Conobbi Giorgio Miserere nello
stanzone affumicato del «Circolo dei Gufi», ove seralmente si riuniva una
numerosa gioventù a bere e a discutere rumorosamente di letteratura e d'arte.
Intorno a quegli esseri
accalorati fluttuava una nebbia densa e irritante, formata dal fumo del
tabacco, avvolgendoli come un mobile tendone, penetrando nelle gole con l'acuto
profumo e infiammando ancor più gli occhi, già accesi dal vino e dai discorsi.
Quella sera io non riuscivo a
fermare la mia attenzione sovra alcun oggetto determinato, limitandomi a
percorrere distrattamente con lo sguardo le fisonomie, agitate dalla
discussione. A un tratto mi apparve, tra il fumo, uno strano individuo, che
avevano sino a quel momento celato ai miei occhi due o tre furiosi seguaci di
Melpomene. Era un giovane magro, sui venticinque anni, con i capelli lisci, che
gli coprivano le orecchie, e con due occhi scuri, fissi in quel momento nel
vuoto, in una specie di estasi melanconica. Seduto accanto ad un tavolino,
carezzava con un gesto monotono della mano il mento aguzzo.
— Chi è?, chiesi a un vicino,
additando l'oggetto del mio esame.
— Chi? Quel giovane? È Miserere,
Giorgio Miserere, l'ultimo dei romantici.
— Che vuol dire?, domandai ancor
più incuriosito.
— Oh! È un poeta, e d'ingegno,
ma troppo pieno di lagrime e di malinconia.
Mi avvicinai, un po' trepidante,
al misterioso poeta e gli chiesi il permesso di conversare con lui. Dapprima mi
guardò con aria meravigliata, come d'uno che si svegli da un lungo sonno; ma
subito sorrise amichevolmente e mi accennò di sedere al suo fianco.
Dopo mezz'ora eravamo amici. I
suoi discorsi presentavano uno strano contrasto con la fisonomia: erano
piacevoli, variati, leggermente umoristici. La voce aveva inflessioni dolci ed
affascinanti; si sarebbe rimasti a udirla per ore e ore.
Ci trovammo insieme più volte.
Amavamo entrambi le passeggiate notturne, per le vie più deserte della città,
ove risuonavano soltanto le nostre voci e non si scorgeva di vivo che qualche
gatto solitario, volto in fuga dal nostro avvicinare.
Il mio nuovo amico era un poeta
nel più puro senso della parola; s'inebriava di visioni, seguendo il ritmico
volo della sua fantasia, e ne parlava come di cose reali. Adorava tutto ciò,
ch'è bello, e trovava parole dolci per ogni suo sentimento. Discorreva spesso
come un ispirato, entusiasmandosi del proprio sogno: allora, il suo viso
diveniva bellissimo di gioia e le sue mani tremavano. Solo di quando in quando
cadeva in una specie di letargo melanconico, che si risolveva in una crisi di
lagrime. Nemmeno lui sapeva spiegarne la causa. Si sentiva oppresso, diceva, da
un gran dolore indistinto e per questo appunto più terribile; una strana
fatalità lo avvolgeva e lo rendeva zimbello di quella sua squisita sensibilità
d'anima. Bastavano una serena notte di luna o il canto monotono di un vagabondo
a immergerlo nella malinconia. Durante gli accessi camminava come un automa al
mio fianco, con lo sguardo sperso innanzi a sè e col volto atteggiato a uno
scoramento profondo.
Nervosissimo com'era, andava
soggetto a qualche mania. Un breve stridere di porta lo faceva sussultare e
l'oscurità gli incuteva un indefinito terrore. Una sera mi narrò ch'era
perseguitato dai sogni, che lo tormentavano e assumevano ai suoi occhi un
pauroso aspetto di vita, sino a riaffacciarglisi alla mente durante il giorno
obbligandolo a subirne l'influsso e a modificare la propria condotta secondo i
loro suggerimenti.
— Nessuno, egli mi diceva con
una voce resa tremante dalla commozione, nessuno può immaginare lo strazio dei
miei risvegli sotto l'incubo delle visioni. A volte sono costretto a urlare, a
dibattermi contro me stesso. Ma qualche sogno, in special modo, si ripete, come
un avvertimento. Così, vedo spesso due cagnacci dal pelo nero e dal muso
aguzzo, che si avventano contro di me, sento il loro abbaiamento furioso e il
loro alito caldo, che viene a battermi in volto, e mi sveglio, terrorizzato,
col corpo bagnato da un sudore di morte. Dopo simili incubi, rimango spossato,
nè riesco a tollerare, per qualche giorno, la vista di un cane. A volte, i
sogni mi si ripresentano allo stato di veglia e mi costringono a riprovare lo
stesso spasimo, che avean provocato in me nella notte. Ne ricordo uno, che per
poco non mi riuscì mortale. Nel giorno era uscito il mio primo volume di versi,
nel quale riponevo ogni speranza per l'avvenire. L'emozione dell'attesa,
tormentandomi con un po' di febbre, mi fece passare la notte insonne. Soltanto
verso il mattino potei chiuder gli occhi. Quasi subito mi vidi per le strade
della città, circondato da una folla, che mi guardava sogghignando. Distinsi il
volto di qualche amico, contratto in una espressione sprezzante. Camminavo,
camminavo sempre, perseguitato dalle risate, sentendo intorno a me risuonare i
dileggi più orribili. Un'ansia e un'angoscia spaventosa mi costringevano a
cercare la solitudine; ma sì, dappertutto c'erano uomini, che mi fissavano
segnandomi a dito come un oggetto di pietà. Anche i bambini gridavano: È lui, è
lui!, e mi correvano intorno, schiamazzando e gettandomi addosso pugni di terra.
A un tratto, a uno svolto di strada, mi si drizzò innanzi l'alta figura di mio
padre. Era pallido e teneva in mano il mio volume. Appena mi vide, cominciò a
urlare: Vattene, disgraziato; è sciocco, è sciocco!; e mi scagliò il libro in
pieno viso. Udii ancora una risata fragorosa e un grido generale: È sciocco, è
sciocco! E mi svegliai. Avevo il volto bagnato di lagrime e tremavo per tutte
le membra. L'impressione del sogno era rimasta nitida nel mio pensiero. Mi
affrettai a vestirmi e ad uscire di casa, sperando di sfuggire all'incubo. Ma
appena mi trovai per istrada, fui preso da uno scoramento infinito e da una
pazza angoscia. Mi sembrava che tutti mi guardassero commiserandomi; credevo di
udire a ogni passo qualche risata. Mi avviai per una strada un po' abbandonata.
Ed ecco venirmi incontro, dal fondo di essa, mio padre con un libro fra le
mani. Alzò il braccio verso di me. In quel momento non seppi più distinguere la
realtà dal sogno; sentii, ad un punto, tutte le torture della notte
riaffacciarmisi al pensiero e, cacciato un urlo, volsi indietro correndo.
Soltanto un'impressione di gelo pel corpo mi svegliò dall'incubo. Mi trovavo
nel fiume, in cui mi ero gettato inconsciamente in quell'orribile istante di
disperazione. Per fortuna qualcuno venne prontamente a salvarmi. Ero tornato in
me; ma rimaneva nel mio cervello lo spasimo della morte, dalla quale ero
scampato per caso, ed a cui mi aveva spinto l'inesorabile volontà di un sogno.
Giorgio Miserere tacque.
Respirava affannosamente, ed aveva gli occhi dilatati nell'angoscia del
ricordo. Io lo guardavo con spavento; ormai, potevo spiegarmi le crisi di
melanconia del mio amico.
*
* *
Un giorno, il poeta mi abbandonò
per recarsi in villa, da una vecchia zia. Egli sperava, assoggettandosi per
qualche mese alla vita solitaria e salubre della campagna, di poter vincere per
sempre il languore nervoso. Non ebbi più sue notizie; ma, conoscendo la sua
antipatia per la corrispondenza epistolare, perdonavo facilmente una mancanza,
che secondo me non procedeva da poca amicizia, ma piuttosto da debolezza di
volontà.
Infine, dopo parecchi mesi,
ritornò, molto cambiato di aspetto. Non era più magro e nel viso arrotondato
mostrava i segni di una salute ricostituita. Appena mi vide, mi corse incontro e
mi salutò con una risata schietta ed aperta, stranissima sulle sue labbra.
— Sai?, mi disse; sono guarito.
E poi, ho trovata la felicità per istrada: sto per accasarmi.
Rimasi attonito, poichè tutto mi
sarei aspettato, tranne quella notizia. Non sapevo concepire Giorgio Miserere
occupato a crearsi una famiglia.
— Parli sul serio? chiesi.
— Sì, sì; sono tanto contento!
Ti narrerò ogni cosa, più tardi.
La sera stessa mi raccontò il
suo idillio.
In casa della zia aveva trovata
una ragazza, che la vecchia parente teneva presso di sè come una figlia: una
giovanetta robusta, con gli occhi vivi e una gran quantità di capelli neri,
raccolti a nodo dietro la nuca. Ogni suo gesto denotava una straordinaria
energia, ogni suo sguardo lasciava trasparire una volontà gagliarda e tenace.
Si chiamava Anna ed era orfana; la zia si era curata di farle impartire una
estesa istruzione. Creatura originalissima, quella fanciulla accoppiava alla
libertà di pensiero di una figlia selvaggia dei campi la riflessione e la salda
coltura di una studiosa.
Dapprima, Miserere aveva sentito
una invincibile antipatia per quell'essere, tanto diverso da lui. Ogni cosa lo
urtava in quella ragazza; ogni parola di lei lo sconvolgeva nei suoi sogni di
poeta. La presenza di Anna nella casa era diventata un martirio intollerabile
pel mio debole amico.
Una sera i due giovani,
immobilizzati accanto al fuoco dalla rigidezza del clima invernale,
discorrevano a bassa voce. La pace dell'ampia sala e l'incerto chiarore di una
lampada a olio li disponevano entrambi alla melanconia. A un tratto Anna,
fissando i suoi sguardi profondi nel volto del poeta, formulò una strana
domanda:
— Mi perdoni, signor Giorgio. Io
credo che Ella porti in sè una gran sofferenza! Perchè?
Che accadde in quel momento
nell'anima di Miserere? Quale impulso lo costrinse a svelare il proprio
pensiero ad una creatura, fino a quell'istante antipatica? Sentì un bisogno di
confidarsi, di riparare con la propria debolezza sotto la protezione di
quell'energia; perciò, quasi inconsciamente, rispose:
— È vero. Non posso nasconderlo.
Io l'ammiro, Anna. Ella sente palpitare intorno a sè tutte le forze della
natura e ne fa tesoro nella sua anima, le padroneggia come una fata benefica.
Nulla l'urta, nulla la turba nella sua libera tranquillità; anzi, Ella vede il
male ed il bene con la stessa calma sicura, e ne sorride. Ma qual è il segreto,
che la rende così forte? Io vorrei imitarla, e non posso. Sento di giorno in
giorno crescere in me la noia, la pesantezza della mia esistenza quasi
soffocata in mezzo alle altre. A volte penso che per vincere, per gioire,
occorre essere in due. Ed io son solo, e mi scoraggio, e tremo. Che cosa ho
chiesto, infine, alla vita? Un po' di gioia. Ne ero indegno? Forsechè in me non
esiste, come negli altri uomini, la facoltà di godere e di amare? Perchè agli
altri tutto, e a me nulla?
— Perchè lei è un debole.
— Che intende dire?
— Dico, mi perdoni, che nel
mondo o si comanda o si ubbidisce. La sua intelligenza lo avrebbe condotto alla
gloria, s'Ella avesse voluto; il suo sentimento le avrebbe donata la gioia e
l'amore, s'ella avesse saputo utilizzarlo. La volontà doveva guidare l'ingegno,
non questo la volontà. Guai al debole. L'ingegno, di per sè, è debole e ha
bisogno di un aiuto. Ecco che posso dirle.
— Forse, ha ragione. Ma quanti
uomini ebbero la mia debolezza e si videro favoriti dalla fortuna?
— Le circostanze elevano ed
abbassano, a loro capriccio. Una creatura debole è come una piuma, che il caso
conduce. Soltanto la forza dà la vittoria certa, assoluta.
La voce di Anna si elevava in
una specie di selvaggio entusiasmo. Miserere ne subì il fascino; ma cercò di
scuoterlo, di avvantaggiarsi. Perciò, rispose stizzosamente:
— E non potrei divenir forte
anch'io?
— Avrebbe dovuto combattere
subito. Però, ha dinanzi a sè l'avvenire: tenti. Ma badi; fin dal primo passo,
dovrà dominare, riuscire. Altrimenti, sarà perso e per sempre.
Un po' della forza, che si
racchiudeva nelle parole della fanciulla, era penetrata nell'animo di Miserere
e con essa una certa dolcezza, un rispetto amorevole per quella creatura che,
donna, insegnava a un uomo la via.
— Tenterò, egli disse.
— No, non dica così. Dica
piuttosto: vorrò.
Quella notte, il mio amico vide
più volte apparirgli, nel sogno, il viso, bello di vita, della fanciulla. Si
svegliò con animo tranquillo e, anzichè sfuggire la compagnia d'Anna, la
ricercò. A poco a poco una dolce intimità si strinse fra quei due esseri, tanto
dissimili, ma che si compenetravano e si completavano a vicenda. L'anima
sognatrice del poeta aveva trovata una sorella in quella, ricca di volontà,
della giovinetta. Anche i mali nervosi, dei quali aveva tanto sofferto
Miserere, cominciarono a scomparire sotto l'influenza benefica delle parole e
della suggestione continua di Anna.
Tuttavia, non si erano ancor detta
una parola di amore. Malgrado la vita in comune e la dimestichezza, essi si
scrutavano l'un l'altro e, prima di risolversi a dar corpo al sogno, cercavano
di rendersi una ragione esatta dei loro sentimenti. Spesso Miserere si
sorprendeva a meravigliarsi di quella sua passione per una creatura, che nulla
aveva in comune con lui. Egli temeva di esser vittima di un miraggio e di
subire una volontà, cha solo in apparenza assumeva un aspetto simpatico.
Un giorno nevicò molto sulle
campagne. Verso sera, le nubi sgombrarono dal cielo lasciando libero il passo
ai limpidi raggi della luna. I campi presentavano un aspetto caratteristico ed
affascinante, tutti bianchi e pieni di scintillii sotto lo spiovere della luce
lunare. Sovr'essi si dilungavano le file degli alberi, spogli di fronde, ma
festonati da ghirlande di neve, che seguivano le sinuosità dei rami,
cristallizzate sovr'essi dal gelo notturno.
Anna e Miserere, affacciati alla
terrazza, contemplavano, in silenzio, il paesaggio invernale. Intorno regnava
la quiete; solo di quando in quando, in lontananza, risuonava qualche ululato
di cane o il rustico e monotono canto di un contadino. I due giovani si
sentivano vincere da una grande tenerezza; nella tranquillità, che regnava
sulla natura, essi udivano i loro cuori battere follemente in un desiderio di
gioia.
Ed ecco, Anna chiese:
— A che pensa, Giorgio?
— A lei, Anna. Vorrei che la
vita fosse un campo di neve, come questo, e che noi potessimo passeggiare
insieme sovr'esso, soli e felici.
— Poeta!
La voce di Anna era carezzevole
e si diffondeva dolcemente nella pace notturna. La fanciulla continuò:
— Ed io vorrei che noi potessimo
scendere insieme fra mezzo all'umanità a sfidare il vento ed a lasciarci ardere
dai raggi del sole.
— In qualunque modo, purchè
uniti e per sempre!
Miserere aveva pronunciate
queste parole con forza: il suo viso si era chinato su quello di Anna, la sua
bocca si era avvicinata alle labbra della fanciulla a cogliervi tutto l'amore
della sua anima.
Poco tempo dopo, Miserere partiva
per la città, ove, rafforzato dall'amore di Anna, voleva adoprarsi a
conquistare una gloria, che avrebbe, poi, offerta alla fanciulla come dono
nuziale.
*
* *
Una serie spiacevole di
avvenimenti mi obbligò a recarmi, per vario tempo, in paesi stranieri. Un
giorno, mentre percorrevo sbadatamente con lo sguardo una gazzetta, rimasi
colpito da un telegramma, che accennava ad uno spaventoso delitto, commesso da
Giorgio Miserere. Il giornale aggiungeva qualche cenno letterario sul mio
amico, compiangendo il tragico scioglimento di una vita di poeta. Non posi
tempo in mezzo e, varcata la frontiera; mi affrettai a recarmi nella città di
provincia, ove si era svolto il fatto sanguinoso e nelle cui carceri Miserere
era chiuso. Tuttavia, nei primi giorni non potei vedere il mio disgraziato
amico e dovetti contentarmi di raccogliere informazioni, che aumentavano la mia
ansia. Infine, ottenni il permesso.
Appena mi scorse, Miserere
scoppiò in un pianto dirotto. Aveva il viso livido e gli occhi luccicanti di
febbre.
— Che hai fatto, Giorgio?, gli
chiesi tremando.
— Non parlarmi; lasciami
piangere. Più tardi ti dirò tutto, come ad un confessore.
Rispettai il suo dolore e piansi
con lui. Non mi ero mai, sino ad allora, imbattuto in un'angoscia così
tormentosa. Le lagrime uscivano abbondanti dagli occhi del mio amico e i
singhiozzi gli scuotevano incessanti il petto, quasi volessero aprirsi un varco
attraverso il fragile involucro. Quando lo vidi più calmo, gli presi le mani
scottanti fra le mie, mormorando:
— Giorgio, non voglio saper
nulla. Il tuo dolore mi dice che sei stato lo strumento della fatalità.
—No, no; devi sapere ogni cosa.
Non potrei sopportare più a lungo questo segreto. Gli altri non mi
crederebbero; ma tu, che mi conosci da tanto tempo, porrai fede nelle mie
parole. Sono un omicida, è vero; ma, commettendo il delitto, ho ucciso anche me
stesso. L'amavo tanto, la mia povera Anna! Era per me l'unica gioia, era la mia
vita, la mia salvezza. Il destino ha voluto ch'io stesso divenissi lo strumento
della sua e della mia morte. Perchè? Che cosa avevo fatto di male per finire
così miseramente?
Si asciugò gli occhi e continuò
con voce interrotta dai singhiozzi:
— Ricordi le mie confessioni di
gioventù? Ti parlavo dell'orribile malattia, che mi perseguitava, dell'incubo
continuo dei sogni. Avevo creduto di trovare la salvezza in Anna, nella mia
adorata. Mi sentivo guarito e fiducioso nelle mie forze ricostituite. Come è
crollato tutto, in un momento, intorno a me!
Tacque per un istante, poi
riprese a parlare febbrilmente:
— Allorchè la sposai, ero
tranquillo. Attendevo la felicità dall'avvenire e mi immergevo dolcemente nel
sogno del mio amore, del nostro amore. Ci siamo adorati tanto, io ed Anna. Per
tre mesi abbiamo goduta una gioia, che non era di questa terra. Le mie angoscie
nervose erano sparite, la salute era entrata nel mio corpo, come nella mia
anima. Un giorno, mentre passeggiavamo per un sentiero di campagna, Anna
inciampò e cadde, battendo del collo sovra una pietra aguzza. Nel rialzarla, mi
avvidi che essa perdeva un po' di sangue da un lieve taglio, che le solcava la
pelle bianchissima della gola. Mi spaventai e volli ricondurla a casa. Ma Anna
stessa mi rassicurò, scherzando e dicendomi che vedevo rosso a ogni minima
goccia di sangue. Durante la notte, ebbi un incubo. Vedevo mia moglie distesa
per terra, con la gola aperta da un profondo taglio; tuttavia, essa rideva e
fissandomi con i suoi occhi risoluti gridava: Pauroso, vè com'è rosso! Mi
svegliai in preda al terrore; nè valsero a rassicurarmi le carezze di Anna,
alla quale non osai raccontare il mio sogno. Nella notte seguente l'incubo si
ripetè con una spaventosa lucidità di particolari. Soltanto, mentr'io
contemplavo atterrito il solco sanguinoso, che si apriva nel collo di Anna,
sentii una voce aspra, che urlava: Fallo tu, fallo tu, pauroso! L'incubo si
ripetè per diverse notti. Ormai, in preda alle mie antiche ossessioni, vagavo
come trasognato durante il giorno, sfuggendo la presenza di mia moglie,
quantunque mi fosse cara più della stessa mia anima. Avevo paura, nè sapevo
ancora di che! Ogni mattina mi svegliavo in un bagno di sudor freddo e in preda
a un tremito febbrile. Anna tentava ogni mezzo per racquetarmi, cercando invano
di penetrare il segreto del mio malessere. Più volte fui sul punto di
confessarle ogni cosa; ma mi trattenne sempre la sciocca paura di sembrarle
ancor debole. Forse, il destino non mi voleva risparmiare! Una notte, il sogno
sì accentuò. In esso distinguevo sempre il corpo di Anna e la ferita profonda
alla gola. Ma la voce misteriosa era divenuta più terribile e urlava: Uccidi!
Uccidi! Guarda rosso! Da allora non potei più fissare gli occhi sopra la mia
diletta senza tremare. Sapevo, dunque, di che dovevo temere; sapevo che se il
sogno avesse acquistata l'intensità della vita mi avrebbe costretto a
obbedirgli. Fu un martirio per giorni e giorni, durante i quali dovevo
sorvegliare me stesso in ogni gesto, in ogni pensiero. Ritraevo gli sguardi con
raccapriccio dalla gola bianca e morbida di mia moglie; eppure, contro ogni mia
volontà, non tardavo a riportarvi sopra la mia attenzione morbosa, spiando con
una specie di voluttà i minimi fremiti di quella pelle delicata. I coltelli da
tavola, i temperini mi attraevano e mi incutevano terrore ad un tempo. Li
accarezzavo con la mano, poi li gettavo lungi da me con un gesto disperato.
Nelle mie orecchie sentivo continuamente risuonare una voce aspra e incalzante,
che urlava: Uccidila! Uccidila! Guarda rosso! Per togliermi all'orribile
fascino dell'allucinazione, stabilii di lasciare mia moglie per qualche tempo.
Le parlai del mio progetto, senza spiegarne le cause, e ottenni facilmente
l'assenso. La mia povera Anna sperava, anch'essa, che un breve viaggio mi
avrebbe ridonata la calma, turbata, secondo le sue congetture, da una recrudescenza
della mia antica malattia di nervi. Dovevo partire il domani, per tempo. Perciò
mi coricai di buon'ora, dopo essermi rasa accuratamente la barba e dopo aver
riempita una valigia con gli oggetti di vestiario indispensabili per il
viaggio. Dapprima, dormii profondamente. Ma, di colpo, sentii uno spasimo per
le membra. Un peso venne a gravarmi sul petto, la voce suonò alle mie orecchie,
più minacciosa del solito. Ero sveglio o addormentato? Non so; ricordo solo che
mi sentivo la testa assordata da colpi e i polmoni soffocati dalla stretta di
una mano enorme. L'urlo acuto, straziante, intollerabile mi riempì il cranio:
Uccidila! Uccidila! Mi drizzai sulle ginocchia; avevo gli occhi e la bocca arsi
da fiamme. Al chiarore di un lume da notte distinsi il corpo di Anna, che le
coperte modellavano. Essa dormiva tranquilla, con la gola bianchissima scoperta
al mio sguardo. Qualcosa brillava sul tavolino, accanto al letto: un rasoio. Lo
afferrai tremando. In quel momento un ultimo barlume di ragione mi irrigidì nell'orribile
posa. Ma il collo di Anna era lì, biancheggiante nella penombra; la voce urlava
ancora nel mio cervello il suo sanguinoso comando. Cacciai un grido e diedi un
colpo furioso col rasoio su quelle morbide carni. Sentii un getto caldo
spiovere sulla mia mano, vidi il corpo della mia adorata dare un guizzo di
agonia e i suoi occhi spalancarsi verso di me con una straziante espressione di
stupore. E svenni.
Miserere cessò di parlare. Il
suo volto mostrava i segni del più profondo raccapriccio e le sue mani
tremavano convulse nelle mie. Guatò intorno a sè con paura, poi riprese:
— Tutti parlano di gelosia! No,
no! Ci amavamo tanto! Eravamo troppo felici! Ma perchè devo raccontare ai
giudici la causa vera della sua morte? Mi crederebbero un pazzo e, forse, mi
assolverebbero. Ed io, comprendi?, voglio esser condannato, condannato a morire
di terrore nella solitudine di una prigione, a morire coll'immagine della mia
adorata innanzi agli occhi, solo col mio delitto e con lo spasimo, che mi
consuma il cervello!
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