— Venga questa sera, mi disse la
signora Guicci; faremo un po' di musica e proveremo il boston.
E poichè, col fine intuito che
contraddistingue le donne, aveva letto nei miei occhi la poca simpatia, che
m'inspiravano i divertimenti offerti alla mia immaginazione, soggiunse in tono
misterioso:
— Senza contare che la
presenterò al maestro Pèpere.
Avevo sentito parlare molto e da
molti del maestro Antonio Pèpere come del personaggio più curioso di quella
città di provincia. Nell'ambiente di noia e di chiacchiere, che caratterizza la
vita provinciale, la figura del maestro pareva si profilasse come una bizzarra
oasi sopra un deserto di sabbie. La città era settentrionale; ma il maestro, a
quanto m'avevan riferito, era il più puro tipo di meridionale in genere e di
napoletano in specie. La prima era sciocca, pretensiosa, vuota d'anima e di
movimento; il secondo, invece, possedeva molto spirito, bontà ed altri ottimi
requisiti. Tuttavia la città e il maestro pareva andassero d'accordo. Si
sarebbe giurato, da lontano, che lì sotto giuocasse un po' di magìa; da vicino,
sempre secondo i discorsi che m'avevan tenuti, si spiegava facilmente il
fenomeno. Don Antonio aveva conquistata la benevolenza dei suoi compaesani
d'occasione a forza di tatto, di prudenza e, diciamolo pure, d'originalità. Non
dava ombra a nessuno, non parlava male neanche delle mosche, non si urtava
contro alcuna di quelle forze latenti e spesso ignorate, che si sprigionano al
minimo contatto brutale dal temperamento generale, astioso e diffidente, dei
provinciali. Perciò, s'era conquistata la popolarità nel senso più elevato
della parola.
Questo ritratto, messo su con
l'unione di cento informazioni particolari, mi aveva posto in curiosità di
conoscere personalmente l'originale. Perciò, sebbene fossi molto restìo a
subire le conversazioni agro-dolci di un salotto ed a prendere parte ai così
detti trattenimenti familiari, quella sera mi recai di buon animo al
ricevimento della signora Guicci.
Giunsi un po' presto e dovetti
sorbirmi, come antipasto, l'audizione di tre o quattro notturni e di
altrettante barcarole, che una signorina, armata di buona volontà, pestava come
invasata sopra un rumoreggiante pianoforte. Ero intento a seguire con sguardo
ansioso i movimenti di due agili mani sulla tastiera, che sembrava poco
contenta di quei continui e bruschi contatti, allorchè sentii una voce
femminile mormorarmi all'orecchio:
— Ecco il maestro!
Mi volsi improvviso. In quel
momento un signore varcava la soglia del salotto, asciugandosi la fronte con un
fazzoletto. Aveva una faccia bonaria, larga e grassa, due occhi limpidi, un po'
irrequieti, protetti da un paio di lenti profondamente piantate sul naso
carnoso, e due baffoni color di carota, ripiegati sulle labbra a guisa di
ornati. Quando tolse il fazzoletto dalla fronte, scorsi un cranio rotondo e
completamente calvo, sul quale, come sopra un terso cristallo, si
rispecchiavano le fiammelle dei lampadari. A completare il ritratto aggiungerò
che il suo corpo era panciuto e voluminoso e che le sue braccia si muovevano
continuamente con gesti lenti e un po' teatrali.
— Un vero compaesano?, chiese
con voce sonora e profonda dopochè la padrona di casa mi ebbe presentato a lui
come napoletano.
Avanzò una mano grassoccia e
sudata e strinse la mia, che si tendeva fraternamente, indugiando nella posa.
— Che caldo!, soggiunse subito
sorridendo e scrutando con gli occhi gli angoli della stanza. Non seppi che
rispondere e mi limitai a mormorare con accento rassegnato:
— Già! Che caldo!
Un gruppo di ragazze avviluppò
il maestro Pèpere, togliendolo alla mia compagnia, ed un coro di voci giovanili
lo tempestò di domande.
— Maestro, suona qualcosa di suo?
L'ha promesso, non ricorda? Suoni «L'ultima burla di Pulcinella!».
Il buon Pèpere alzò la mano,
armata di nuovo del fazzoletto, passò questo sull'ampia fronte imperlata di
sudore, poi si mise a ridere. In parola d'onore, non avevo mai intesa prima d'allora
una risata così schietta e rumorosa! Pareva lo sfogo di un temperamento
veramente allegro, che si compiaccia nel comunicare agli altri la propria
gioia.
Non l'ho ancora detto? Il
maestro Pèpere era professore di musica e canto e compositore a tempo perso.
La signora Guicci mi s'era
avvicinata di nuovo.
— Che ne pensa?, mi chiese.
— Molto simpatico, risposi senza
esitare.
— Lo prevedevo. E Lei non sa
ancora nulla. Quell'uomo ha nel cuore un vero tesoro di bontà. Alle volte, è
vero, si lascia trascinare a certe sfuriate, che paiono uragani; grida e
tempesta con le sue scolare come potrebbe fare il professore più burbero e più
maleducato. Ma subito si ripiglia e si pone a ridere in quel suo modo speciale,
che al pari di un buon vento spazza via ogni densa nube. Nessuno, neanche le
sue scolare più testarde e orgogliose, potrebbe offendersi per quegli scatti e
tanto meno serbar rancore.
— Ha gli occhi maliziosi e
l'espressione del viso ingenua come quella di un bambino, osservai sottovoce.
— E vero: l'ha caratterizzato
molto bene. È un fanciullone furbo. Ha portato con sè dal suo paese pieno di
sole e di bellezza un sentimentalismo un po' puerile, ma dolce, un modo di
considerare la vita e gli uomini tutto soggettivo, a impressione. Ma tiene in
riserva, per sua difesa, un fondo d'astuzia non comune. Pochi si accorgono di
questa sua qualità; ma a noi donne non può sfuggire. Dicono che sia capace di
profonde affezioni e di sacrifici illimitati per chi riesca a piacergli. Ma io
credo che, in generale, dinanzi agli indifferenti ed alle semplici conoscenze,
egli si conservi freddo e cauto e sia pronto ad approfittare in proprio
vantaggio dei loro difetti. Ma la piacevolezza della sua conversazione e più
ancora il timbro delle sue risate lo fanno sembrare amabile a tutti. E un
carattere molto complesso sotto un'apparenza di semplicità. Ne giudichi da
quest'aneddoto. Un giorno, in compagnia di quattro o cinque giovanotti, entra
in una pasticceria, prende un dolce e, volgendosi agli altri, dice con voce
animata ed in tono cordiale: Servitevi, servitevi; mi fate piacere. Tutti
approfittano dell'invito, ma all'atto del pagare vedono il buon Pèpere sborsare
tranquillamente la propria parte e attendere con serenità olimpica che anche
gli altri compiano il loro dovere.
— Oh, la cosa si spiega, dissi:
il maestro è una natura esuberante, che ama la compagnia anche nel mangiar
dolci. Il suo bisogno di far partecipare gli altri ai propri godimenti lo avrà
indotto all'invito, ma ad un invito senza sottintesi, come si pratica fra persone,
che si comprendono. Soltanto, aveva da fare con settentrionali chiusi e
cerimoniosi e quelle sfumature di sentimento non poteva trovare chi le
intuisse.
— Vuole un altro aneddoto? Il
maestro non è ricco; al contrario, le sue lezioni gli fruttano appena di che
vivere. Ma ogni sera sente il bisogno di trascorrere qualche ora in un caffè a
vuotare una bottiglia di vino e a giuocare. Siccome è molto metodico, mi han
detto che invariabilmente al mattino pone da parte i soldi, consacrati al suo
capriccio innocente. Credo che non potrebbe vivere senza quel vino. Una sera un
amico lo ferma sulla soglia del caffè e gli chiede un prestito, che lo salvi da
impegni urgentissimi. Il maestro rovescia le tasche, apre il portafogli e mette
quanto possiede nella mano del richiedente. Per un mese non lo videro più al
ritrovo serale. Il bilancio non gli permetteva di soddisfare l'unico piacere
della sua vita. I suoi conoscenti temevano che ne facesse una malattia, tanto
era diventato nervoso e intollerabile in quel tempo. Ma nessuno lo udì mai
pronunciare una parola amara contro il debitore o di rimpianto per il denaro,
che s'era involato dalla sua borsa. Al contrario!
— Brav'uomo! esclamai.
Dev'essere facile contrarre amicizia con lui.
— Non tanto! Ha più bisogno,
forse, d'ammiratori che di amici. Perciò si circonda di conoscenze,
specialmente di giovanotti, compiacendosi nella loro compagnia e discorrendo
continuamente. Quanti lo avvicinano pendono dalle sue labbra e ne imitano i
gesti più insignificanti, quasi fosse un nuovo Socrate. Ed egli ne va lieto e
cerca di estendere sempre più la cerchia dei suoi discepoli. Ha cinquant'anni,
ma possiede ancora un temperamento di venti.
Frattando l'oggetto della nostra
conversazione s'era avvicinato al piano, fra un nugolo di signorine. Lo vidi
sedersi tranquillamente e far scorrere le dita sulla tastiera, mentre il suo
faccione s'alzava verso il soffitto, il suo corpo si dondolava ritmicamente e
gli occhi scorrevano per la sala quasi volessero leggere l'impressione dei
suoni su quei visi attenti. Suonava molto bene, con animo, un po' lentamente,
velando con una leggera nube di melanconia i brani musicali più gai.
Nell'uscire dal salotto mi prese
per un braccio e mi chiese:
— Vogliamo far due passi
insieme?
Da quella notte una viva corrente
di simpatia si stabilì fra noi due.
*
* *
Benchè vivessi, ormai, in molta
famigliarità col maestro Pèpere, qualche volta lo trovavo stranamente ostile
verso di me. Appunto nei momenti di maggiore abbandono egli soleva staccarsi
bruscamente dal mio braccio e, dopo avermi guardato con un'espressione quasi di
rabbia, allontanarsi frettoloso con un breve cenno di saluto. Sapevo ch'era un
po' superstizioso ed avevo osservato che non si toglieva mai dalla catena
dell'orologio un grosso corno d'avorio, che spiccava come una virgola
sull'ampio panciotto. Una volta gli chiesi all'improvviso:
— Maestro, avete paura ch'io vi
metta il malocchio?
Diede in uno scossone e spalancò
gli occhi; poi chinò il viso verso terra, mormorando:
— No, no; perdonatemi!
Lo strinsi di domande e finii
con l'ottenere da lui la spiegazione, che cercavo.
— Sentite, mi disse. A voi posso
parlare a cuore aperto. Ho paura di diventarvi troppo amico, ve lo confesso
senza complimenti.
— E che male ci sarebbe, gli chiesi,
dal momento che anch'io mi sento così legato alla vostra persona?
— Oh, per voi non c'è pericolo!
Ma io... io...
Tacque un istante; poi mi prese
a braccetto e mi condusse fino ad una panchina solitaria. Dopo che ci fummo
seduti, cominciò a parlare a voce bassa:
— Sapete? Non sono jettatore:
oh, così lo fossi! Sono jettato, invece; ho il malocchio sopra di me. Nessuno
di quanti mi avvicinano deve aver timore di me; ma io, io solo ho paura, poichè
se m'affeziono sono un uomo rovinato. Gli unici tempi felici della mia vita
sono stati quelli, nei quali non ho avuto nessun legame d'amicizia o d'amore.
In quelle epoche le cose andavano a gonfie vele: ero tranquillo, non provavo
dolori, vedevo la vita sotto un color di rosa. Ma guai se m'affezionavo a qualcuno.
La maledizione si rovesciava sopra di me. Vi racconterò tutto, poichè vi so
capace di comprendermi. Ogni mia sventura è derivata da questo strano
malocchio, che mi prende quando voglio bene a qualche creatura. Gli altri,
intorno a me, sono felici; ma io soffro le pene dell'inferno. Ho dei ricordi
terribili nella mia esistenza; se sono un disgraziato, che campa delle proprie
lezioni, lo devo appunto alla jettatura, che esercitano sopra di me le mie
stesse affezioni. Mio padre era un povero portinaio di Napoli. Con molti sforzi
mi fece frequentare le scuole tecniche. Ma fin d'allora avevo un'invincibile
attrazione per la musica; ho imparato da me a suonare, componevo anche dei
pezzi e li facevo sentire a qualche maestro di concerto, che m'incoraggiava. Ma
sopra ogni cosa amavo mio padre: quel buon vecchio era tutto il mondo per me.
Quando si trattò di scegliere un mestiere, mio padre mi scongiurò di non
volermi rovinare l'avvenire seguendo le mie chimere. Egli non aveva fiducia
nell'arte e non poteva tollerare il pensiero di sapermi occupato nelle note
musicali, che, secondo lui, non davano pane. Badate che appunto a quell'epoca
un noto professore di canto m'aveva promesso un posto gratuito nel
Conservatorio di S. Pietro a Majella. Tuttavia rinunciai alle mie speranze e mi
posi a un mestiere. Quanto ho sofferto in quei momenti! Ma, pur di soddisfare
mio padre, piegai il capo e dimenticai i miei sogni. Più tardi, allorchè il
buon vecchio morì, mi trovai con un mestiere antipatico fra le mani e piansi
tutte le mie lagrime pensando all'avvenire, che avevo perso. Vi parranno
illusioni le mie! Eppure, credo che sarei riuscito a qualcosa, se avessi
continuato a studiare la musica. Per fortuna, a togliermi dal mio sconforto
venne la leva. Fui incorporato in una banda militare e potei sfogarmi un poco
con la mia arte prediletta. Ma ormai era troppo tardi per cominciare qualche
studio serio. Appena preso il congedo, mi dedicai con pazienza a lunghi studi
teorici e riuscii ad ottenere il diploma d'insegnante. Ma avevo perso i miei
anni migliori e non potevo più pensare a rifarmi un avvenire. Da allora
guadagnai più o meno bene da vivere senza sperar più di togliermi dal mio umile
stato. Badate! Non mi pento di quanto ho fatto; ho ancor viva nell'anima la
memoria di mio padre e non vorrei turbarla con rimpianti. Da compositore a
maestro di musica è un bel salto, non è vero? Ma, che volete?, ne ha colpa il
malocchio!
Diede in una risata, che mi
sconvolse come un grido di dolore; poi continuò:
— Se volessi raccontarvi tutti gli
scherzi del malocchio, ne avrei per un anno. Ogni volta che ho posta la mia
affezione in qualcuno, mi son visto colpire dalla sventura. Ma ho sempre
sorriso, sapete?, ed ho scossa la testa. Soltanto, man mano che avanzavo negli
anni ponevo ogni mio studio nell'eliminare le cause d'ogni viva simpatia. Per
questa ragione in qualche momento sono stato brusco con voi. Mi perdonate?
Gli tesi una mano, ch'egli
strinse fra le sue con un lieve tremito nelle dita.
— Anche le donne, chiesi,
v'hanno fatto del male?
— Sono stato innamorato soltanto
una volta nella mia vita. Dopo, ho fatto forza a me stesso. Avevo bisogno di
una creatura, che mi guardasse fiduciosa e sorridente e mi affidasse la sua
piccola anima. Ma il terrore del ricordo vinceva in me ogni stimolo a contrarre
relazioni con donne.
— Dite, dite, maestro!
— È la memoria più dolorosa
ch'io abbia; ma ve lo racconterò lo stesso. Quand'ero soldato musicante mi
recavo ogni festa a suonare con la banda nel giardino di Salerno. Dalla caserma
al giardino c'era una via piuttosto stretta e solitaria. Ma a me sembrava la
strada del paradiso, poichè avevo osservato che dalla finestra di una casa, al
nostro passaggio, si sporgeva invariabilmente un fresco visino di fanciulla a
seguirci con l'occhio sino allo svolto. Che volete? Ero giovane e un po'
fantastico: finii con l'interessarmi a quella piccina e col chiedermi perchè
stesse in casa, mentre le altre ragazze uscivano a passeggiare ed a divertirsi.
Mi dissero ch'era la figlia di un usciere del tribunale e che la madre, una
specie di zingara secca e priva d'ogni sentimento, la obbligava a lavorare
continuamente. Provai un po' di compassione e cercai di parlare alla fanciulla.
Pensate: io avevo ventidue anni, essa diciotto. Ci intendemmo facilmente e
cominciammo un idillio, reso ancor più caro dalle astuzie, che dovevamo mettere
in opera per ingannare la madre. Ho passato momenti dolcissimi con quella
ragazza: parlavamo del nostro amore e dell'avvenire, che la gioventù ci faceva
sembrare facile e roseo. Qualche volta scambiavamo rapidi baci, che facevano
arrossire la fanciulla e battere al mio cuore una marcia. Una sera la incontrai
per strada a braccetto con un giovanotto; le diedi un'occhiataccia e vidi che
abbassava il capo. Appena ci trovammo insieme: «È mio cugino», mi disse: «è
tornato dall'America e vuol stabilirsi a Salerno». Dapprima non volli curarmi
di quel parente giunto così all'improvviso; ma a poco a poco dovetti accorgermi
che la ragazza si mostrava sempre più fredda verso di me e non mi concedeva più
le sue labbra. Sentivo d'amarla con tutta la furia e la forza della mia
gioventù; ne avevo fatto un idolo al mio cuore, avevo riposte in lei tutte le
mie speranze ed i miei sogni d'avvenire. Avrei baciata la terra, che
calpestavano i suoi piedini; sarei rimasto ore e ore sotto le sue finestre a
contemplare i vetri della sua cameretta. Ma, malgrado la cecità dell'amore,
finii con l'insospettirmi e col meravigliarmi di quel cambiamento. Una sera la
strinsi di domande, mi buttai ginocchioni dinanzi a lei, scongiurandola di
volermi dire la verità. Me la vedo ancora davanti, pallida e tremante, con gli
occhi smarriti e appannati da qualche lagrima. «Oh, Antonio», mi disse
coprendosi il volto con le mani e singhiozzando: «perdonatemi, per carità!».
«Che c'è», urlai! «che cosa ti devo perdonare?». Essa mi guardò con
compassione, poi mormorò: «So quanto mi amate; ed anch'io v'ho voluto molto
bene! Ma ho paura, adesso, di non potervi più parlare!». «Perchè? Perchè?», la
interruppi. «Perchè amo lui, mio cugino!». L'afferrai per un braccio, la
costrinsi a piegarsi sotto la mia stretta. Ma essa mi guardò supplichevole,
dicendo: «Perdonatemi, Antonio; sarò vostra lo stesso, se vorrete, poichè ho
impegnata la mia fede con voi, ma ne morrò di dolore!». La sua felicità, la sua
felicità sopra tutto! Sentivo l'impulso di ucciderla; ma mi dominai. Le volevo
troppo bene; e poi, mi faceva tanta pena quel visino bagnato di pianto! Essa
doveva essere felice, a qualunque costo, non è vero? Che importava che i miei
sogni fossero distrutti d'un colpo, che importava ch'io mi trovassi di nuovo
solo, abbandonato, con l'animo pieno di dolore? Purchè lei vivesse, purchè
fosse felice! «Sei sicura d'amarlo?», le chiesi. Abbassò la testolina
susurrando: «Oh, sì!». «E tu sposalo!», urlai. Poi fuggii all'impazzata per le
strade. Lo credete? Quella notte meditai il suicidio. Ma le avrei dato troppo
dolore, avrei pesato come un rimorso nella sua esistenza! E vissi. Ma da allora
non badai più alle donne. Ed ho cinquant'anni!
Volse gli occhi su di me, che lo
ascoltavo attento; poi si alzò, dicendo:
— Vedete! È sempre il malocchio!
Non mi posso affezionare!
Diede in un'altra risata, che
suonò ancor più tormentosa della prima, e cominciò a camminare. Io lo seguii
meccanicamente, con l'animo scosso dalle confessioni, che avevo udite.
Prima di accomiatarsi da me, il
maestro mi disse:
— C'è un solo rimedio contro il
malocchio, che mi pesa addosso. Me l'ha insegnato una sonnambula; ma fin'ora è
andato a vuoto. Bisognerebbe che diventassi jettatore a mia volta e che
producessi qualche danno a quelli, che mi sono affezionati. Ma non c'è mezzo!
Ho sempre visto gli altri felici e mi son sempre trovato disgraziato lo stesso.
È il destino!
Sorrise e mi strinse la mano.
*
* *
Un giorno il maestro Pèpere
m'invitò a pranzare con lui alla «mensa». La mensa era una specie di pensione,
dovuta all'iniziativa del mio amico, che aveva raccolto intorno a sè una
diecina di giovanotti più ricchi di speranze che di denaro. Provai
un'impressione nuova e gradevole a quel lungo tavolo, intorno al quale sedevano
i tipi più disparati. Ricordo un tenente contabile, che raccontava freddamente
le avventure amorose più inverosimili e più in contrasto con la sua faccia
tranquilla di brav'uomo. C'era anche un professorino di francese con un visetto
ingenuo e colorito, sperso in una barba a punta: era quello che mangiava più di
tutti, benchè fosse il più piccolo. Durante il pranzo era un diluviare di
frizzi, di satire, di chiacchiere, interrotte di quando in quando dalle risate
rumorose del maestro che, a capotavola, sedeva come un re sul suo trono.
Tornai parecchie volte in quella
casa. Mi divertivano, sopra tutto, i sospiri del professorino innanzi alle
porzioni troppo limitate e le rabbie di don Antonio, che ogni tanto, per non
perdere l'abitudine, dava in una sfuriata contro la padrona. Costei era una
vecchietta tutta grinze e nervi, con due occhi azzurri e irrequieti, quasi
soffocati nell'invasione di rughe, che le distruggeva i lineamenti. L'aiutava a
servire i pensionanti una figlia, ragazza sui quattordici anni, dai capelli
rossi, dalle carni fresche e rosee e dai dentini bianchi e fitti, che si
mostravano spesso nella risata. Pareva un bel frutto maturo, nel quale si
sarebbe dato volentieri un morso come in una pesca vellutata. Mi accorsi subito
che il maestro Pèpere la sorvegliava gelosamente, e glielo dissi. Si pose a
ridere e mi rispose:
— Sapete? La tengo come una
figlia. Forse un giorno l'adotterò, poichè in quella casa so che si trova male.
Sgridate e lavoro, null'altro!
A dire il vero era lui il primo
a sgridarla ed a tuonarle dietro, ad ogni minimo sbaglio, con un vocione da
orco il suo epiteto favorito: Salame!
Lì dentro, anzi, tutti la
chiamavano con quel nome, provocando in lei un'allegria di fanciulla sana, che
le faceva aprire le labbra carnose e mostrare l'avorio dei denti.
— Attento, don Antonio!, dissi
un giorno al maestro. Badate a non affezionarvi troppo, chè potreste incontrare
di nuovo il malocchio!
— Avete ragione!, mormorò in risposta
il mio amico. Ma ormai ci sono abituato!
— E se diventaste jettatore a
vostra volta?, continuai ridendo.
Rise anche lui:
— Sapete? Sarebbe l'unico modo
per non essere più jettato.
Notai in quel tempo nel maestro
Pèpere una preoccupazione sempre crescente, che gli turbava la bella faccia
serena e lo rendeva nervoso.
— Che avete, maestro?, gli
domandai un giorno.
— Volete saperlo? Ho il
desiderio d'adottare davvero quella bambina; ma non oso. Ho paura che succeda
una disgrazia.
— Ubbìe! Adottatela e guarirete!
La sera andai a cenare alla
mensa. Don Antonio si mostrava più allegro del solito, pur non tralasciando di
brontolare di quando in quando contro la sua protetta. Ma pronunciava quel
titolo «Salame!» con un tono così dolce, da far quasi venire le lagrime agli
occhi a me, che sapevo le sue intenzioni. E poi, la covava con lo sguardo con
un'espressione amorosa e paterna, che non sfuggiva alla mia osservazione.
Al domani mi disse solennemente:
— Ho parlato con la madre e con
la figlia; sono entrambe contente. Così, questa sera dovete essere ancora dei
nostri e prender parte ai brindisi, che ho intenzione di fare.
Era felice; il suo faccione
onesto si rischiarava come una luna piena. A cena annunciò ai commensali la sua
risoluzione, che fu accolta con un'ovazione generale. Allorché furono poste in
tavola le bottiglie, offerte da don Antonio, l'allegria cominciò a prendere un
gigantesco sviluppo. Intanto la fanciulla, rossa in viso e sudata,
s'affaccendava intorno ai pensionanti, schermendosi come meglio poteva dai loro
complimenti e dalle loro carezze affettuose. La padrona di casa, per chiudere
la serata, offrì il caffè sul terrazzo. Il maestro Pèpere s'affrettò a
segregarsi in un angolo di questo, tenendo sulle ginocchia la sua nuova
figliuola, che con i capelli scomposti e svolazzanti alla brezza notturna e con
gli occhi luccicanti pareva la raffigurazione della felicità.
Pochi giorni dopo trovai per la
strada don Antonio, pallido ed abbattuto. Camminava curvo, scuotendo la testa e
borbottando.
— Che v'è successo, maestro?,
gli chiesi.
— Sapete? La sonnambula aveva
ragione. Son guarito dal mio malocchio, diventando un jettatore.
— Perchè? Perchè?
Si passò il fazzoletto sulla
fronte, poi mormorò:
— La mia figliuola adottiva è
moribonda.
Provai come un urto nel cuore e
balbettai:
— Che dite? Cos'è accaduto?
— Ha presa una polmonite doppia
e va struggendosi come cera.
Si allontanò rapidamente, senza
salutarmi, con la testa china verso terra e le spalle piegate.
La sera andai alla pensione e
trovai la padrona in lagrime. Mi fece entrare in una cameretta, ove scorsi
sopra un lettino il corpo della fanciulla, bianco e immobile.
— È morta?, urlai.
Al mio grido, dall'ombra sorse
il viso del maestro, livido e tremolante.
— Vedete?, suonò la sua voce:
non ho più il malocchio e devo ringraziare questa creaturina.
— Non dite così, non dite così,
maestro!
— Che importa!, mormorò.
Purch'io sia felice!
Diede in una risata stridula,
poi s'accasciò di nuovo nell'ombra.
Baciai la povera morticina sulla
fronte ghiacciata, poi m'avvicinai al maestro e lo scossi.
— Su, su, don Antonio; non vi
abbattete così. Non è colpa vostra, dopo tutto!
Mi fissò con occhi stralunati e
si drizzò con l'ampio corpo.
— Avete ragione, disse; è il
destino!
Lo trascinai quasi a forza fuori
di quella casa. Quando fu in istrada, mi strinse per un braccio e borbottò:
— Bisogna che mi rimetta. C'è
ricevimento domani sera in casa Guicci, e m'hanno invitato a suonare.
*
* *
Durante tutto il giorno seguente
non potei trovare il maestro Pèpere nè alla pensione nè in casa. L'inquietudine
sulla sorte del mio amico m'indusse a recarmi al ricevimento della Guicci. In
poche parole misi al corrente dell'accaduto la brava signora e la informai
della risoluzione del maestro di venire a suonare nelle sue sale.
Quando don Antonio entrò, notai
che aveva il viso più infiammato del solito.
— Forse ha bevuto per distrarsi,
mormorai alla mia vicina.
Egli camminava lentamente fra
mezzo agli invitati, rispondendo con un sorriso ai saluti. Si diresse verso noi
due e venne a stringere gaiamente la mano della signora Guicci.
Poi si avviò al pianoforte,
sedette, cominciò a suonare. Sotto il tocco febbrile delle sue dita si
sprigionò una strana musica, piena di dolcezza e di malinconia. Quanti si
trovavano nella sala sentirono scorrere per il corpo i brividi di un'angoscia
misteriosa, poichè ignoravano la disgrazia del maestro. Tutti rimasero muti e
paralizzati, quasi sospesi nell'attesa di qualche avvenimento impreveduto. La
bizzarra composizione del maestro Pèpere si diffondeva per l'aria del salotto e
scendeva nell'anima come l'eco di un pianto lontano e inconsolabile, come il
gorgheggio di un uccello prigioniero che veda, di tra i ferri della gabbia,
volar alto nel cielo i suoi simili. Qualche signora piangeva; gli uomini
chinavano pensosi la testa.
A un tratto vidi il maestro
drizzarsi in piedi e rovesciare il capo all'indietro, sghignazzando. La signora
Guicci ed io fummo i primi a corrergli vicini. Ma egli ci respinse con un gesto
rude e urlò:
— Indietro! Sono un jettatore!
Poi scoppiò in un'altra risata.
Prima ch'io potessi sostenerlo,
lo scorsi barcollare e rovesciare pesantemente sul pavimento. I suoi occhi
ebbero ancora un lampo di luce, le sue labbra si aprirono ancora a un sorriso;
poi quelli si spalancarono, divennero opachi e fissi, queste sbiancarono come
se tutto il sangue del buon maestro Pèpere si fosse condensato nel suo cuore, a
spezzarlo.
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