Da tre mesi subivo l'orribile solitudine
della prigione, poichè gli uomini si erano assunto il diritto di costringere la
mia anima alla terrorizzante meditazione dell'abbandono e il mio corpo
all'umidità e al cattivo cibo del carcere. La stanza, ch'io occupavo, piuttosto
grande, aveva una forma rettangolare; le mura, cementate di fresco, non
portavano alcuno di quei segni e di quelle dolorose confessioni che, ciniche o
puerili, sono solite adornarle; ma grevi e di un colore bianco sporco uniforme
circoscrivevano inesorabilmente il mio sguardo nel loro silenzio di pietra.
Di contro al letto, o meglio al
tavolaccio, che serviva di giaciglio notturno, si apriva nel profondo spessore
della muraglia una breve finestra, difesa da grosse sbarre, dalla quale i miei
occhi stanchi potevano fissare un monotono quadrato di cielo.
Questa era la mia dimora da tre
lunghi mesi e questa la mia solitudine, rotta solo due volte al giorno dalla
visita di un melanconico secondino dal volto giallo e rugoso e dagli occhi
assonnati. Le ore scorrevano nella più incresciosa monotonia; nè la mia
immaginazione, sbattuta dalle ultime vicende della mia vita e dal tetro
soggiorno, poteva riempirle se non coi tristi fiori della meditazione e dei
ricordi più dolorosi. Avevo tentato più volte di ingannare il tempo con ingegnosi
mezzi, or seguendo il lento procedere di qualche nuvola pel breve spazio di
cielo, concesso alla mia vista, ed ora cercando per la volta della mia stanza e
lungo gli angoli qualche solitario ragno, che mi tenesse virtual compagnia.
Ahimè! Neanche la consolazione di Silvio Pellico m'era concessa dalla fortuna!
Le pareti della mia stanza, spiegate innanzi ai miei occhi come quattro grandi
fogli di carta, avevano più volte indotta la mia mano a segnarvi su qualche
frase, dettata dalla mia angoscia. Pure, m'ero sempre sottratto alla
tentazione, poichè sapevo che più crudele sarebbe apparsa la mia prigionia il
giorno, in cui avessi potuto rileggere i segni visibili delle ambasce passate.
*
* *
Un giorno, mentre, seduto sul
tavolaccio, lasciavo libero il corso ai più tetri pensieri nè m'avvedevo che
lacrime di rabbia e di disperazione scorrevano sulle mie guance, fui
violentemente distratto dalle mie riflessioni da un rumore come di un corpo che
urtasse contro la porta. I miei occhi, rivolti verso di questa, videro allora
un topo grigio, piuttosto grosso, che, sbucato di sotto al legno, si era
fermato vicino al muro volgendo i vivi occhietti ora a me, ora all'uscio. Al di
là di questo sentivo distinto il soffiare stizzoso di un gatto e vedevo
sporgere dall'interstizio, lasciato tra il legno e il pavimento, la punta di
una zampetta felina.
Il topo era sempre lì, immobile.
Un'idea mi passò rapidamente pel cervello. S'io avessi potuto impadronirmi di
quel piccolo essere, ne avrei fatto un compagno del mio abbandono. Tentai di
attirarlo con un leggero richiamo. Con mia meraviglia vidi il topo avanzarsi
saltellando verso di me, fissandomi sempre con i suoi furbi occhietti. Ai piedi
del letto si fermò di nuovo. Cercai di allungar dolcemente una mano a una lieve
carezza. Le mie dita sfiorarono quella pelle liscia senza che la bestiolina
facesse il minimo atto di fuga. Reso più ardito, volli afferrare il
corpicciuolo, che si sottrasse rapidamente alla mia stretta, senza, però,
allontanarsi.
— Orvia, gli dissi, quasi dimentico
della mia umana condizione e dell'impossibilità di una conversazione tra noi,
orvia, non t'accorgi ch'io sono disgraziato al pari di te? Il nostro destino è
uguale, poichè costringe te a un rifugio sicuro contro le unghiate di un gatto
e me a un soggiorno monotono sotto la pressione ferrea di una legge inumana.
— E chi ti dice, povero
prigioniero, ch'io non sia ancor più infelice di te, che, almeno, nella
solitudine vedi soltanto il tuo dolore e di quello ti abbeveri?; così mi
rispose a un tratto il topo con voce chiara e squillante, mentr'io, attonito e
più ancora spaurito, contemplavo con profondo terrore quell'essere, che poco
prima era stato per me oggetto di speranza.
— Certo, se tu fossi uno dei
soliti arroganti uomini, che bestemmiano e agiscono come bruti, non mi fermerei
a discorrere teco, ma ti sfuggirei come nemico più pericoloso dello stesso
gatto, che or ora m'inseguiva. Ma ho visto le tue guance ancora bagnate di
lacrime, i tuoi occhi annebbiati da una profonda mestizia ed ho voluto apportarti
quel poco conforto, del quale io son capace. Da molto tempo abito in questa
triste prigione; ormai, ne conosco ogni recesso e ogni abitatore. Non conoscevo
ancora te, poichè da un pezzo la mia età piuttosto avanzata mi impediva di
salire qui in alto, ove tu abiti. Oggi il destino e un malefico gatto mi han
dato agio di farmi un nuovo amico, se pure tu permetti a un vecchio solitario
di chiamare con tal nome un giovane addolorato. Se vorrai, ti terrò buona
compagnia sino a questa sera alle nove, ora nella quale devo alleviare le
angosce di un altro prigioniero, più vecchio e più di te bisognoso di conforto.
Mi ero un poco rimesso dal mio
stupore; perciò potei ringraziarlo cortesemente, affrettandomi ad accettare la
sua lusinghiera offerta. Spinsi la gentilezza sino ad offrire al mio nuovo
amico l'unica sedia della stanza; ma quello, senza badarmi, dopo essersi
arrampicato sul tavolaccio al mio fianco, continuò il suo discorso.
*
* *
— Mio povero ragazzo, credo al
tuo dolore, perchè credo al dolore di quanti prigionieri ho visti fin'ora. S'io
fossi uomo tremerei all'atto di pronunciare una sentenza di condanna. Come
possono gli esseri misteriosi e terribili, che si chiamano giudici e solo
perchè vestiti a lutto non indietreggiano innanzi all'idea della morte, come
possono condannare un loro simile, un uomo, dotato di forza e di intelligenza
al pari di loro, alla solitudine e al tormento del carcere? Quanti fra i miei
vecchi amici delle prigioni ho visti morire maledicendo e quanti, più
spaventosi ancora, ho assistiti nell'ora ultima: ed essi rimanevano muti, gli
occhi aperti sul vuoto, le labbra convulsamente serrate. Il peso di tante
esistenze dovrebbe accasciare coloro, che giudicano e pensano di colpire il
delitto nell'uomo. I primi giorni di prigionia sono i più quieti. Qualcuno
spera ancora, altri si abbandonano a un'accasciata indifferenza, che li salva
pel momento da una tortura più atroce. Ma dopo, dopo, quando ogni speranza è
svanita, quando le quattro mura del carcere si drizzano innanzi ai loro occhi
come un pesante infinito di spasimo, simboli del più orribile fra i destini e
della perversione degli uomini, quanti ho visti in preda alle torture infernali
dell'angoscia e della paura. Sembrano scimmioni in gabbia; digrignano i denti,
scuotono le sbarre e si consumano e intisichiscono, privi di distrazioni, privi
d'aria, privi di donne, in un solitario vaneggiare di ubriachi di terrore.
Qualcuno, più forte, resiste per qualche tempo, tenta di fare un po' di luce
nel proprio spirito, di giudicare a sua volta. Ma a poco a poco la monotonia
dell'esistenza, l'ossessione della fantasia fanno anche di questi pochi dei
deboli strumenti, delle povere vittime della pazzia e della morte. Oh! Quante
morti precoci e quanta strage di anime e di corpi in questi umidi soggiorni!
Quanti, che la sera innanzi erano ancora viventi, al mattino ho trovati stesi
sul loro lettuccio, le mascelle aperte, le labbra coperte di una spuma
sanguinolenta. Qualcuno muore meglio, quietamente, con le braccia incrociate
sul petto, senza maledire. Ma su tutti i volti cadaverici ho letto la condanna
inesorabile della vostra giustizia. Nè le sole morti del corpo ho viste, ma
anche quelle, più spaventose, dell'anima. I prigionieri, talvolta, fanno come i
leoni in gabbia; squassano le catene per qualche tempo con furia e passeggiano
per la stanza urlando e alzando i pugni a una vana minaccia. Poi sopravviene il
pianto, il pianto lungo e silenzioso per ore e ore, il corpo accasciato sul
letto, i denti affondati nel lenzuolo a lasciarvi una traccia sanguigna. E poi,
a un tratto, non più uomini, ma spettri imbambolati in preda ai loro incubi,
quegli esseri impazziscono. E allora li vedi rimanere giornate intere immobili
a contemplare il soffitto, gli occhi bianchi, cacciando fuor dalla bocca un
loro strido continuo e snervante. Di costoro anche il carceriere ha paura,
quantunque siano i più inoffensivi. Hanno in sè qualcosa di più potente della
maledizione: sono le vittime più accusatrici. Il tuo dolore è ben piccolo,
paragonato a quello di tanti e tanti tuoi compagni di carcere. Ascoltami. C'era
una creatura, qualche metro sotto di te, giovane e ancora bella, una ragazza
condannata per infanticidio. La ricordo ancora col suo corpo magro e infantile,
le mani bianche venate di azzurro e il viso fine di madonnina. Era buonissima,
malgrado l'apparenza nervosa: la più mansueta creatura, ch'io abbia mai
conosciuta. Aveva ucciso un bambino perchè soffriva la fame. Essa singhiozzava
spesso, mormorando: «Perchè mi fanno colpa d'aver tolto dal mondo un disgraziato?
Ho creduto di far bene. Tanto, avrebbe sofferta la fame e la miseria!» Talvolta
mi diceva: «Non comprendo gli uomini. Che cosa hanno creduto? Speravano forse
di colpire la madre più atrocemente di quanto mi sia colpita da me stessa? Ho
uccisa la mia creaturina, che adoravo; prima di strozzarla, la ho baciata forte
forte sul viso, sulle manine. Poi, ho strette le dita intorno al suo collo
magro, piangendo. I giudici si mostravano indignati. Perchè? Avevo fatto loro
alcun male? No; il male lo avevo fatto a me stessa, togliendomi l'unico amore
della mia vita, il mio figliuolo. E lo ho fatto pel bene di lui. Prima di
decidermi, ho battuto a tutte le porte, anche a quelle dei giudici. Mi hanno
riso in faccia; qualcuno mi ha proposto di rendermi madre ancora una volta. In
casa c'era la fame. Che fare? Tanto valeva ucciderlo, quel piccolo essere
malato, che respirava a mala pena.
*
* *
— Impazzì anch'essa. Prima che
lasciasse il carcere, la vidi ancora una volta. Era tutta bianca, aveva sulla
bocca un quieto sorriso e con le braccia faceva atto di cullare un bimbo.
Il topo cessò di parlare, si
grattò in fretta un orecchio, poi mi diede la buona notte e sgusciò via dalla
stanza.
Il domani mutai prigione.
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