Mio buono
domani, all'alba, entrerò in convento per cominciare il mio
noviziato. Strana ti sembrerà e quasi inverosimile questa mia risoluzione;
poichè sempre mi conoscesti sprezzante di quelle puerilità e superstizioni, che
s'impongono all'uomo sotto il nome di fede. Io stesso ho molto meditato, prima
di acconsentire ad abbandonare quella idealità, che mi fu carissima e per la
quale tanto ho sofferto. Ma già varie volte nella vita mi si era presentata e
avea tentato di signoreggiarmi una speranza di quiete, di riposo, di assoluta
rinuncia al nostro ansare per una mèta, che mai si raggiunge perfettamente. Ed
ora, in questa città, ove pare abbia posta la sua sede il dio della pace, la
tentazione ha avuto il sopravvento su di me e mi ha allacciato nelle sue spire
tenaci.
Ho risoluto, lasciato dietro di
me ogni ricordo di ciò che fui, ogni dolce sogno per ciò, che potevo divenire,
di terminare la mia giovinezza in un chiostro. D'ora innanzi le preghiere
saranno unico sfogo al mio sentimento, e le lagrime, non più provocate dalle
ingiurie degli uomini, unico ristoro all'affanno. Io temo solo che la monotonia
della celletta non induca il pensiero a ricercare uno svago nel fantasticare
continuo di una volta e non lo ecciti a sviarsi dalle meditazioni del penitente
per seguire ancora le immagini piacevoli di un mondo ideale. Tenterò, tuttavia,
di costringere questo mio libero cervello allo studio assiduo e profondo dei
Padri, affinchè non abbia il tempo di lasciarsi sopraffare dalla sua natura
fantastica. E se sentirò vicino il momento di una lotta tra il volere e l'idea,
pregherò il grande simbolo della semplicità, la croce nera aperta sempre
all'amplesso degli infelici, di proteggere con la sua ombra il mio cuore.
Per ora le amarezze sono fuggite
dal mio pensiero; una, una sola rimane: quella, che tu mi desti quando, sedotto
forse da voci estranee ed avverse, accusasti me, tuo amicissimo, di averti ingannato,
di averti voluto rendere lo zimbello del mio orgoglio e della mia ambizione.
Io ti perdonai, poichè
comprendevo che in te lottavano dolorosamente l'opinione pubblica e l'affetto,
che provavi per un essere privo di aiuti, quale io ero. Mi dicesti che l'arte è
un vano trastullo a confronto delle altre mète dell'uomo, e ch'essa non dà in
alcun modo il diritto di ritenersi superiore al mondo a colui, che ne è
sacerdote.
Sento ancora le tue parole
invadere, come vampa di fuoco, il mio cranio e chiuderlo in una morsa di onta e
di angoscia. Allora io nulla dissi, poichè nulla potevo dire. Un gran vuoto si
era prodotto nel mio cervello, ove le idee non venivano più che come vane
ombre, snebbiate e distrutte dall'emozione. E questo mio difetto morale, questa
mancanza assoluta del mio «io» nei momenti più critici della vita, mi perse,
forse, ai tuoi occhi.
Poi, più tardi, volesti
riannodare l'antica amicizia, mostrandomi una pietà, che si elargisce soltanto
ai malati ed è più penosa della stessa ingiuria.
Perchè far crollare, per una
cieca fiducia, nelle parole di estranei, un edificio elevato con lunghi sforzi?
Perchè distruggere un'oasi, ove si dissetava il mio sguardo? Non pensavi, non
temevi di rompere l'incanto, che tutto mi circondava? Io vivevo in una sfera
elevata, immerso in una gioia senza confronti; le tue accuse mi hanno strappato
ruvidamente dal sogno, costringendomi a ricordare chi fossi veramente tra gli
uomini. Le ingiurie, le condanne degli altri mi avevan fatto sorridere; ma
quando vidi, quando intesi che il compagno delle mie pene, delle mie gioie, di
tutti i miei sentimenti e pensieri rinnegava in me una credenza fin' allora
custodita gelosamente, bestemmiai la mia estasi, rinnegai la mia fede, e,
abbandonati al più presto codesti luoghi, divenuti intollerabili, mi rifugiai
in un paese, ove mi chiamava il ricordo della fanciullezza.
Prima di abbandonarti per
sempre, prima di chiudere una relazione d'affetti, che ci legava e, malgrado
ogni cosa, ci lega ancora con la sua catena d'oro, io voglio discolparmi ai
tuoi occhi; poichè mi credo colpevole: colpevole verso di te, per non averti
mai rivelata l'idea, che seguivo e che, dovevo supporlo, un giorno m'avrebbe
reso sospetto al tuo sguardo: colpevole verso di me, infine, per non aver prima
saputo o potuto stabilire un giusto rapporto tra la mia vita e ciò, che mi
circondava.
L'artista è un bambino, smarrito
tra la folla, e chiede continuamente della mamma e a volte la ritrova, poi la
perde di nuovo, e così, per tutta la vita, trascina il corpo in un'alternativa
d'ansie e di estasi. Per non esser deriso egli deve comporsi una maschera e
renderla simile al volto di chi lo circonda. Deve ridere, parlare, gridare, dar
prova di una furberia, che non ha, ed alla quale sostituisce un'apparenza atta
ad ingannare il mondo. E il mondo ha pietà di lui, povero paria. Ma non è la
pietà, ch'egli chiede, la pietà nauseante di uomini ben pasciuti e ricchi di
pensieri e di speculazioni. Forse, la società non è ingiusta. Poichè, come
potrebbe permettere a un individuo, che vive nel suo seno, di non appassionarsi
per quanto essa pensa o compie? L'offesa grave di un volto serio in mezzo
all'allegria generale, di una fronte pensosa ed assorta, distratta dalle gioie
che si scatenano intorno, non è perdonata dagli uomini. E poi, a gravare ancora
sulla bilancia del destino, si aggiunge l'amor proprio di tutti. Nel seno di
ciascun individuo, nelle più riposte fibre di ogni cervello, si agita un mostro
dall'aspetto seducente, una corda armonica, che vibra alla più piccola oscillazione
dell'aria e porta un sigillo d'oro, sul quale è scritto: Amor proprio. Un
mastodontico elefante, che schiacci col largo piede un minuscolo
intelligentissimo gatto, non opera diversamente dalla società che grida in
faccia all'uomo di genio: Io ti sto innanzi. Quanti esseri di forte ingegno, ma
di debole volontà, sono stati annientati dall'orgoglio di chi li circondava!
Il genio non può essere ammesso,
come fenomeno attuale, dagli uomini. Lo pensano come un ideale tramontato e non
si accorgono di averlo accanto e passano indifferenti o sprezzanti innanzi alle
creature, che un giorno i loro figli dovranno adorare.
Orvia, bando alle chimere.
Piuttosto, ascolta quanto ti ho celato fin'ora, il segreto dell'arte e della
vita mia; e poi giudicami liberamente, senza scrupoli d'amicizia o di
commiserazione. Mi hai sempre conosciuto di temperamento melanconico, a volte
morbosamente allegro, più spesso irritato, più di sovente ancora abbattuto e
silenzioso. Portavo nell'anima il germe di una malattia, che nessuno poteva
sospettare: la sete imperiosa, invincibile di amore. Quanto ho fatto nella
vita, l'ho compiuto sotto il pungolo di un desiderio infinito; nel mio cuore,
nel cervello, nel sangue portavo un tesoro enorme di affetti e non potevo
liberarmene. Mi pesava come un castigo e come un destino. L'amicizia tua non
bastava alla mia anima. Avrei voluto che tutto il mondo mi amasse, come io
sentivo di poterlo amare. Avrei desiderato che ognuno accorresse incontro a me,
com'io sentivo che sarei corso incontro a tutti, col sorriso sulle labbra. Una
simpatia invincibile mi trascinava ad amare ogni cosa e ogni uomo. Ero come un
fanciullo e scherzavo con me stesso e guardandomi nello specchio credevo di
poter vincere con la sola forza del mio schietto sorriso.
Ahimè! Le delusioni piovvero
sulla mia anima e ne portaron via a poco a poco ogni fede. Invece di amore,
odio; invece di franchezza, ipocrisia; invece di risa squillanti, sogghigni e
livori. Non una creatura umana comprese il battito del mio cuore; tranne tu,
mio unico buon amico. E tu pure hai mentito a te stesso e alla nostra amicizia,
anche tu ti sei ripiegato sotto l'invulnerabile manto della diffidenza. Ho
bussato a tutti i cuori. Gli uomini mi han dileggiato, mostrandomi a dito come
un povero demente. Allora sperai che il sentimento di una donna fosse più
schietto. Tentai timidamente; poi, fatto più ardito da un'apparenza di amore,
mi buttai a capofitto nel vortice. Carezze e parole dolci e sorrisi, dapprima;
poi sotto la maschera cominciai a intravedere risate ironiche e atroci dileggi.
Ma che vi è, dunque, nel petto d'ogni umana creatura? Quale legge obbliga
l'umanità intera a una lotta spaventosa, impossibile, a un antagonismo continuo
tra individuo e individuo e, quel che è più strano, tra uomo e donna? Quanti
dolori si son dovuti accumulare, chiamati a raccolta, distillati come le
lagrime delle cose e delle persone, perchè la diffidenza e l'odio si
svolgessero in trame sottili e insidiose intorno ad ogni cervello?
Quanto ho visto nella vita ha
fiaccata, distrutta ogni mia speranza. Amare? Chi? Vi è forse un cuore, capace
di affetto, nel mondo? E, se vi è, si è forse nascosto in solitarie grotte per
sfuggire ogni rude contatto, per sottrarsi ad ogni dolore? Questa febbre, che
consuma me, si è forse tutta addensata nel mio sangue, tolta briciola per
briciola dagli altri uomini e data a me dalla fortuna come una maledizione?
Or tu sai la causa del mio
inquieto vivere e sai perchè, nel mio profondo dolore, cercai scampo e rifugio
in un orgoglio sfrenato, in una folle coscienza del mio valore e della
dappochezza degli altri. Non io parlavo nelle ore dell'amarezza, ma questa mia
debolezza racchiusa, questo desiderio non saziato, questo amore continuo, che
non trovava altro amore, al quale unirsi. Se un po' di amicizia, se un po' di
pietà buona e generosa sono rimaste per me nel tuo animo, non lasciare che il
ricordo della mia persona assuma nella tua immaginazione una forma ostile e
incresciosa. S'io ho peccato, si è perché ho voluto amar troppo e, non avendo
trovato in altri una corrispondenza a questo mio prepotente sentire, ho dovuto
tutto riversarlo sovra me stesso.
Ed ora, addio, mio buono;
dimentica di aver conosciuto uno, che lo scherno aveva intristito e pel quale
una sola ironia correva sulle labbra maligne, un soprannome grottesco, foggiato
dall'astuzia umana: frà Intelletto.
Ricorda soltanto di quando in
quando, se vuoi, che in un lontano, tranquillo, solitario convento vive e
riposa frà Quiete.
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