Prima di piegare il capo sotto
l'inesorabile castigo io vi prego, o giudici, di ascoltare una difesa, divenuta
inutile innanzi alla legge, ma dalla vostra stessa umanità imposta e voluta. Ho
ucciso il mio bambino, la creatura, che amavo sovra tutte in questo mondo. Vedo
ancora innanzi a me il suo piccolo cadavere, bianco in una pozza di sangue. Per
notti e notti mi son strappati a furia i capelli, mi son martoriata la fronte
contro le pareti della mia cella, chiedendomi: Ma come, come è accaduto tutto
ciò?
Adesso, che la calma è tornata
nel mio spirito e mi ha ridonato il ricordo, io vengo innanzi a voi, giudici, e
vi dico: Non voglio scolparmi; il mio delitto è orribile e non ha pena, che lo
adegui. Ma se le ore, passate nell'ambascia, col peso dell'omicidio nel
cervello, con la continua immagine innanzi a me della mia adorata creaturina
uccisa dalle mie stesse mani, se le torture, che ha subito il mio spirito in
questi lunghi mesi di prigionia, mi danno un lieve diritto alla vostra
commiserazione; io vi scongiuro, lasciata per qualche istante da parte la
qualità vostra di rappresentanti l'ineluttabile legge, di volermi benevolmente
ascoltare, concludendo poi se dobbiate attribuire lo spaventoso delitto a
malvagità mia o ad un atroce destino.
Sono giovane e robusto; ma
possiedo un temperamento eccitabile e sensibilissimo, che mi ha turbato,
sovente, anche negli istanti della mia maggiore felicità. Inoltre, vengo a
volte sorpreso da terribili paure, ch'io attribuisco alla qualità dei miei
nervi più che a deficienza di ragionamento. Sette anni or sono, allora ne avevo
venti, sposai una mia cugina, una fanciulla delicata e tenue come uno stelo di
giglio. Ci amavamo molto, forse troppo, e ci soffocavamo a vicenda di carezze e
di baci. Al primo parto essa morì, lasciandomi sprofondato nel più tormentoso
dolore. Tuttavia, avevo un bimbo nostro da adorare, nel quale si era come
raccolta l'anima della cara defunta. Possedevo qualche sostanza, inoltre guadagnavo
con le mie pubblicazioni; perciò, libero di me, decisi di venire ad abitare con
la mia creaturina nei dintorni di questa città, ove possiedo un villino. Sapevo
di trovare, in tal modo, la pace della campagna, non disgiunta dalle necessarie
comodità, che può fornire anche una città di provincia. Voi tutti conoscerete,
probabilmente, la mia casetta, spersa sovra il fianco di una collina e alla
quale conducono un breve tratto di strada provinciale e un viottolo vicinale,
segnato fra i campi e i muri di cinta.
Sia per l'incubo doloroso, che
mi aveva lasciato la perdita della mia sposa, sia per un certo bisogno di
eccitazione fittizia, che mi assaliva nelle prime ore della notte e cioè verso
il momento in cui cominciavo a scrivere i miei lavori, io mi ero abituato a
bere qualche bicchierino di cognac prima di tornarmene a casa, la sera.
Cominciai con poco. Ma insensibilmente aumentai la dose, sino a trangugiarne
una quantità che per qualsiasi altro sarebbe stata pericolosa. Però, l'alcool
non era ancora riuscito a turbare il mio equilibrio mentale e fisico e a farmi
entrare in quel periodo di sovreccitazione, che è proprio degli ubriachi.
Ripensandoci adesso, credo che il veleno facesse la sua strada alla
chetichella, preparando la via a tutte le morbosità dell'alcoolismo.
Certo si è che soltanto due anni
or sono, una notte, io sentii distintamente, tornando a casa, che, pur avendo
bevuto come al solito, ero ubriaco. La nozione lucida del mio stato mi
meravigliò. Avevo le gambe salde, ma provavo una leggerezza insolita di membra
e sentivo il cervello immerso come in una lieve nebbia. Mi coricai, un po'
allarmato. Provai ancora un'impressione di vaporosità, subii il fascino strano
dell'uomo, che si crede sollevato al cielo, con un lieve dondolìo, da un
soffice strato di nubi; poi venni sorpreso dal sonno. Per qualche sera mi
astenni dal bere. Ma, rassicurato un poco dall'apparente calma dei miei sensi,
ripresi in breve le abitudini antiche. Possedevo ancora molta chiarezza di
pensiero e una certa forza di controllo sovra me stesso; perciò, non tardai ad
accorgermi di essere già tanto alcoolizzato, da non potere più sperare in una
vera guarigione. Passò un mese. Una notte, mentre tornavo a casa a traverso le
vie solitarie e a mala pena illuminate della città, cullato dal senso di
abbandono, che dà l'ebbrezza nel suo primo stadio, sentii qualcosa di mobile
urtarmi le gambe. Chinai lo sguardo a terra e vidi un grosso cane danese dal
muso largo e dagli occhi sanguigni. Ebbi un lieve senso di paura innanzi a
quella bestia, che sembrava abbandonata; perciò, mi allontanai frettoloso.
Avevo fatti dieci passi, allorchè mi sentii urtare di nuovo. Era il cane: e mi
guardava con i suoi occhioni rossi e un po' tristi. Tentai di tornare indietro.
La bestia mi seguì. Cominciavo a impensierirmi seriamente per quell'insistenza,
tanto più che il cane era senza museruola e non apparteneva, certo, a qualcuno
della città, poichè prima d'allora non ricordavo d'averlo visto.
Risolvetti di evitarlo tornando
al caffè per un'altra mezz'ora. Così feci. All'uscire, non scorsi più la
bestia. Respiravo, come liberato da un gran peso. Passai rapidamente la città,
poi la strada provinciale; infine mi posi, rallentando il moto, pel mio solito
sentiero. Mi trovavo in aperta campagna. A destra avevo un'ampia stesa di
piani, a sinistra un muro bianco e scabroso, qua e là adombrato da viti. La
notte bellissima, ma fredda, mi dava una sensazione di forza e di benessere e
mi immergeva in un quieto sogno, aiutato dal sereno spiovere dei raggi lunari.
Il giorno innanzi aveva nevicato molto; perciò, i campi erano candidi e
rilucenti come pianure di marmo e gli alberi scintillavano ancora per mille
festoni di neve, che il notturno gelo avea temporaneamente fissati sui rami.
Mentr'io ammiravo la sterminata
bianchezza, sentii un brivido di terrore percorrermi il corpo. In lontananza un
corpo nero si avanzava rapidamente sulla pianura di neve, saltando e
rotolandosi. Lo riconobbi subito era il grosso cane danese, che correva verso
di me, proiettando un'ombra gigantesca e bizzarra sull'ampio tappeto invernale.
Mi parve che tutto il gelo si condensasse nelle mie membra a immobilizzarle in
uno spasimo folle di paura. Il grande cane, con lanci spaventosi, fu presto al
mio fianco. Ivi giunto, si fermò, guardandomi con i suoi occhi sanguigni. Diedi
un urlo e mi cacciai innanzi con una corsa disperata e con l'impressione
terrorizzante di quell'alito caldo di bestia dietro di me.
Entrai in casa e chiusi l'uscio
con violenza. Più nulla. Fuori, regnava il silenzio. Forse il cane si era
stancato ed era tornato indietro.
Il domani, non pensavo più
all'incidente. Ma nella notte, tornando a casa per il viottolo consueto, vidi
di nuovo il grande danese correre incontro a me, a lanci, a traverso i campi
non più coperti di neve, saltando fossi, passando a traverso i rovi e le
piante, silenzioso e terribile. E di nuovo mi spinsi in una corsa pazza,
minacciando di rovesciare per terra ad ogni tratto, urlando di paura e non
osando volgermi indietro a osservare se il nemico mi seguisse.
Da allora, ogni notte, mi vidi
venire incontro il cane senza potermi spiegare di dove uscisse e per quale
motivo mi perseguitasse con la sua presenza e con i suoi sguardi un po' tristi.
A poco a poco mi abituai a lui e finii con l'accettarlo come un compagno impossibile
ad evitarsi. Innanzi al cancello della mia villa, la bestia si fermava e,
seduta sulle zampe posteriori, mi seguiva con lo sguardo sino al limitare della
casa. Poi, tornava indietro con la coda bassa.
A volte, io credevo ad
un'allucinazione. Ma la realtà di quel corpo caldo sotto le mie mani mi
toglieva anche l'ultima speranza. Così, per mesi e mesi, seguitai a vedere lo
strano animale, che, malgrado l'abitudine, mi cagionava ogni volta un
indicibile senso di terrore. Non sempre esso mostravasi di umore uguale. A
volte mi scodinzolava attorno festosamente, a volte, invece, mi accompagnava a
passi lenti, col muso alzato verso di me e fissandomi con i suoi occhi
malinconici e infiammati. Quelle poche volte, ch'io tornai a casa in compagnia
di amici, non vidi la bestia. Però, mi sembrava di udire, in quelle occasioni,
un latrato lontano e indistinto, che si manteneva sempre alla stessa distanza e
mi seguiva fino alla porta di casa.
Or sono cinque mesi, dovei
assentarmi da questo paese. Tornai dopo qualche settimana, con l'animo scosso
da una serie di spiacevoli incidenti e di contrattempi, che avevano rattristato
il mio viaggio. Ad aumentare il malumore, s'aggiunse la malattia del mio bimbo,
che trovai debole e febbricitante. Tuttavia, il medico mi rassicurò,
dichiarandomi che si trattava di una lievissima indisposizione.
Quella sera, prima di uscire,
non so ancora il perchè, mi armai di una rivoltella. Forse il mio spirito
turbato mi indusse inconsciamente a prendere l'orribile strumento di morte, che
doveva spezzare per sempre due esistenze. Mi recai a bere al mio solito ritrovo
e, lo confesso, mi lasciai smodatamente prendere dal bisogno morboso di
eccitazione, che mi aveva già trascinato all'alcoolismo. Non pensavo più al
cane; ma, nell'uscire, me ne ricordai. Se si presenterà questa notte, dissi fra
me, sarà ben ricevuto. Meditavo, infatti, di sbarazzarmene con un colpo di
rivoltella.
Allorchè, tornando a casa verso
mezzanotte, mi trovai nella calma solitudine della campagna, volsi lo sguardo
attorno paurosamente.
Nessuna traccia della bestia.
Forse la mia assenza l'aveva stancata. Giunsi alla villa senza averla
incontrata; tuttavia, temevo ancora. Aprii l'uscio. Il servitore mi venne
incontro, affannato, con una lampada in mano:
— Padrone, il bambino sta male.
Si è voluto alzare; e ora è agitatissimo.
Corsi su per le scale, fino alla
camera della creaturina. Spalancai la porta. La stanza era illuminata appena da
una fiamma di candela. Guardai il letticino; era vuoto. Feci un passo innanzi,
ansiosissimo, interrogando l'ombra. A un tratto balzò innanzi a me, nel cerchio
breve di luce, il corpo voluminoso del cane danese. Un orribile spasimo mi
scosse le membra. Pensai, non so, ch'esso mi avesse ucciso il bimbo e si
tenesse lì, pronto a saltarmi alla gola. Presi convulso la rivoltella e feci
fuoco contro quegli occhi sanguigni, rapidamente. Tre colpi suonarono per la
stanza. Quando il bagliore e il fumo scomparvero, vidi sul pavimento, disteso,
il corpicino del mio figliuolo in una gran pozza nera. Aveva il viso pallido;
dal collo e dal petto gli usciva ancora, a getti, il sangue. Mi gettai,
urlando, sul corpicino della mia creatura. Da lontano mi parve che un latrato
indistinto rispondesse alle mie grida disperate.
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