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Pierangelo Baratono
Ombre di Lanterna

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  • Pietro Martino
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Pietro Martino

 

Gioia e festa, oggi, nel palazzo marmoreo dei Cesari. Lungo gli ampi porticati, adorni di ghirlande, per le sale ove le armature luccicano sulle pareti sotto gli sguardi immobili dei guerrieri, che dalle antiche cornici contemplano le gloriose spoglie, nel gigantesco salone rischiarato da candelabri torcenti i bronzei steli sotto il peso di mille candele di cera nera, ovunque passano cantando schiere di fiorenti fanciulle. Hanno indossati gli abiti più appariscenti, tuniche intessute d'oro e gonne di fine trama, han posato sui piccoli seminudi seni preziose collane di perle e ora folleggiano canterellando nella gioconda attesa, che foggia le labbra alla risata squillante e fa scorrere per le carni un brivido voluttuoso.

Nel salone regale è seduto il vecchio monarca, lo sguardo fisso, l'animo un po' tormentato dall'ansia di quel caro ritorno. Per tre anni il figlio ben amato lasciò un vuoto nel grande palazzo, per tre anni, atteso di giorno in giorno, sbizzarrì la giovanile fantasia in contrade lontane.

Nel partire disse: «Non so quando il destino o il capriccio mi ricondurranno fra i miei cari; certo, se pur la morte non mi sorprenderà per via, tornerò uomo e forte». E s'avviò verso l'ignoto, desideroso di avventure e dimentico, nella sua spensieratezza di adolescente, di ciò, che lasciava dietro di . Oggi, finalmente, tornerà a riscaldare con la sua anima quel freddo ambiente, a far rivivere di una nuova vita tutti quegli esseri fossilizzati dalle tranquille abitudini. Questo pensava il vecchio re e fissava lontano, dalle grandi invetriate, il cielo, reso vermiglio dal tramonto autunnale e qua e solcato da dense nubi fantasticamente orlate di sangue.

A un tratto passò un nome, ripetuto dalle gradinate più basse su su, fino alla sala delle assemblee: «Pietro Martino!». Per le scale s'arrampicava saltellando un vecchietto magro e irrequieto, piccolo punto rosso sull'ampia bianchezza dei gradini: era Pietro Martino, il misterioso alchimista, l'antico maestro del principe. Al suo fianco balzava un grande cane danese, il muso intelligente vôlto verso i l padrone.

Giunse Pietro Martino ai porticati, passò rapido fra mezzo a due file di donzelle, che lo inchinavano sorridendo, entrò infine nel salone.

Il vecchio monarca lo salutò con un cenno famigliare della mano e lo invitò a sedere al suo lato per prendere parte alla festa. Ma il solitario scienziato rimase immobile, in mezzo alla sala, solo col suo cane, nel vuoto fattogli intorno dalla riverenza dei cortigiani. I numerosi candelabri illuminavano in pieno il suo corpo piccolo e magro avvolto in una tunica di colore scarlatto e il viso giallo, pieno di rughe, sul quale spiccavano i vividi occhietti grigiastri, il naso sottile e curvo e le labbra arcuate in una strana espressione d'ironia disdegnosa. Rimase immobile, per qualche istante, volgendo rapidamente lo sguardo intorno, sull'assemblea e sul monarca.

Poi, alzò le braccia e lasciò sfuggire dalle labbra una risata stridula e spaventosa. Tutti, intorno a lui, ammutolirono spauriti. Pietro Martino s'avanzò verso il re e, tenendosi ritto a lui innanzi, cominciò a parlare con voce acuta:

— Quale, quale festa, mio re? Forse quella, che preannuncia la fine tua e di quanti sono qui adunati? Volete forse, signori, imitare i corvi e gracchiare di gioia sulle tombe, che, domani, saranno le vostre? Chi si attende, qui? Forse qualche trionfatore di immaginari nemici o di vergini già sedotte o qualche saggio, che abbia trovata una ragione alla sua miserevole vita e voglia strombazzarla al mondo come una ricetta infallibile contro ogni male? Commedia! Commedia! Io vi conosco a fondo, voi tutti, quanti siete qui dentro, mentre voi non conoscete me, Pietro Martino, che vi sto innanzi come giudice.

S'avvicinò a balzi a un gruppo di donzelle e continuò, smaniando con le magre braccia:

Conosco voi, mie fanciulle, e so i vostri desideri e le vostre piccole anime di bambine, malate di libidine. Da quanto tempo il drudo ha lasciato il vostro letto, caldo del suo corpo, e le vostre braccia, muscolose soltanto se incrociate, nell'atto d'amore, sul collo di un robusto cozzone?

— E anche voi conosco, si rivolse ai cortigiani, uomini formati di cera e di paglia, che ogni mattina modificate con le dita intiepidite l'espressione dei volti e ogni sera asciugate al fuoco le umide festuche, delle quali siete ingombri. Le schiene non vi dolgono, miei generosi cavalieri, per averle troppo piegate, e le labbra non vi sanguinano ancora delle menzogne e delle grette insinuazioni, che avete testè pronunciate in danno l'uno dell'altro? Eh via, non vi temo più di quanto tema dei volubili fanciullini, soddisfatti e gioiosi se un nastro iridescente, posto sul loro petto, li distingue dai compagni di classe. A te, spauracchio atavico, e in così dire fissava un imbarazzatissimo prelato, che tentava di nascondere la pancia voluminosa dietro il corpo di un sottile paggetto, a te dirò ciò, che dovrei dire anche a quel vano impasto di pretese e di meschinerie, che mi guarda dall'alto della sua posizione, e qui squadrava il ministro del regno, che, la fronte corrugata, era intento ad ascoltarlo; anzi, a te a lui, ma a quanti ministri del culto o dello stato sono qui o pel mondo dirò che la loro missione è finita. I popoli sapranno guidarsi da d'ora innanzi, per le vie del noto e dell'ignoto. È finito il regno delle parole, è finito il doppio giuoco grossolano, il dare e avere dei preti e dei legislatori, emanazioni grottesche di un potere ancor più grottesco, sostegni di stessi e peso per gli altri, forti sino ad oggi solo perchè i veri forti non hanno osservata la loro piccolezza e non li hanno disprezzati come maschere, che s'aggirino per i paesi.

Tacque un istante, poi saltellò, seguito dal grande cane danese, accanto al re, che attonito lo guardava, e roteando le braccia stridette:

Povero vecchio re, re pazzo, re illuso, tu hai trascinata la tua misera esistenza per anni e anni e non ti sei mai accorto che al tuo fianco qualcosa vegliava, che dentro te c'era una forza, da te stesso ignorata, e che, tuttavia, guidava la tua debole mente. Io, Pietro Martino, saggio solo perchè ho un cervello, alchimista perchè poeta, dico a voi tutti che mi ascoltate meravigliati: lasciate risvegliare il vostro «io», che vi porterà lungi da questo sciocco vortice di parole e d'illusioni nel quale continuamente vi aggirate. Quanti siete, ciascuno per stesso, avete la potenza di un dio. Non uno solo è il dio, ma tanti quanti sono gli uomini, che vivono sulla terra. Queste cose ho insegnate al principe, a colui che vi recherà, anzichè gioia e fiori, guerra e pianto. Egli sarà il grande ribelle, il titanico innovatore, che vi porrà la spada nel pugno e la rivolta sulle labbra. Ascoltatelo attenti. Egli vi dirà la geniale iniziativa, vi dirà che ciascuno è per il proprio dio e il proprio legislatore. Fate tesoro delle sue parole nelle vostre piccole anime malate, poichè sono parole, che gli ho insegnate io per lunghe notti con la pazienza di un creatore e che a me aveva apprese la vera filosofia, che è la stessa Natura. Quando partì, consigliato da me a questo viaggio, mi disse: Padre (poichè io allora ero il suo vero padre), voglio conoscere meglio la vita e gli uomini. Quando sarò sicuro di me, temprato alla lotta dalle amarezze dell'esperienza, tornerò ad ascoltare le tue sagge parole e dirò a quel vecchio, che siede sul trono e si dice mio genitore: è tempo, per te, di cedere il posto a colui, che non ha padre poichè egli è padre di stesso. Questo mi diceva, e gli occhi gli lampeggiavano di speranza e d'orgoglio. Fra poco lo vedrete tornare bello e forte. Sarà la mia gloria e il mio trionfo, poichè sarà l'incarnazione di tutta la mia vita tormentata dall'enorme visione.

Nella sala gravava terribile il silenzio. I cortigiani e il re stesso non osavano muoversi, immobilizzati dallo spavento di quanto doveva accadere.

Ed ecco squillare, fuori, le trombe, e un lungo urlo echeggiare, pronunciato da mille bocche. Giungeva il principe.

L'urlo si ripetè per le gradinate e pei portici. Poi si formò di nuovo gravoso il silenzio. Il principe entrava nel grande salone. Era una rigogliosa giovinezza e portava in il profumo di tutte le vitali energie. Lo seguiva un gruppo lascivo di bellissime donne, i manti ricchi di gemme, i volti lucenti di salute e di desideri. Pietro Martino rotolò incontro al giovane, le braccia aperte. Ma il principe, volgendo su di lui uno sguardo distratto, lo allontanò con la mano dicendo: «Vecchio, non ti conosco», e proseguì tranquillo e sicuro la sua strada sino ai piedi del trono.

Padre, così parlò, inginocchiandosi innanzi al monarca; io ti porto di nuovo il fiore della mia esistenza, come figlio ubbidiente e a te sottomesso.

Poi, drizzato il robusto corpo, tuonò:

— Ho conosciuto un sogno, nella mia adolescenza. Lo balbettavo sotto lo sguardo vigile di Pietro Martino, mio maestro. Sogno di follia! Forse non era fatto per me e per la mia indole avventurosa e variabile. Sono forte e giovane; ho preferito vivere e amare. Padre, la missione del ribelle è atta alle spalle di chi non sa e non può godere le gioie della forza e della salute. Il sangue scorre ricco e denso per le mie vene e nell'anima m'alita un gran desiderio di voluttà e di affetto. Perciò, forse, ho preferito quelle creature, (e accennava alle donne), al mio vecchio maestro.

In così dire la voce gli si velava un poco di rimpianto.

A grado a grado la grande sala si sgombrò. Il vecchio re, appoggiato al braccio del figlio, si allontanò, seguito dalla torma delle donne e dei cortigiani.

Rimase, solo, sperso sotto la luce dei candelabri, Pietro Martino. Al suo fianco era ancora il grande cane danese, unico compagno del vecchio visionario. Due lagrime scivolarono lungo le guance del saggio, subito sperse nelle rughe del volto. La morte del sogno magnifico lo trascinava seco nel vortice dell'ignoto. Il suo piccolo magro corpo si piegò su stesso, s'accasciò sul marmo del pavimento, s'allungò, divenne rigido e freddo. Nella immensa sala, ormai, più non si scorgeva che la rossa linea del cadavere sul marmo e la grande ombra del cane; più non si udiva che il latrato lungo e spaventoso della bestia, immobile accanto al corpo del suo padrone.




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