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Pierangelo Baratono
Ombre di Lanterna

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  • Il ponte d'oro
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Il ponte d'oro

 

Correvo, urlando la mia angoscia fra le pareti di quella galleria, densa di tenebre. Un vento umido mi batteva in viso e infuriava tra i miei capelli. La mia voce, ripercossa dalle muraglie granitiche, risuonava sinistra come un'eco di qualche inferno sconosciuto. E laggiù, in fondo, sempre alla stessa distanza, un brillare di lucciola, una scintilla quasi impercettibile, unica guida in quella notte eterna.

Voi sorridete? Ho provato, sì, ho provato con questa mia anima turbata, con queste membra che la febbre ha rese deboli e tremanti; ho sentito pesare su di me l'incubo spaventoso.

Un incubo? Che il cielo abbia pietà di me! E se fosse la verità? Se questa mia sofferenza, questo continuo martirio, dovessero non aver mai più tregua? Non toccare nessuna lampada d'oro, non raggiungere nessuna fiamma, non scaldare mai, mai il proprio corpo al raggio fecondo di un sole! È un incubo, vi dico; null'altro che un sogno!

Ma se fosse la verità? Non ho già provate le vertigini delle tenebre, non mi son visto attorniato da ombre gigantesche, che chiudevano la mia anima come in una nebbia? Oh, ben conosco le oscurità della vita e della notte, ben so esplorare gli abissi dell'infinito! Occorre aver pianto come me, essersi solcate le carni con le unghie, lacerata la gola con le urla, come ho fatto io per lunghissimi giorni; aver provata l'impressione di un corpo morto fra mezzo a uno stagnare d'acqua, per poter dire: conosco le tenebre e le insidie della notte!

Voi mi credete un pazzo o una canaglia. Siete venuto in questo carcere a interrompere la mia solitudine e a frugare nella mia angoscia. E vi siete detto: ecco un uomo che mi aiuterà a farmi un nome, poichè il suo delitto è bello, misterioso, suggestionante.

Ebbene, ascoltatemi. Allorchè avrò finito, forse rinuncierete a difendermi, poichè troppo difficile vi sembrerà il vostro compito. Nessuno può salvarmi. Il mio segreto è tale, che, rivelato, inspirerà compassione, fors'anche ribrezzo; ma non potrà conquistarsi il perdono. Aver interrogato il destino, aver svelati a stesso i misteri dell'esistenza, aver visto nel più profondo dell'anima le morte gore della speranza e dell'ideale, è delitto superiore a ogni giudice.

La prima volta, ch'io ho sentito fremere in me l'incubo delle ombre, tentai di lottare contro la fatalità, che stava per travolgermi. Ogni mio desiderio, ogni amore di questa mia anima, assetata di sentimento, si agitavano in un gagliardo impeto di ribellione. Sentivo in pari tempo uno schianto di tutto il mio essere ed una speranza tenace, fortissima, di libertà.

Sapete? Avevo ancora fiducia in me stesso, in quel tempo. È ridicolo, non è vero? E allora appunto cominciai a sentire che un'ombra si addensava intorno alla mia anima a toglierle per sempre la luce. Che dovevo fare? Tentai la lotta, vi dico. Ma di giorno in giorno l'ombra diveniva più pesante, più terribile più consistente. Ormai, la sentivo intorno a me come un secondo corpo, come una spaventosa armatura di tenebre, che gravasse sulle mie membra. Il sole non riscaldava più le mie vene, la speranza non alitava più sul mio spirito; tutto, intorno a me, era chiuso, morto, immobile.

Affaticai questo cervello fino alla pazzia, mi sforzai di convincermi che ciò era semplice allucinazione dei sensi malati. Invano! Quell'ombra non mi abbandonava più, m'inseguiva fra mezzo al tumulto della vita quotidiana, mi sorprendeva, mi afferrava, mi soffocava nel sogno come nell'orgia, nella quieta dolcezza dell'idillio come nell'impeto della creazione. Ero poeta; amavo raccontare a me stesso le immaginazioni della mia mente sempre avida di bellezza. Quell'ombra mi rubò ogni volontà, sottomise ogni desiderio, invertì ogni mio sentimento, distrusse inesorabilmente il delicato meccanismo, che mi aveva fatto devoto dell'Arte. Occorre ch'io vi narri lo strazio continuo, che sconvolgeva il mio spirito? Occorre che segua, ora per ora, la tortura della mia anima? Questa mia confessione si nutre di due sole parole: dolore e tenebre. Ho sofferto tanto, da trovarmi vecchio e stanco in brevissimo volger di tempo. Una rovina, capite?, una rovina, ch'io dovevo contemplare ad ogni ora, consumandomi in un rimpianto inutile e in un più inutile sforzo. Ed ecco la causa d'ogni mio atto, ecco l'origine di quello smarrimento continuo, di quella malinconia dolorosa, di quell'imperversare di nervosità e di quel susseguirsi di accasciamenti. Dovevo sembrare un pazzo, e non lo ero!

A quell'epoca mi trovai senza impiego, spostato, immerso nella miseria. Avevo amici, che mi stimavano, conoscenti che mi seguivano con simpatia nei miei tentativi di poeta. Qualche scrittore si era interessato per me; ma a poco a poco me li resi tutti ostili. La mia distrazione in compagnia, quell'aspetto chiuso e più ancora quell'abbattimento, disgustoso agli occhi di chi è forte e felice, mi fecero sembrare antipatico e pesante. Non potevo più sorridere, capite? Non avevo neanche la facoltà di sognare. Le parole sfuggivano a stento dalle mie labbra; l'occhio, fatto torbido, non distingueva più gli uomini e le cose: il cervello soltanto lavorava, ma in qual modo! Una continua ansia, un continuo rammaricarsi di quella dolorosa situazione, e poi una rassegnazione, più dolorosa ancora della inutile rivolta, erano le sue occupazioni. A volte io aprivo le braccia, le tendevo verso l'alto, verso quel sole, di cui non potevo quasi più distinguere i raggi. E sentivo l'ombra, l'ombra spaventosa seguire i miei movimenti, sentivo quella guaina di tenebre allungarsi su per le braccia protese, per poi restringersi di nuovo intorno a me, in un umido amplesso.

Cercavo un'occupazione per vincere la miseria. Ma chi avrebbe voluto innanzi a il fantasma della mia anima? Chi avrebbe tollerata la vicinanza cupa, monotona, angosciosa di quell'essere spettrale, ch'io ero divenuto?

Un giorno credetti di aver vinto il destino.

Una fanciulla, delicata e sentimentale, s'impietosì del mio dolorare e m'invitò a dividere la sua vita piena di gioia. Ricominciai a provare l'ebbrezza dell'esistenza e mi sentii di nuovo forte ed atto a godere. A mia moglie dovevo la felicità, la poesia, l'amore. La idolatrai, mi consacrai interamente a quella creatura, dolce come una primavera. Baciavo sulla sua bocca l'alito fresco e profumato della giovinezza, nelle sue pure mani confidavo le mie speranze rinate. Ahimè! Fu brevissimo il sogno e, più terribile ancora dell'incubo antico, mi attendeva il risveglio.

Un mattino, camminavo al fianco della mia diletta su per un'erta ripida di montagna. Intorno a noi ogni cosa acquistava il fascino di un'ebbrezza profonda. Nel cielo, nel folto delle boscaglie, nel fondo di quei valloni animati di casupole, nella stessa natura selvaggia dei monti noi leggevamo la felicità della nostra vita e la bellezza del nostro amore. Sostammo sovra un dirupo, scorrendo con gli occhi trepidi giù per la frana, nereggiante di macigni irti sulla mostruosa laceratura. La mia diletta si appoggiava fiduciosa al mio braccio, il volto lievemente posato sulla mia spalla. Il profumo dei suoi capelli, il battito del suo piccolo cuore, ch'io sentivo sotto la mia mano aperta, mi riempivano di dolcezza. A un tratto, avvenne qualcosa di orribile. Sentii un peso sul mio corpo e un'ansia nella mia anima e non scorsi più nulla per qualche istante, poichè la notte mi era calata improvvisa sugli occhi. In quell'attimo mi tornò rapida la visione di ciò, che ero stato una volta; una rabbia impotente, una convulsione di pensieri, creduti morti e ora ridestati violentemente, impazzarono nel mio cervello. Caddi sulle ginocchia, urlando come un demente. Udii la mia voce ripercossa dai monti come uno scherno; più nulla viveva intorno a me: solo, il peso di quella veste impalpabile, che mi schiacciava. Con un ultimo sforzo, in una preghiera profonda di angoscia, implorai un aiuto, che mi togliesse da quelle tenebre.

E allora, vi giuro, come vedo voi adesso, vidi un meraviglioso ponte di nuvole profilarsi ai miei piedi, slanciarsi dal ciglione del dirupo sino alle infinite solitudini dell'azzurro. E il sole lo faceva scintillare in mille sprazzi d'oro, in un trionfo di luce. Mi alzai tremando. Finalmente il destino si era stancato di perseguitarmi; finalmente potevo abbandonare l'ombra, per sempre, e affidarmi a quel cammino d'oro, che faceva da ponte tra me e la gioia. Mi slanciai innanzi, a percorrere la misteriosa via della felicità.

Ma qualcosa si attaccò tenacemente al mio corpo, una forma umana arrestò la mia furia. Provai lo spasimo dello schiavo, che una forza ostile trattiene nella sua fuga; mi parve che il buio si facesse di nuovo intorno a me e che l'ombra si rendesse palpabile in un ultimo tentativo per soggiogarmi. Afferrai quell'essere, che si stringeva al mio corpo, lo scossi ferocemente, urlando: Via, via, maledetto!; poi, lo lanciai sotto di me, nella frana.

Quello sforzo mi calmò. Volsi lo sguardo intorno: il ponte luminoso era scomparso. In basso, sul fianco del monte, un corpo di donna giaceva immobile, rovesciato sopra un macigno e arrossato di sangue. Compresi, in un attimo, il mio infernale delitto. Era lei, lei, la mia diletta, che giaceva laggiù, abbandonata; era lei, ch'io scorgevo ormai lontanissima dalla mia vita e dal mondo. Dannazione! Queste mie mani, che avrebbero dovuto accarezzare la creatura, ad esse affidata, l'avevano travolta nell'eterno silenzio.

Mi precipitai giù per il monte, senza osar più di volgere il viso verso la cara morta; mi cacciai urlando per quelle discese, col cuore tumultuante di angoscia, inseguito dalla spaventosa ombra, che aveva riconquistato il suo dominio, per sempre.




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