terra e vide che, tranne qualche tribù
selvaggia, nulla più rimaneva del genere umano sulla sua superficie. Allora,
armatosi di quell'aria grave, che assumono i metafisici dopo aver risolto un
problema trascendentale, con a mano la valigetta e l'ombrello sotto il braccio
prese a rifare le vie, che conducevano all'inferno.
Man mano ch'egli si avvicinava,
sentiva una strana inquietudine impadronirsi del suo animo. Ad accrescerla si
aggiungeva la vista di qualche figura sospetta, ch'egli, ad ogni svolto di
strada, incontrava. «Certo», pensava aggrottando le sopracciglia, «questi visi
di seminaristi, che pullulano intorno al mio regno, appartengono ad angeli
travestiti, inviati da babbo Eterno a spiare e a riportargli ciò, che si va
facendo nei miei paesi.» Tuttavia questo pensiero non lo tranquillizzava. Era
troppa la soddisfazione, ch'egli leggeva nel volto di quegli angelici
viandanti. A un gomito della via vide un vecchio, seduto sovra una pietra, il
quale teneva fra le mani una grossa chiave e si sforzava di toglierle la
ruggine con aria di cor contento. Quando colui udì il passo del diavolo alzò il
capo e, accarezzandosi la lunga barba bianca, sorrise gentilmente. Poi, tornò a
lavorare intorno alla chiave.
Tutto ciò turbava il demonio
terribilmente. Ma già le mura dell'inferno si drizzavano all'orizzonte e le sue
bronzee porte, ermeticamente chiuse, rilucevano come scudi d'oro sotto i raggi
del sole. Il diavolo scosse il capo e proseguì il cammino, fischiettando. Ma
che è? Un'illusione dei sensi? Come a ondate gli perviene al naso un certo
profumo, che si giurerebbe d'incenso, e gli suona intorno alle orecchie un'eco
monotona e lamentosa, come di gente che canti le litanie. Il diavolo affretta
il passo. L'odore si fa più distinto, le voci si rafforzano, il canto si spiega
chiaro: è veramente un canto di chiesa, intonato da voci maschili.
Il diavolo, ora, corre per la
via polverosa. Giunge al portone, batte. Il frastuono interno di quella nenia
copre il rumore dei colpi. È un'ossessione, un'espressione spaventosa di
sincerità di mille anime in pena, inneggianti al Creatore. Il diavolo batte di
nuovo. Infine, un diavoletto viene ad aprirgli. Un diavoletto? Ma chè! È questo
l'antico portinaio, il maligno ministro del suo sovrano? Ohibò! A malapena
qualche tratto dei lineamenti ricorda l'antica fisonomia. Su tutta la persona,
sul viso, nell'espressione degli occhi si è diffusa come una nebbia di
untuosità e di sacrestia.
Il diavolo non resiste, gli dà
uno spintone. Quello casca. Perdio, ha la chierica! Prosegue, precipitando il
passo. Dinanzi a lui, ora, è la vasta spianata dell'inferno. Migliaia e
migliaia di uomini, inginocchiati, la ricoprono. Su tutti va ondeggiando una
nube d'incenso, il cui odore penetrante per poco non soffoca il demonio. Dalle
gole di quegli umiliati esce alto e melanconico il salmo liturgico. Fra i
prostrati il diavolo riconosce perfino qualche spirito maligno, ora trasformato
da un'aria di compunzione e di beatitudine. Ne prende uno pel collo, lo scuote,
gli urla in faccia mille domande. Quello, zitto. Ed ecco, un frastuono di voci
femminili, discordanti e aspre, si diffonde a coprire le voci degli uomini. Un
torrente di donne infuriato si precipita, si rovescia sulla piazza. Le megere
si avventano sugli uomini inginocchiati e tentano di trascinarli via,
battendoli e ingiuriandoli. Quelli raddoppiano il canto e le preghiere, alzando
gli occhi al cielo e colpendosi il petto col pugno chiuso.
Il diavolo rimaneva inebetito
innanzi alla scena. A toglierlo dal suo stupore uno degli oranti gli si fece
vicino e gli mormorò all'orecchio: «Così è, vecchio mio! Tu volevi giocare
d'astuzia e sei stato preso nelle tue stesse reti. Or via, non hai mostrato
troppo buon senso, confessalo, diavolone che sei! Non hai capito che,
concedendo alle donne la supremazia, le parti si invertivano, con grave
discapito degli uomini, che trovavano padroni ben più dispotici di quanto
fossero stati essi stessi nel passato. I poveretti, messi in simili condizioni
di debolezza, era logico che s'attaccassero, come ad unica ancora di salvezza,
alla fede, alla religione ed alla speranza in Dio. Una stretta di mano, buon
diavolo, e ricordati della lezione!»
Due magnifiche ali di cicogna
gli si drizzarono sulle spalle. Diede contro il suolo un colpo di calcagno e si
innalzò per l'aria, travolgendo dietro di sè l'innumerevole torma dei
supplicanti, aspirata verso l'alto come da una poderosa attrazione di pompa.
Ben presto l'enorme grappolo umano dileguò nella luce diffusa del sole. Il
diavolo rimase, solo rappresentante del sesso maschile, fra mezzo all'orda
delle donne imprecanti, che, dopo aver guardato salire al cielo e sparire
l'elemento un tempo forte della società, si gettarono addosso a lui colmandolo
d'ingiurie e di colpi.
Ma l'aggredito scagliò in testa
alla prima furia la sua valigetta, gettò l'ombrello fra i piedi della seconda
e, cacciatesi le mani nei capelli, affidò la propria salvezza alle gambe.
|