Era una Pasqua, giorno in cui i
pazzi potevano radunarsi, eccettuati i furiosi, nell'ampio cortile a scambiar
parole e a godersi il soleggiato meriggio. Ce n'erano una ventina: qualche giovane,
molti avanzati in età e tre donne. Qualcuno discuteva animatamente sovra i
soggetti più paradossali, altri scaldavano la pancia al sole trinciando gesti e
sputando sentenze. A un tratto, un vecchio dai capelli ricciuti e dal viso
ingombro di pustole, fattosi largo sino al centro del cortile, urlò
— Uscieri, intimate il silenzio
e annunziate che il Tribunale dell'Umanità sta per giudicare i mortali.
Il silenzio si stabilì
immediatamente nella turbolenta riunione. La curiosità e più ancora la facile suggestionabilità
dei mentecatti li inducevano a sospendere per il momento i discorsi ed a
prendere parte al nuovo giuoco. Il vecchio riprese a parlare:
— Noi, Padre Eterno, in nome
delle sante leggi, che governano il mondo, intimiamo all'umanità di presentarsi
al nostro cospetto e di confessare le proprie colpe. Troppo a lungo abbiamo
tollerato che gli impuri uomini si compiacessero nelle opere della carne e
prolungassero lo scherzo, che noi facemmo creando il loro primo progenitore,
col popolare la terra di creature deformi e manchevoli. Olà, la mia pipa!
Un uomo magro e lungo, con un
volto giallognolo di anacoreta, si avanzò umilmente e si pose al fianco del
vecchio, che lo accolse con aria paterna. Colui era, o almeno si credeva una
pipa e si dichiarava felice allorchè qualche benigno amico esprimeva il
desiderio di utilizzarlo nelle sue vere funzioni.
Il bizzarro presidente continuò
il suo discorso:
— Tra una pipata e l'altra,
annoiati dell'ozio, che ci procurava la nostra alta nascita, abbiamo formato un
uomo con la creta. Speravamo ch'egli si divertisse; ma, poichè s'abbandonava,
al pari di noi, all'indolenza infeconda, gli abbiamo assegnato una consorte,
che gli occupasse le ore con le sue chiacchiere e con la sua lussuria. Ma che
accadde? I figli della prima coppia cominciarono a guardarsi con occhio torvo e
stesero le mani omicide e sacrileghe l'un sopra l'altro. Ahimè! Pochi anni
trascorsero e dovunque la sfrenata violenza e l'astuzia ancor più torbida
stabilirono la loro sede. Non l'onore delle fanciulle, non i vincoli del
sangue, non i legami della tenerezza riuscirono ad ostacolare lo sfogo delle
più basse passioni. Basta! Basta! Per il nostro venerato ufficio! O saremo
costretti a far citare la nostra stessa persona per trascuranza negli obblighi professionali.
Pel cielo, se qualcuno ha da parlare in propria difesa s'avanzi, poichè la
nostra collera non è ancora divampata.
Una donna si tolse dal gruppo
dondolando il corpo macilento di tisica e girando intorno gli occhietti rossi e
cisposi.
— Signore, cominciò, io sono
Venere e chiedo pietà per le fatiche, che ho sopportate con questi
sconoscentissimi uomini. Ho lavorato molto per renderli ossequienti alla mia
volontà, mi son logorati gli occhi e le membra per procurar loro quella
felicità, che soltanto il mio amore può dare. Tutto fu vano! Cominciarono con
l'innalzarmi templi. A quell'epoca li vedevo in lunghe file venire a deporre le
loro offerte ai miei piedi. Erano teneri e timidi come agnelli e si lasciavano
carezzare dalle mie dolci mani. Ma un vento impuro ha abbattuti quei
ricettacoli dell'amore. Ogni mortale ha sprezzati i tesori, ch'io prodigavo con
lèna instancabile, e s'è compiaciuto nell'antepormi l'interesse e l'ipocrisia.
Mi son vista cacciata di paese in paese, finchè ho dovuto rifugiarmi, lo
confesso con rossore, sotto una maschera di belletto, in stanze lucide e
puzzolenti. Mi restava ancora qualche poeta; ma i liquori e il vino mi hanno
rubati anche questi ultimi adoratori.
— Ehi! Ehi! Buona donna!, la
interruppe una voce stizzosa; non dite male del vino!
Un giovanotto grasso e rubicondo
si avanzò affannato. Portava sul petto un cartello con su scritto a lettere
cubitali: Vino Chianti.
— Signore, cominciò a dire
rivolgendosi al vecchio giudice, io sono, qual mi vedete, un onesto fiasco di
Chianti e vi prego di assaggiarmi. Anch'io feci ogni sforzo per ottenere il
favore degli uomini e, a dispetto di Venere, riuscii a procurar loro una certa
quantità di piacere. Ma in questi ultimi anni l'umanità cominciò a disprezzarmi
e ad accorrere in certi orribili casotti, ove si vende la morte in bicchieri
microscopici e puzzanti d'alcool. Ahimè! Le lagrime, che ho sparse, han servito
soltanto ad annacquare il puro frutto dei colli toscani, ch'io serbo entro di
me. Signore, muovetevi a compassione e permettetemi di offrirvi un po' del mio
contenuto. Esso donerà in breve una piacevole allegria al vostro cervello e
farà arrossire il vostro naso come una pudica fanciulla, che oda per la prima
volta parole d'amore.
— Via, via, lo rimbrottò il
vecchio; non posso ascoltare le vostre chiacchiere. Del resto, nutro per voi
molta benevolenza e sarei il più pazzo dei giudici se vi condannassi.
Un terzo demente si fece
innanzi. Aveva un'aria marziale e camminava battendo i tacchi e arricciandosi i
baffi.
— Buon vecchio, disse, da lungo
tempo mi conosci, poichè hai ricevuto un gran numero di messaggeri, uccisi
dalle mie mani. Io sono il prode cavaliere Bajardo, uomo senza macchia, se ne
togli quelle, che le abitudini del campo hanno deposte sovra i miei abiti. Tu non
oseresti fulminare il dio della guerra, nè potresti mirare imperterrito la mia
fine, poichè ben sai che senza di me nulla varresti tu stesso nel mondo. Chi ha
difeso i tuoi unti, i monarchi della terra; chi ha prestato il braccio ai tuoi
sacerdoti; chi odia più di me i sapienti, i ribelli e i poeti? Non sono io il
re della terra, come tu sei il re dei cieli? Non sono io Bajardo e Turenna e
Montecuccoli? Non risiedono nella mia mano di ferro i destini della società?
Prova a smuovermi. Insieme a me crollerebbero tutte le antiche istituzioni e il
mondo commosso tremerebbe nelle sue viscere.
— Prode cavaliere, principe
della distruzione, così gli rispose il vecchio; noi conosciamo i tuoi meriti e
ci guarderemmo dal menomarli. Hai tu lagnanze da esporre? Gli uomini ti
apprezzano e ti servono secondo i tuoi desideri?
— Buon padre, essi mi amavano un
tempo e ancora adesso mi rispettano per timore. Ma lingue velenose tentano
d'annientare la mia riputazione e vanno predicando che la pace è preferibile
alla guerra e che il benessere risiede nell'amore e nella concordia e in altre
panzane da bambini.
— Orvia, puniremo i ribelli.
Qualcuno chiede ancora la parola? Si avanzino i malcontenti e coloro, che
temono la mia folgore.
Un ometto inchinò il corpo tondo
e untuoso, poi cacciò fuori una voce stridula come il canto di una cicala:
— Signore, risplendo io
abbastanza? Quanto vedete in me è oro, poichè io sono una magnifica moneta da
venti lire. Ogni uomo vorrebbe possedermi; per me si sacrificano vite, si
ripudiano virtù, si uccidono onestà ed onore. Volete ridere? Ho visto fanciulle
fiorenti vendere i loro freschi corpi per ottenermi, ho visto giovanetti
avvelenare i padri, mariti assassinare le mogli. Allorchè esco a passeggiare mi
vedo seguito da un codazzo di uomini, che si accalcano, infuriando l'un contro
l'altro. E tutti stendono la mano verso di me, facendo luccicare gli occhi
nell'ombra. Sono obbligato a correre per le vie come un pazzo, volgendo
indietro lo sguardo pauroso su quella fiumana di gente dagli aliti caldi e dai
gesti violenti. Oramai, sono stanco e quasi risoluto a gettarmi in un mucchio
di immondizie, ove mi raccoglierà qualche onesto spazzaturaio.
— Non lo fare, interloquì un
altro pazzo; o per tutto l'oro del mondo ti avrò in conto di una femminetta!
L'interruttore era un poeta
dagli occhi azzurri e innocenti e dalla voce melodiosa: uno strano fanciullone,
che cantava e piangeva e pregava la luna con un fervore da esaltato ed una
dolcezza da donna. Si avanzò veloce e, inchinatosi leggermente al vecchio,
continuò:
— Ho inteso molte chiacchiere,
ma non ho visto un essere degno di parlare e di essere ascoltato. Io sono la
Pazzia, signore, ed anche la Saggezza, poichè la maggiore saggezza risiede,
appunto, nella demenza. Ogni creatura umana è soggetta al mio impero, ch'io
rendo piacevole o doloroso a seconda delle circostanze. I monarchi mi devono il
loro trono, poichè ispiro la devozione nei sudditi; i sacerdoti mi devono il
loro culto, poichè propago la fede; le donne mi devono la loro gratitudine,
poichè infiammo il cervello dei maschi; gli affaristi mi devono le loro
sostanze, poichè spingo l'astuzia a farsi giuoco dell'interesse e la stoltezza
a servire l'ipocrisia. I più celebrati figli della gloria sono miei figli, i
poeti mi riconoscono per loro signore e mi invocano ad alte grida nelle notti
di luna. Io scherzo con la primavera, piango con l'inverno, farnetico con
l'autunno e riposo con l'estate. Io sono il principio e la fine, la grande
Causa, il male ed il bene, la febbre e il sonno. In poche parole, mi chiamo
Follia e ispiro le azioni degli uomini.
— Silenzio, maleducato! gli urlò
iroso il vecchio giudice. La tua lingua sacrilega è ben degna d'essere
affumicata come quella di un bue!
— Silenzio a te, vecchio bastone
da imperatore, mummia incartapecorita, ciarpame da rivendugliolo, grappolo
d'uva secca, testa mal verniciata di pipa, magistrato da strapazzo. Il tuo
tribunale è finito e comincia il mio. Fai le tue preghiere, vecchio; poiché la
ghigliottina non ha tempo di aspettarti. Voglio che il tuo capo, reciso, faccia
pompa di sè sovra la più alta torre della città, se pure esistono una torre e
una città all'infuori dei nostri cervelli. Orsù, balliamogli attorno una danza
macabra, che lo renda più sollecito per la propria esistenza che per le colpe degli
altri.
Un urlo generale accolse la
proposta bizzarra e una ridda spaventosa cominciò a infuriare nel cortile, fra
strida e ululati e bestemmie.
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