Egli era giunto da molto tempo
nella città della nebbia; ma negli occhi serbava ancora la nostalgia di un
lontano paese più soleggiato. Nessuno conosceva il suo vero nome; i vagabondi e
gli straccioni, che vedevano passare quel bellissimo corpo di atleta, come
un'ombra di altri tempi, sotto la luce smorta dei fanali, si soffermavano
meravigliandosi, tentando di indovinarne il mistero.
Ma egli camminava, senza
guardarsi d'attorno, con un passo lento, muovendo mollemente i rotondi fianchi
di figlio del sole. Il suo volto era nascosto sotto la lunga e morbida barba
nera; la pelle era bianca e fine: e fini erano le mani, quasi di donna,
affilate e nervose. Sulle spalle ricadevano i capelli in ciocche diffuse come
una nube, e si arruffavano su l'ampia fronte quasi fino a coprire gli occhi
torbidi e inquieti.
Era un magnifico modello di
vagabondo, col suo robusto corpo mal protetto da un vecchio abito stinto di
marinaio. Rideva qualche volta, mostrando due file di denti bianchi e sani. Chi
sentiva la sua risata, provava un brivido di raccapriccio, come se nella notte
gli fosse pervenuta all'orecchio la sghignazzata lontana di una jena. Quando
egli cantava, nelle tenebre, i borghesi rincasanti e gli straccioni si
arrestavano avvinti dal senso indefinibile di accoramento, che si rivelava
nelle sonorità di quella gola, ove a volte pareva piangesse un bambino, a volte
imprecasse un dannato.
La mattina il misterioso
vagabondo piegava i forti omeri e le braccia muscolose, aiutando, sul mercato,
questo o quel rivenditore a posar ceste, a fermare travi o ad inchiodar tende.
Poi, terminato il lavoro, si accucciava come una bestia selvaggia in qualche
solitario carro o in un angolo di cortile, sino alla notte. Al primo calare
delle tenebre, egli usciva dal suo nascondiglio, con lo sguardo basso e le mani
nelle tasche dei calzoni, a passeggiare indolente fra mezzo al brulichio delle
contrade e nella spessa umidità della nebbia. Di quando in quando il suo passo
si accelerava, le mani si alzavano ad accennare gesti di minaccia, le labbra
lasciavano sfuggire brevi gridi e parole smozzate.
Qual notturno beffardo, quale
straccione avvezzo allo scherno della miseria lo chiamò, per il primo, Re
Torbido? Forse a un poeta delle tenebre, a un nottambulo artista venne
spontaneo alle labbra un tal nome. Allorchè per la prima volta egli sentì
suonare all'orecchio quelle due parole, sorrise, annuendo con un gesto breve e
con un rapido volger d'occhi. Re Torbido!
Quale colpa aveva macchiata la
vita di quell'uomo, sì da costringerlo ad abbandonare il proprio paese soleggiato
per rifugiarsi nella nebbia e nella solitudine? Nessun vagabondo osava parlare,
se non a bassa voce e in crocchio di amici, di quel passato, che molti
intravedevano tenebroso. Sovra tutti, anche da lontano, pesava l'immagine di
quel volto rabbuiato e di quelle mani fini, ma piene di forza.
*
* *
Un giorno, Re Torbido trovò
finalmente un amico. Lo vide sulla porta di una bottega di erbivendolo e lo
riconobbe subito
— Sei tu, Arviò? Che fai?
Quello si volse impetuoso verso
di lui; poi si gettò con un «oh!» di meraviglia fra le sue braccia.
— È tuo?, chiese ancora il
vagabondo, accennando al piccolo negozio.
— Sì, proprio mio.
Un ometto magro e nervoso,
quell'Arviò, con gli occhi sporgenti come bulbi e il naso a punta, rubizzo.
— Sai, gli disse Re Torbido
smozzicando le sillabe; mi son dato anch'io al buono.
— Oh, e come?
— Lavoro.
Quando l'altro seppe del
soprannome, appiccicato all'amico, sghignazzò:
— Buono, buono, e bene
appropriato! Vieni dentro. Berremo insieme. E ti farò conoscere mia moglie.
Entrarono a braccetto nel
retrobottega. Dentro c'era, seduta, una donnina grassoccia, col naso birichino
e gli occhi azzurri. Stava scherzando con un grosso gatto e con un gomitolo di
lana. Appena vide entrare i due, si fece seria e si alzò.
Arviò spinse innanzi il
vagabondo, dicendo:
— Grazietta, c'è l'amico di cui
ti ho tanto parlato. Ora si è dato al buono. Sai? Lo chiamano Re Torbido, qui!
La donna mostrò i dentini fitti
in una breve risata. Poi si avvicinò al vagabondo e lo guardò, in silenzio, con
i suoi occhioni azzurri. Tentò ancora di ridere, allungò timidamente una mano a
raggiungere quella che le si tendeva, e corse a rincantucciarsi in un angolo
buio, col suo gatto.
— È un po' selvaggia, spiegava
Arviò all'amico; ma non quanto te!
Lo sguardo di Re Torbido
rimaneva fisso, con un incosciente stupore, su quel fresco viso di donna.
Per un pezzo il vagabondo non fu
più visto da Arviò. Infine, una sera capitò nel negozio. Da allora si fece
visitatore assiduo. A poco a poco diveniva più docile, meno irrequieto, meno
superbo. Qualche volta si attardava in quel retro-bottega, mentre Arviò dormiva
con la testa appoggiata al tavolo e Grazietta chiacchierava allegramente.
Intanto, nel quartiere
cominciava a correre qualche voce un po' dubbiosa su quella nascente intimità.
Dapprima le comari si riunivano in crocchio a commentare, come potevano:
trovavano da ridire sulla strana allegria di Re Torbido e sulle nubi di
tristezza, che a volte velavano il bel viso di Grazietta. Poi, fatte più
audaci, sobillarono anche gli uomini a parlarne. Qualcuno, perfino, osò
riferire le chiacchiere a Re Torbido. Il vagabondo fissò col suo sguardo torvo
chi gliene accennava; poi, volse le spalle fischiando.
*
* *
La vigilia di Natale, a sera, Arviò
vide passare rapidamente il suo amico innanzi al negozio. Gli urlò dietro:
— Dove vai? Fermati! Devo
parlarti!
Il vagabondo rifece la strada a
malincuore. Quando fu vicino ad Arviò, questo lo prese per un braccio e lo
spinse nella bottega, quasi a forza; poi chiuse le imposte e sprangò l'uscio.
— Che significa la commedia?,
chiese Re Torbido.
Ma l'altro lo guardò,
stralunato, mormorando:
— Siedi. Lì c'è dell'acquavite.
Bevine.
— Che vuoi da me?, rincalzò il
vagabondo.
— Avevo da parlarti, ti dico. E
giacchè mia moglie è fuori, meglio questa sera che domani.
Passeggiò nervosamente su e giù
per la stanza; poi si fermò innanzi alla tavola, afferrò la bottiglia
dell'acquavite e bevette un gran sorso.
Re Torbido, seduto
tranquillamente, con le gambe a cavalcioni, le mani strette alle ginocchia e il
petto appoggiato alla spalliera della sedia, accompagnava con uno sguardo
sprezzante i movimenti dell'amico.
Arviò non si risolveva a
parlare, ma continuava a passare su e giù innanzi al vagabondo, fermandosi solo
di quando in quando per bere. Infine, si lasciò cadere sopra una panca e
rivolse il volto verso l'altro. Re Torbido sbadigliava.
— Sai, amico?, suonò ad un
tratto la voce di Arviò.
A quell'urlo il vagabondo si
riscosse, e, tolte le mani dalle ginocchia, le strinse alla spalliera della
sedia, posando il mento sovr'esse. Gli occhi velati dell'erbivendolo erano,
adesso, lucidi e vivi, le sue mani avevano un tremito di febbre. Egli gridava,
con uno spasimo nella voce, ansimando:
— Vuoi portarmi via Grazietta; non
negare, non negare!
Re Torbido rise selvaggiamente,
poi si volse a furia, a rispondere:
— Che t'importa? Faccio quel che
mi pare. Tua moglie mi ama. E poi?
— Tu lo dici! Ma io non voglio,
capisci? È mia moglie, dopo tutto! La ho presa con me, per tenermela, e per
sempre!
— Bada Arviò; tu dici una
sciocchezza. Il «per sempre» è un di più. Se vuol venire con me, che c'entri?
— Me la vuoi rubare, dunque?
— Abbiam rubato tante volte in
due!
— Perchè? Perchè? Vuol
andarsene? Non sta bene, qui? La ho sempre tenuta come una santa!
— Capricci di donna. Glie l'ho
detto anch'io. Farai della fame con me; resta con tuo marito! Ma chè! Vuol
fuggire!
Si strinse nelle spalle; poi,
concluse:
— Siccome la amo anch'io, faccio
quanto essa vuole. Ti accomoda?
Arviò si era alzato, minaccioso:
— No, non mi accomoda. E tanto
meno da parte tua. Ti ho nascosto in casa mia per proteggerti da tuo padre,
ricordi? Ti ho ricoverato, nutrito per tanto tempo! Ti ho risparmiata anche la
prigione! E questa la tua riconoscenza? Cosi mi ricompensi?
Il volto di Re Torbido era
divenuto spaventoso. Un furore bestiale sconvolgeva i lineamenti vigorosi e un
bagliore d'inferno divorava quegli occhi, scintillanti fra mezzo allo spiovere
dei capelli.
— Ah! E così? È così?, ghignò.
Tu mi rinfacci il passato? Ma se ho accettato qualche cosa da te, si era perchè
tu offrivi da amico, non da padrone. Grazietta verrà via questa notte stessa!
Non c'è più niente da dire, su questo! E tu vieni a piagnucolarmi, a minacciare
perfino! Mi butti in faccia il passato! Porto una catena, forse? E con te!
Ripetilo! Con te! Con te! La spezzerò io, la catena!
Si era drizzato, terribile di
collera, pronto a slanciarsi.
Ma Arviò, con mezzo corpo
abbandonato sul tavolo, piangeva dirottamente.
Re Torbido lo guardò un istante,
poi sedette di nuovo. I suoi lineamenti si erano ricomposti, le sue labbra
avevano, adesso, una smorfia di disprezzo.
Arviò, intanto, singhiozzava:
— La ho amata tanto! E la amo
ancora! Mi ha fatto diventare onesto, mi ha tolto dalla mia miseria! E adesso!
E domani? Che farò, solo, abbandonato? Mi strapperò le carni a brani,
ridiventerò un ladro, un omicida! Oh, se tu sapessi, se tu sapessi! Perdonami!
Ti ho insultato. Ma non potevo, non posso tollerare l'idea di rimanere privo di
lei! Bisognerebbe uccidermi, prima!
Re Torbido ascoltava, col volto
pallidissimo. Il suo sguardo vagava inconsciamente per quella povera stanza, su
quella pace, rotta violentemente dalla disperazione di Arviò. A un tratto,
scosse il capo e si alzò.
L'amico si era accasciato sopra
la tavola; non aveva più la forza di piangere, ma mormorava ancora con un lungo
lamento di bambino:
— Senti, prenditi tutto il
resto, la bottega, i denari. Ma lasciami Grazietta! Non mi vuol più, è vero; ma
io la voglio ancora. La terrò come prima, anzi meglio di prima. Farà di me
quello che vorrà, purchè rimanga!
Il vagabondo guardò ancora una
volta l'amico, poi la stanza.
— Aprimi, disse.
L'altro alzò pauroso il viso
bagnato di lagrime e ancora scosso dalle convulsioni del singhiozzo.
— Dove vai?, chiese titubando.
— Fuori, all'aperto!
— Tornerai qui?
— Non lo so. Apri!
Arviò si rimise in piedi e,
barcollando, si avviò all'uscio, lo aprì.
Il vagabondo, senza volger gli
occhi indietro, passò la soglia, poi rinchiuse violentemente alle sue spalle la
porta. Rimase ancora un poco, immobile, con la fronte scottante appoggiata
sull'umidità del muro. A un tratto si mosse precipitoso, scomparve nella densa
nebbia e nella notte.
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