Ogni mattina, in qualsiasi città
un po' importante di questo mondo, dalle ore otto alla nove, centinaia e
migliaia di individui abbandonano le loro case, le camerette silenziose su su
all'ultimo piano o i piccoli appartamenti modesti, per recarsi a riempire gli
stanzoni, le camere, i bugigattoli, che costituiscono il loro ufficio. Sono i
veri paria della società, facilmente riconoscibili dal vestire dimesso e
poveramente corretto, dal volto tra lo scaltro e il mortificato (come di chi
inghiotta una pillola amara e si lecchi le labbra per dimostrare agli altri che
era zucchero), dal modo, infine, tutto caratteristico di camminare strisciando
lungo i muri delle case a piccoli passi precipitati. Ogni giorno, per ore e
ore, queste macchine da tavolino, automi condannati a un rassegnato lavoro, si
sforzano di accumulare innanzi a sè, sul tavolo coperto di macchie d'inchiostro
e tormentato da colpi di temperino, il prestabilito numero di fogli, scritti
col solito carattere ufficiale, che è un di mezzo tra il calligrafico e il
puerile. Salvo, però, in assenza dei superiori, a raddrizzare un poco la
schiena, guardandosi attorno con una cert'aria soddisfatta e scambiando quattro
parole coi vicini di lavoro.
Eterni bambini, che il bisogno
ha costretti nei suoi vincoli grevi, foggiandoli come esperto artefice al loro
ambiente! Umili coi forti, arroganti con gli inferiori: questa, in genere, la
loro divisa. Non conoscono o poco il lavoro paziente e comune della formica; la
loro stessa posizione di appena sfamati li obbliga a una lotta senza tregua con
i colleghi per la gratificazione o per l'avanzamento: lotta sorda, ostinata,
nascosta sotto un'apparenza melliflua e amichevole e che pure lascia sovente
sul campo vittime vergognose.
Ho conosciuto intimamente uno di
questi colpiti dalla malignità del destino. Il mio amico, però, si staccava
molto dal tipo comune. Era un sognatore, un poeta, tutto, tranne un impiegato.
Il giorno lo passava curvo a scrivere sul suo tavolo d'ufficio; ma la sera e la
notte rubava le ore al sonno e al riposo per godere interamente la sua libertà
relativa. Talvolta, seduti in un angolo di osteria, il bicchiere pieno innanzi
a noi, tra il denso fumo e il puzzo d'olio e di alcool e le grida dei marinai,
ci facevamo reciproche confessioni. Egli non era felice; e come poteva esserlo
nel costringimento assoluto della sua generosa individualità? Ripeteva spesso
le parole, che un ispettore gli aveva lanciate in pieno viso come una minaccia:
«Qui non si ragiona, si obbedisce!». Perdio, ma non comprendevano, quei
signori, che anch'egli possedeva un'anima, un pensiero suo, che poteva sentire
e ragionare come e più di loro, che, infine, non era una macchina, non era un
automa nelle loro scaltre mani? Dicendo questo il mio amico piangeva. Ripeteva
sempre che presto o tardi lo avrebbero cacciato dal paese della polvere, come
chiamava con malinconica ironia l'ufficio; lo avrebbero ridotto alla più
orribile miseria. Un giorno mi confessò che s'era avventato contro un
superiore, urlandogli sotto il muso arrogante: «Sono anch'io un uomo, un uomo,
capite?».
Dei compagni d'ufficio non
poteva lamentarsi. Aveva un capo-sezione, ch'era un tesoro un cuore d'oro e una
chiara intelligenza. Me lo descriveva spesso con una specie di compiacenza. Un
corpo robusto, diceva, e un animo energico sotto i lineamenti un po' femminei
del volto, rischiarato da due occhi limpidi e azzurri pieni di bontà e di
penetrazione. «Il giorno in cui, per un qualsiasi motivo, me lo toglieranno, io
sarò un uomo perso», concludeva sempre. Del resto, in generale, anche i
colleghi lo trattavano con benevolenza. Avevan forse compreso il fanciullo in
lui e compativano il visionario, nè pensavano a recar danno a chi tanto poco li
disturbava. «Uccello di passaggio», gli diceva qualcuno; «voi presto ci
abbandonerete per una posizione migliore!». Ripetendo queste parole egli aveva
uno strano sorriso. Che cosa, avrebbe potuto ottenere nella vita un essere
debole, come lui?
Qualche sera lo trovavo irritato
contro tutti. Aveva creduto di scorgere negli occhi e nelle parole dei suoi
compagni d'ufficio una malizia crudele, a mala pena celata dalla solita aria di
compatimento. Forse si erano uniti contro di lui, forse avevan deciso di
scacciare dal loro ambiente una mosca importuna.
— Tu non sai, mi diceva, ciò che
s'agita e freme nell'ombra di un ufficio. E orribile! Sembra che la polvere,
densa e fitta sugli scaffali e sulle carte, abbia anche avvelenato le anime di
chi vi sta fra mezzo. Ciascuno è armato contro tutti. Alle schiene curve
succedono le fronti spavalde, alle parole untuose, come per incanto, si
sostituiscono a un tratto le più atroci menzogne. Basta che un collega o un
capo voltino le spalle. Talvolta le più terribili insolenze, i più fieri insulti
sono detti con una tale dolcezza di voce e di parole, da ingannare un uomo poco
esperto in simili doppiezze. E poi, c'è uno spionaggio continuo, esercitato
alla chetichella, ma con perseveranza. In fondo, sono tutti malati, malati di
umiliazioni, di meschinerie, di grettezze. Fanno come il povero che, per
sfogarsi, batte il suo cane rognoso. Il giorno, in cui vi sarà più luce nei
loro uffici, più bontà e intelligenza nei loro capi, più libertà nelle loro
azioni, essi torneranno a sorridere e ad amare. Fino ad allora, lo scontento,
la malignità, le basse adulazioni e le più basse ipocrisie continueranno a
prosperare in un campo così ben disposto per la mala erba. Ciò, che vi è di
cattivo nell'uomo, deve svilupparsi fra uomini intristiti dalle umiliazioni e dal
bisogno, come la muffa deve crescere dove c'è umido ed ombra.
Questo diceva il mio amico. La
voce monotona e sconsolata sembrava talvolta un pianto quieto e sottile di
mille anime. Mio malgrado, rabbrividivo al pensiero dei pochi cuori veramente
buoni e indulgenti, delle poche intelligenze visionarie sperse, smarrite,
soffocate in simili ambienti, fra la nebbia greve e penetrante della polvere
morale e materiale. Mi sembrava che il destino non potesse maggiormente colpire
con la sua implacabile sentenza. E il mio amico, tacitamente, annuiva.
Un giorno gli cambiarono davvero
il capo-sezione. Il nuovo direttore era uno dei soliti automi senza cervello,
venuti su a poco per volta, a spizzico, come i bambini scrofolosi. Fin dal
primo momento aveva guardato i subordinati con i suoi occhi grigi, privi
d'espressione, e aveva dichiarato finito il regno dell'indulgenza e
dell'iniziativa: da quell'istante in poi, l'orologiaio avrebbe sorvegliati bene
i denti delle ruote e guai a quello, che non si fosse dimostrato pronto
all'ordine e al giro!
*
* *
Quella mattina anche i tavoli,
ingombri di cartaccia, e le pareti sporche dello stanzone dovettero
meravigliarsi del movimento, che regnava fra gli impiegati. Il fermento di
chiacchiere, il continuo agitarsi di braccia e di mani per aria a trinciar
gesti o sugli scrittoi a picchiarvi nervosamente, facevano presentire qualcosa
di strano e d'insolito. Perfino il Direttore, di quando in quando, sporgeva
dall'uscio della sua stanza il visetto angoloso e furbo a interrogare, a
rispondere, a gettare un frizzo fra il turbinìo di frasi. Qualcuno rideva
rumorosamente; i più sorridevano: tutti rivolgevano a ogni istante gli occhi
all'orologio. Un vecchio, dal viso bonario e tranquillo, brontolava: «È troppo,
è troppo! In trent'anni d'ufficio non ho mai visto nulla di simile!». Un
giovanotto alzava la voce ad avvertire: «Sapete? Fra qualche sera daranno, in
teatro, un lavoro di quel grand'uomo. Forse si crede già un genio!». E un altro
aggiungeva: «Si giuoca la posizione, vi dico! E sta per ammogliarsi!».
Verso le dieci un usciere entrò
frettoloso, gridando: «È qui; volta l'angolo della strada!».
— Fatelo venire da me, subito;
ordinò il Direttore.
Gli altri zitti, annuendo.
Fra quegli impiegati c'erano i
buoni e i cattivi, come in ogni accolta di uomini. Pure, sopra ogni volto si
vedeva diffusa un'espressione ansiosa ed ipocrita, come di cane bastonato, che
non si rivolti a chi lo percuote, ma perchè ha paura, non per affezione. Essi
aspettavano un collega, quello su cui si rivolgevano di comune accordo tutte le
piccole ire invidie. Lo avean chiamato il Leone, per ischerno; e si aizzavano a
vicenda a morderlo, ad abbattere la superiorità non cercata, la noncuranza
d'uomo, che non si accorge del male solo perchè non vi ha mai pensato.
E il Leone entra, un leone un
po' spelacchiato, senza criniera e senza coda, ma tranquillo e sicuro di sè
come il re della foresta, di cui porta il nome. È un uomo sui trenta, di
aspetto malaticcio, col viso illuminato da due occhi chiari e ringiovanito dall'assenza
naturale di peli. Ha i capelli ricciuti, biondicci, un po' lunghi; le spalle
aguzze e strette, il corpo magro. S'avanza, fra il silenzio, volgendo uno
sguardo sereno per la sala e mormorando un «buon giorno!» al quale nessuno
risponde.
L' usciere, ossequioso, lo
avverte
— Il signor Direttore desidera
di vederla.
— Ho capito, risponde lui. Le
sue labbra hanno un breve sorriso.
I colleghi si stringono in
gruppo, non osano più aprir bocca: attendono. Dal gabinetto, ove si è
avventurato il Leone, escono parole smozzate. A un tratto s'ode imperiosa la
voce del Direttore: «Due ore, due ore di ritardo; capisce? Chi è lei, per
godere tali vantaggi? Lavora per quattro, dice? Che m' importa! E il cattivo
esempio? E la mia posizione, ch'è in giuoco? Puntuali bisogna essere,
puntuali!».
Uno del gruppo si azzarda a
susurrare: «Puntuali; e far niente!». Nessuno sorride; tutti hanno il volto
duro, stirato dall'attesa.
La voce del direttore continua a
suonare aspra, stridula, incalzante: «Ieri un'ora, oggi due; dove andremo a
finire?»
— Al manicomio!, azzarda di
nuovo il solito commentatore.
Adesso le parole giungono a
frammenti. S'ode ancora, distinto, un: «Che sia l'ultima volta!».
Infine, l'uscio si spalanca:
n'esce il colpevole, frettoloso; lo rinchiude alle sue spalle. Poi, si ferma
innanzi ai colleghi, guardandoli fissi.
Povero Leone! È venuto nella
città, dal paesello ove abitava; portava con sè un tesoro di sogni e credeva
nella vittoria facile e certa. Invece lo hanno costretto entro rigide mura a un
lavoro ingrato in uffici, ove il sole entra di rado a illuminare timidamente i
mucchi di polvere e le mura nude. Hanno imposto un metodo al suo spirito
indipendente, un orario alla sua anima irrequieta, una cappa rigida e pesante
al suo corpo nervoso. Per vivere! Che farebbe, fuori di li? Morire! Quando si è
giovani e si hanno ancora speranze! Sentire la catena e non poterla rompere,
provare giorno per giorno, ora per ora la tortura delle piccole concessioni,
dei discorsi sciocchi, delle smorfie ipocrite!
«Che sia l'ultima volta!», aveva
dichiarato il Direttore. Ma come fare per essere puntuale! come abbandonare il
tavolino, nella notte, e addormentarsi mentre più fervida è l'immaginazione e
la febbre di lavoro più intensa! E come svegliarsi, poi, al mattino, con addosso
la stanchezza della veglia e della creazione! Questo non potevano comprendere
gli altri. Rubava forse il pane a qualcuno, venendo in ufficio in ritardo?
«Ma tutti avrebbero, come lei, il
diritto di mancare», aveva osservato il Direttore. No, no, gli urlava la
coscienza; non gli altri, che non dovevano perdere le notti o le perdevano in
volgari orgie e in vani piaceri! C'è un diritto incontestabile, quello del
lavoro. In ufficio egli valeva per quattro; ognuno doveva riconoscerlo. In
casa, utilizzava le forze per un'opera, che agli uomini sarebbe riuscita forse
più cara, un giorno, di quel quotidiano futile disbrigo di pratiche. Il Leone,
dritto, rigido innanzi ai colleghi, aveva pensato rapidamente a tutto ciò. Una
risata lo interruppe nella fantasticheria. Si risvegliò con un sospiro: quegli
occhi, fissi in lui, lo disturbavano. Si avvicinò al proprio tavolino, sedette,
prese un fascicolo di carte e tentò di raccogliere le idee, di concentrarsi
nella occupazione consueta. Ma un pensiero lo turbava: l'ostilità di quegli
uomini, che si rivelavano per la prima volta apertamente nemici. E poi, gli
sorride vano alla fantasia due immagini dolci: dell'amata, ch'egli stava per
fare sua, e della gloria, che fra qualche sera, forse, lo avrebbe ristorato
d'ogni passato dolore.
Ma quegli uomini che volevano da
lui? Che pretendevano? Perchè lo guardavano così, con stupore, senza parlargli?
Alzò la testa dai fogli, si drizzò in piedi:
— Sapete? Se non foste
incoscienti, vi serberei rancore! Non uno, che m'abbia difeso! Aspettavate
l'offa o volevate vedermi avvilito? Siete macchine da tavolino. Finora non vi
osservavo. Adesso vi comprendo. Portate in volto la vostra arma: Giano
bifronte, servile e malvagio ad un tempo. Poveri sedentari, fossilizzati fra i
pentolini di ceralacca, i bolli a data e gli scartafacci! La polvere, che copre
i tavoli, nasconde anche le vostre anime. Non capireste la luce, anche se la
vedeste penetrare in questo luogo buio. Vi vedo come carcerati, ostili ad ogni
movimento, ad ogni infrazione delle regole, che la vostra piccola anima
concepisce come immutabili. Via, via, fate il mestiere vostro; mi avete
chiamato il Leone: avventatevi, dunque! Sarà una caccia curiosa.
Tacque un istante, poi concluse,
scuotendo la testa
— Non importa! Vi lascio
vincere; dò le mie dimissioni.
*
* *
Si svegliò con la bocca amara e
un tremito di febbre pel corpo. Che era accaduto? Guardò intorno a sè, per la
povera stanza, sui mobili spogli di ornamenti. Ricordava, ora; e con la memoria
gli veniva un desiderio di piangere, di singhiozzare come un bambino. La sera
innanzi era crollato ogni suo sogno, ogni speranza era morta. Rammentava la
caduta orribile, brutale del suo dramma, in teatro, i rumori bestiali del
pubblico. Perchè? Perchè? Non avevano compresa tutta l'amarezza racchiusa nel
suo lavoro: erano stati inesorabili, spiando i difetti di una prima opera,
accanendosi sulle inezie, perdendo di vista il concetto fondamentale, intenso
di passione e di angoscia. C'era stato anche qualche tentativo di applauso; ma
di chi? Provava una vaga impressione di aver visto qualche collega d'ufficio,
intento a batter le mani. Dunque, c'era un'anima in quegli esseri, che pochi
giorni prima lo avevano scacciato? L'immagine si annebbiò, scomparve. Rimase il
dolore e con questo un altro ricordo, ancor più denso di pena. Anche il suo
amore era sfumato. Il padre della fidanzata lo aveva atteso alla porta del
teatro per dirgli che non pensasse più a lei, poichè ormai il matrimonio
diveniva impossibile. Oh, le parole dure di quell'uomo! Ma giuste, in fondo;
doveva riconoscerlo! Era stato fin troppo generoso con lui, dopo le dimissioni.
Gli aveva detto: «Badi che ormai, senza impiego com'è, non dovrebbe più entrare
in casa mia. Ma aspetterò, per vedere l'accoglienza, che farà il pubblico al
suo lavoro. Chi sa! Potrebbe riuscire a farsi una posizione come scrittore. Mia
figlia le vuol bene e attenderà. Ma è l'ultima sua speranza!»
Così, adesso, si trovava solo,
senza risorse e senza gioie. Provava l'impressione di una caduta vertiginosa
nel vuoto. Si toccò la fronte scottava. Ebbe paura di sè stesso per un momento.
Ma subito si rincuorò, mormorando Sarà finita, per sempre! Il suo pensiero
corse rapido alla casa paterna, al babbo e alla mamma che attendevano da lui
ogni consolazione. Come li aveva illusi e qual dolore preparava a quei poveri
vecchi! Nella furia dei ricordi non si avvide che qualcuno era in camera,
accanto al suo letto. I suoi sguardi accesi si incontrarono, a un tratto, in
quelli di un giovine, che lo fissava con un'espressione affettuosa. Rientrò in
sè, lo riconobbe. Era un collega, un bravo ragazzo. Ma che voleva da lui, in
quel momento?
L' altro cominciò a parlare:
— Mi perdoni. Sono venuto, in
nome mio e degli altri compagni d'ufficio. Può ascoltarmi con calma?
— Sì, sì; dica pure. Ma adesso
non ho le idee a posto.
— Comprendo. Ero in teatro
anch'io, ieri sera. Ho lottato con ogni forza per far riuscire a bene il
lavoro, un po' per amicizia di lei, molto perchè mi piaceva. Questa mattina ci
siamo riuniti tutti, abbiamo parlato al Direttore.
— Ebbene? Che vogliono ancora da
me?
— Ascolti, e mi perdoni se entro
in argomenti delicati. Sapevamo che ogni sua speranza era fondata nel successo
del dramma; sapevamo anche che il suo matrimonio dipendeva da quello. Abbiamo
immaginata la sua posizione d'oggi.
Povero Leone! Ascoltava, senza
potersi ribellare, questo esame della sua anima, fatto da chi pochi giorni
innanzi gli si era dimostrato nemico. L'accasciamento, l'ansia, il dubbio gli
impedivano di aprir bocca. L'altro, intanto, continuava:
— Le sue dimissioni non sono
ancora state accettate. Vuol ritirarle? Potrà darsi di nuovo ai suoi lavori e
ammogliarsi.
Tacque, aspettando una risposta.
Oh, come si rischiarava l'orizzonte,
ad un tratto, innanzi al povero abbattuto! Dunque tutto non era finito; si
poteva ricominciare e con maggior forza e speranza? Ma l'avvilimento di quel
passo: dover abbassare la testa innanzi a chi aveva tentato di piegargliela con
l'astuzia e con la violenza! E poi, perchè quell'invito dei colleghi? Era forse
una nuova umiliazione, che volevano infliggergli?
Guardò il messaggere, ma lesse
sul suo viso un'espressione di simpatia e di benevolenza. Chinò il capo,
allora, mormorando
— Sì, sì; sento che siete buoni.
Non me lo spiego, ma lo sento!
Voleva interrogare sull'astio,
che per l'addietro gli avevano dimostrato. Ma il mistero dell'anima umana gli
si rivelò repentino, lo sconvolse. Egli rivide quegli esseri sedentari che,
intenti al lavorìo di tavolino, si raggomitolavano nel loro guscio, offesi da
ogni raggio di luce; ma li rivide sotto un aspetto nuovo, dolci,
compassionevoli per chi cadeva non per propria colpa. Sentì vagamente la bontà
inesauribile del cuore umano; il desiderio di piangere lo riprese, ma diverso
da quello di prima: una pace melanconica subentrò nel suo animo alla foga della
passione. Si volse di nuovo al collega, a dire:
— Accetto ciò che mi offrite,
perchè sento che offrite sinceramente, senza sottintesi. Sarò un buon compagno
dei sedentari, poichè mi sento anch'io un sedentario adesso, racchiuso come
sono nella tomba del mio antico sogno.
Sorrise e additò all'altro il
cielo, irradiato dal sole.
— Vede!, osservò; oggi c'è luce
dovunque, anche nel nostro ufficio!
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