È notte. Per le strade monotone
di Londra, ove la folta nebbia grava a guisa di umido tendone avvolgendo nel
suo minuto pulviscolo le case nere e melanconiche, non suona più alcun passo
d'uomo nè s'ode voce elevarsi a rompere il gravoso silenzio.
Nella taverna di mastro Pill non
si scorge più nessun avventore. Soltanto, dietro il banco, si distingue al
chiarore di una grossa lucerna a olio il vecchio padrone col suo tranquillo
profilo di uomo pingue e col volto, un po' sonnacchioso, curvo sopra uno
scartafaccio a leggervi non so quali diavolerie di cifre e arabeschi. Sul banco
sporco e ingombro di tazze, accoccolato e con gli occhi chiusi, si tiene il
grosso gatto di casa, il sibarita Poll, lo spirito benigno del luogo: una
magnifica bestia dal pelo lungo e morbido, listato di bianco e grigio, e dal
muso tutto bianco come un batufolo di cotone, tranne per una macchia scura
intorno all'occhio sinistro.
Alla solida porta di quercia
della taverna s'ode un picchio sonoro. Poll balza sulle zampette, spalancando
gli occhioni fosforescenti e allungando il muso verso l'entrata. Quanto a Pill,
più tranquillo per carattere e per abitudini, si contentò di alzare il volto e
di chiedere:
— Chi è là!
— Apri, Pill, mio piccolo buon
vecchio Pill!; suonò una voce un po' tremolante, alla quale seguì subito
un'altra recisa e brutale:
— Apri, è il re!
D'un salto il taverniere fu alla
porta, la spalancò inchinandosi verso l'ombra per quanto lo permetteva la sua
corpulenza.
Si rovesciarono impetuosamente
nella taverna cinque cavalieri con i ricchi abiti sporchi e puzzanti di vino.
Camminavano con passi malfermi, quantunque si sforzassero di allargare le gambe
per meglio sorreggere il corpo. Il primo entrato si tolse il cappello e lo
buttò in un angolo della stanza. Poi, prese una sedia e vi si pose sopra a
cavalcioni, appoggiando le braccia sulla spalliera e il mento sovr'esse. Aveva
un volto così bianco da sembrare coperto da una maschera di marmo. Per entro
quel pallore si aprivano gli occhi lucidi e iniettati di sangue. Uno fra i suoi
compagni, un uomo alto e robusto dalla faccia imberbe, allora infuocata dall'influsso
del vino, si sdraiò per terra ai suoi piedi. Gli altri sedettero alla rinfusa.
— Sire; cominciò il taverniere
rivolgendosi all'uomo sdraiato al suolo. Ma quello lo interruppe sghignazzando:
— Buon Pill, non dar la stura alla
tua ciancia. Piuttosto, sollevaci dalla nostra afflizione, portaci vino, molto
vino, barili di vino!
L'orgia, interrotta chi sa come
e dove, riprese silenziosamente il suo corso. Quegli uomini bevevano con calma,
trangugiando boccali su boccali col solito gesto monotono e indifferente. Ogni
tanto qualcuno faceva sentire un sordo brontolio di soddisfazione. Dopo
mezz'ora, dei cinque uomini tre erano rovesciati al suolo pesantemente, come
tori colpiti da una mazzata, e ora giacevano nelle pose più disparate col viso
voltato al soffitto o abbandonato sul terreno umido tra i frantumi di tazze
vuotate e i rigagnoletti del vino.
Rimanevano ancora saldi al
combattimento il re e l'uomo dal volto bianco. Dietro il banco Pill contemplava
tranquillamente la scena. Quanto al gatto, si era riaddormentato.
— Armerer, mugghiò il re ad un
tratto; ho fame!
Il suo compagno ebbe un riso
stridulo e secco:
— Sì, Carluccio, ti sfamerai coi
sorci, che infestano questa cantina!
— Qualunque cosa! ho fame!,
ripetè il re lamentosamente; e diede in giro un'occhiata.
— Per tutti i diavoli!, urlò; ho
trovato! Orvia, buon Pill, alzati e muovi le tue gambe di podagroso. Accendi il
fuoco, che il diavolo ti consumi, poi sgozza il tuo gattone e levagli la pelle
e gli intestini e fallo cuocere a guisa di leprotto. Su, sbrigati, vecchio mio;
datti attorno!
Il buon taverniere impallidì,
tentò di pregare, fece atto di inginocchiarsi innanzi al re. Ma questo, senza
curarsi di lui, si alzò pesantemente dal suolo, appoggiandosi all'amico seduto,
e, preso all'improvviso il povero Poll per la pelle della schiena, tenendolo
sollevato per aria, mentre il gatto dibatteva le zampe nel vuoto e cacciava
fuor dalla strozza uno spaventevole mugolìo, col breve pugnale, che aveva al
fianco, gli incise profondamente la gola. Il sangue sgorgò dalla larga ferita
zampillando a getti ritmici, inondando le mani e il corpo del re e
rovesciandosi fin sul capo e sul volto dell'uomo seduto.
Il re lanciò il cadavere al
taverniere, ridendo rumorosamente, e si gettò di nuovo sul suolo. Il vecchio
Pill prese con tristezza il corpo del suo amico e compagno e si avviò verso la
cucina. Qualche lagrima scorreva sulle sue grasse guance, subito asciugata dal
dorso di una mano tremante. Rimasti soli, il re e Armerer si guardarono in
volto. Il re vuotò ancora un boccale, poi lanciò con mano ferma il recipiente
contro una parete. I pezzi di coccio ricaddero sui tre dormienti, che non si
mossero.
— Orvia, basta!; borbottò.
Si alzò barcollando e a
tentennoni andò ad appoggiarsi al banco. Armerer si drizzò anch'esso, dopo
qualche vano tentativo. I due uomini si trovavano l'uno di fronte all'altro: il
viso del re era sempre arrossato come da una vampa di fuoco, quello di Armerer
terribilmente bianco.
— Armerer, amor mio, borbottò il
re, sii gentile; svelami il nome della bella misteriosa, che ti rende in questi
giorni melanconico e seccante.
Armerer chinò il volto senza
rispondere.
—— Non vuoi?, continuò il re. Ti
darò io l'esempio della schiettezza, ti confesserò tutte le mie debolezze passate,
presenti e fors'anche le future. E spero che vorrai imitarmi.
Stese le braccia innanzi, attirò
a sè il compagno e lo baciò a lungo sul volto; poi s'inginocchiò ai suoi piedi,
lentamente.
— Sarai il mio prete e mi darai
anche l'assoluzione.
Alzò il capo verso Armerer,
tenendosi ai suoi fianchi con le mani, poi cominciò a far suonare la taverna
delle sue strane confessioni, balbettando, irritandosi, sorridendo talvolta ai
ricordi, tal'altra versando copiose lagrime. Uscivano dalla sua bocca i nomi
più diversi, nomi di popolane e di gentildonne, di principesse e di sgualdrine.
Le aveva amate tutte, a suo tempo, una dopo l'altra. Aveva per ciascuna un
nomignolo, un episodio nel quale condensava il suo ricordo amoroso. Le aveva
anche tutte abbandonate.
Armerer, ora, si trovava
anch'esso in ginocchio. Entrambi si erano reciprocamente passate le braccia
intorno al collo e ridevano e piangevano insieme, mescolando le lagrime e
baciandosi sulla bocca. Parlavano tutti e due, adesso, alternando le
confessioni, i sospiri e le risate.
Infine, tacquero. Il silenzio
venne interrotto da Armerer:
— Carluccio, narrami la tua
avventura, l'ultima, quella della donna mascherata che hanno udita urlare nella
tua stanza!
— E mi dirai tu, poi, lo
interruppe il re, il nome della tua bella incognita?
— Te lo giuro, per la testa di
mia moglie!
Il re gli avvicinò ancor più il
viso al viso abbassando la voce sino a renderla quasi impercettibile.
— È una gran dama; l'ho voluta
possedere. Essa si credeva forte ed ha rifiutato. Ho insistito; altro rifiuto.
La ho fatta chiamare nel palazzo. Era sicura di sè; è venuta con la maschera
sul volto, ma con la tranquillità nell'anima. La ho pregata, scongiurata, ho
baciato i suoi piedini, che avrei voluto mordere. Rimaneva inflessibile.
Allora, senti, ho chiamati due fidi, che la hanno afferrata e, malgrado la sua
resistenza, spogliata e avvinta al letto. Urlava, sai, roteando gli occhi e
mostrando i suoi bianchi dentini. Il suo meraviglioso corpo nudo aveva
terribili fremiti. Ed io vi ho affondato le mie dita, ho palpate quelle carni
elastiche e ben nutrite, ho passata la mia bocca su quel viso contratto, ho
costretto quel bellissimo corpo a subire i miei abbracci. Poi, la ho scacciata
dalle mie stanze come una prostituta.
Armerer rideva sonoramente,
facendo scintillare gli occhi arrossati in mezzo alla bianchezza del volto.
— Chi era costei? Dimmi il suo
nome!
— Non ricordo, mugolò il re; non
posso ricordare. Aspetta. Lady.... maledettissima.... lady... Perdio, ci sono;
era lady Irmina.
Uno strido spaventevole echeggiò
nella taverna. Armerer si era alzato bruscamente, respingendo con violenza il
corpo del re, che rotolò sul terreno. Poi, chinando il robusto torso, mugghiò
sul viso spaurito del monarca:
— Hai detto? Ripeti! Ripeti!
Il re non rispose. La paura e
l'ubriachezza lo avevano pietrificato. Mosse le labbra, ma senza farne uscire
alcun suono.
Sulla soglia della cucina mastro
Pill, immobile, tenendo fra le mani un piatto, ove posavano i resti del povero
Poll, contemplava calmo la scena.
— Lady Irmina! La mia amante! La
donna che ha addomesticato questo mio cuore selvaggio! Maledizione! Lady
Irmina! Irmina! E tu, monarca ubriaco, re da trivio, hai contaminato le sue
carni, hai avvicinato la tua bocca a quella della donna mia, mia soltanto!
Impossibile! Lady Irmina!
Si piegò ancor di più sul corpo
del re e continuò, sputandogli in volto le parole:
— Carlo, io, Armerer, tuo primo
suddito e amico, ti giuro che uno di noi due non uscirà vivo da questa taverna.
Potrei scegliere la tua morte e, così come faccio di questa spada, spezzarti.
Ma che direbbero i tuoi soggetti, se domani il loro benamato sovrano fosse
trovato ucciso in una lurida stanzaccia? Forse riderebbero, fors'anche
batterebbero le mani come a una bella commedia. Ma i re devono morire sul letto
regale, se anche hanno vissuto per i letti delle sgualdrine. Metti il cuore in
pace, re pagliaccio; anche tu morrai con decoro! Sarò io, Armerer, che partirò
per l'inferno. Addio, Carlo; Armerer, il tuo ultimo amico, ti precede nella via
dei dannati!
Si rialzò, guatò ancora il re,
ebbe ancora un movimento di rabbia, poi strappò risolutamente dal fodero un
corto pugnale e con un colpo improvviso se lo conficcò per intero nel petto. Il
suo corpo ebbe una rapida convulsione, le braccia gli sbatterono in aria, gli
occhi si spalancarono, divennero opachi. Stramazzò sul suolo: dalla bocca
semiaperta sgorgò un rivoletto di sangue scorrendo sulla bianchezza marmorea
del volto.
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