In una vecchia casa di Genova,
abbattuta adesso dal piccone civilizzatore e sostituita da uno di quegli
edifici multicolori e architettonicamente ibridi, che ha creati il progresso
fondendo insieme lo stile chinese ed il transwaaliano o boero che dir si
voglia, esisteva, or è qualche anno, un'osteria di infimo ordine, che apriva le
porte del suo piccolo e ignorato paradiso ai pochi coraggiosi arrischiantisi a
salire le scale strette e rovinate dell'edificio. Erano due stanzacce sporche,
ammobiliate con qualche tavolo, su cui parecchie generazioni di temperini e di
coltelli avevano esercitato la loro pazienza e il loro taglio, e con poche
seggiole sventrate. Un profumo acre di frittura, sapientemente mescolato con
l'odore forte del vino, accoglieva il visitatore audace e lo faceva cadere di
peso sulla sedia più vicina. Ma subito il viso di costui si rischiarava e la
sua anima s'apriva fiduciosa alle seduzioni di quell'eden primitivo dinanzi
allo schietto sorriso ed al gesto cordiale del panciuto signore del luogo. Lo
spettacolo intimo di un tenero idillio fra la nipote dell'oste e un silenzioso
rappresentante del sesso mascolino terminava di mettere in pace il cuore del
nuovo venuto e di disporlo alla benevolenza.
In una di quelle stanze, isolate
dal resto della civiltà e frequentate da pochi paria in cerca di conforti
alcoolici e spirituali, si raccoglieva di solito intorno a un tavolo, coperto
da un tappeto un tempo verde, ma a quell'epoca ingiallito dai dispiaceri, e
intorno a un mastodontico fiasco di vino. la compagnia più bizzarra, che un
onesto sguardo di oste abbia mai potuto contemplare. Essa era formata
generalmente dei soliti quattro individui, ai quali però, talvolta, altri
s'aggiungevano a completare il gruppo un po' fantastico. C'era topolino bianco,
un giovanotto sui ventiquattro anni, rubicondo e muscoloso. Il suo volto era
largo e tagliato piuttosto rozzamente: ma la dolcezza degli occhi di un grigio
chiaro e l'espressione fanciullesca, che ben rivelava l'ingenuità timida della
sua anima, lo rendevano simpatico a prima vista. Per gli amici egli era il
«topolino bianco», cioè una creatura eccezionale, spostata nella civiltà
contemporanea, dalla bontà profonda, dall'inesauribile indulgenza. Parlava
poco; ma nelle passeggiate, ch'egli soleva fare con qualche intimo lungo la
riva del mare, aveva un silenzio denso di significato, nel quale s'udiva a
volte palpitare l'anima di un dio generoso, smarrito sulla terra. A completare
la sua originalità s'aggiungeva l'invincibile paura della donna, che lo teneva
lontano da un sesso giudicato da lui troppo pericoloso per chi vuol serbare i
sensi tranquilli e i pensieri puri.
Il secondo elemento della
comitiva era un dentista, anch'esso natura generosa, ma in opposizione
assoluta, nel resto, con topolino bianco. Lo vedo ancora col suo corpo magro e
nervoso in continuo movimento, il viso affilato, gli occhi irrequieti. Chi
l'avesse scorto per istrada, di notte, camminare dondolandosi, con le mani
dietro la schiena e il sigaro nell'angolo delle labbra, l'espressione del volto
audace e sicura, si sarebbe forse affrettato con un moto incosciente ad
abbottonare la giacca od a svoltare da un'altra via. Tanto ingannano le
apparenze! Sotto l'esteriore spavaldo, sotto lo scoppiettio delle frasi argute
e il fuoco di fila delle proposte audacissime, palpitava un cuore aperto ad
ogni stimolo buono, si celava una strana sensibilità femminile. Giammai la
risata ha nascosto così bene in alcun uomo il pianto sottile dell'anima!
Aggiungo che le donne lo adoravano, i conoscenti ne diffidavano e gli amici eran
pronti a batter moneta falsa per lui.
Il terzo campione era un poeta.
Sissignori! Un poeta vero, un'anima di fanciullo sotto la corteccia dello
spostato. Se il suo temperamento, avido di novità e sprezzante dei ceppi della
vita sociale, lo avesse consentito, egli avrebbe potuto pretendere ad uno dei
primi posti nelle file dei poeti contemporanei. Buon amico, la tua ombra
lunghissima, proiettata sul suolo nelle serene notti lunari, che tu tanto
amavi, ben sapeva il segreto del tuo pensiero, nel quale le immagini esterne si
trasformavano in armonie quasi divine e in sensazioni delicate e tenui come le
fantasmagorie, che quei quieti raggi disegnavano sui piani della tua Lunigiana!
Egli amava di sentir svolgersi nelle profondità del suo cuore i ritmi più dolci;
talvolta le sue labbra li proferivano, urlandoli agli uomini. E gli sciocchi
ridevano, intorno; gli altri, pochi, silenziosi ammiravano. Il quarto amico era
precisamente chi scrive queste memorie, personaggio di cui è meglio tacere
che.... dir troppo.
Tenevamo le nostre riunioni
nell'osteria con la scusa di giuocare a scopone e di vedere il fondo al fiasco,
ma realmente perchè sentivamo il bisogno di stringerci l'uno all'altro in una
comunanza di affetti non ostacolata dalle divergenze esteriori. Tuttavia quel
benedetto scopone aveva assunte le proporzioni e l'importanza di un affare di
stato. Lo vivevamo come si può vivere un dramma, inframezzandolo di discussioni
letterarie e politiche, ma non perdendo mai di vista le carte. Ricorderò sempre
le smanie e i versacci del poeta innanzi a un sette di quadri, che s'involava
ai suoi occhi, e i suoi formidabili calci, sotto il tavolo, al compagno di
giuoco, allorchè il sette sopra menzionato si trovava fra le sue mani. Badiamo:
i calci eran dati senza malizia, poichè tutti se ne accorgevano, tranne,
qualche volta, colui al quale erano indirizzati. Inoltre era cosa stabilita che
il fiasco fosse pagato da chi, vincitore o perdente, possedesse i soldi
necessari. E bisogna confessare che in certe sere il problema si presentava
irto di difficoltà.
Questo non ci impediva di
mettere nel giuoco tutti i nostri sentimenti. Chi rimaneva sbalordito era
l'oste, il quale ci vedeva agitarci come indemoniati e ci udiva gittar grida or
stridenti or gioiose. Soltanto topolino bianco rimaneva impassibile o al più
arrossiva per il rimprovero del compagno ad un giuoco sbagliato. Una sera,
però, montò in furia anche lui e precisamente a causa del poeta, che l'aveva
coperto di contumelie per vendicarsi di una disfatta. No, no, una simile ingiustizia
la sua anima leale non aveva potuto tollerarla e le sue labbra s'erano
vendicate urlando in faccia al poeta sbigottito:
— Lo sai chi paga, questa sera?
Proprio io, che ho vinto!
Il domani erano di nuovo amici.
Qualche volta gli intermezzi
assumevano il carattere di vere battaglie. Ma c'entrava lo zampino di quel
benedetto dentista! Oh, non aveva il coraggio di storpiare il nome del poeta,
chiamandolo «Ciffarelli»? Una sera, mentre giocavamo, capitò un fattorino con
un telegramma, indirizzato al poeta. L'amico ebbe un colpo al cuore, diede uno
sguardo trionfante a noi, che, umilmente, contemplavamo il rettangolo di carta
gialla, frugò nelle tasche, ne cavò quattro soldi, gli unici, che regalò con un
gesto grandioso al fattorino; poi ruppe nervosamente l'involucro. Eterni Dei!
Dentro, veniva pregato di prender parte ad una sottoscrizione per comprare
qualche dente, compreso quello del giudizio, al grande scrittore Ciffarelli.
Avvenne una scena spaventevole; ma il dentista, autore dello scherzo, se la
cavò col rimborsare i quattro soldi. Qualche volta costui si divertiva a
contraddire il poeta in questioni letterarie.
— Oh, esclamava con aria
estasiata; com'è simpatico quel... (e qui un nome di autore notissimo quanto
idiota).
Si chinava, poi, verso di me per
chiedermi:
— Aiutami! Citami qualche altro!
E, dietro mio suggerimento,
continuava:
— E la... (altro nome, ma....
d'autrice), Ecco una poetessa!
Il poeta digrignava i denti,
girava gli occhi ferocemente, poi scoppiava, moralmente, s'intende. E non aveva
torto. Una sera, egli parlava con entusiasmo di Shelley.
— Già! Scelerì!, borbottò il
dentista dandosi un aspetto indifferente.
— Shelley!, corresse il poeta.
— Sì, Sì, Scellì, l'autore del
«Manuale del perfetto cuoco»!
Temetti, in quel momento, di vedermi
morire il poeta fra le braccia.
Per vendicarsi, costui aveva
fabbricata una specie di breve cantilèna, che ad ogni insinuazione burlesca del
dentista gli cantava sul muso. L'uno diceva: «Ohè, poeta! Hai letto il Ça
ira? Ma già, che vuoi aver letto, se non sai neanche... scrivere!» L'altro
dava un balzo felino, ma subito si ricomponeva e sogghignando cominciava a
salmodiare
Il
dentista,
vita
trista,
tutto
il dì fa gran battaglia
con
le pinze e la tenaglia!
Ebbene, a dispetto di simili nubi
e dissapori, non c'era compagnia, che andasse più d'accordo della nostra.
*
* *
Ho detto che qualche volta
s'univano altri elementi, rappresentati da amici comuni, ai quali le
circostanze della vita non permettevano di trovarsi al fianco nostro ogni sera.
Veniva, a volte, un altro poeta dal faccione simpatico malgrado l'espressione
un po' sarcastica dei lineamenti e la piega beffarda delle labbra: buontempone
anche lui, a dispetto di certi occhiali, fermati dietro le orecchie, i quali
gli davano un'aria grave e pedantesca; ironista, anzi umorista geniale e
argutissimo, nemico acerrimo d'ogni mediocrità ipocrita o spavalda e d'ogni
malignità volgare. A me sopratutto era carissimo; poichè avevo potuto conoscere
nell'intimità le sue rare doti d'ingegno e di cuore.
Povero Baudelaire! Non eri,
certo, tu, che lo trovavi simpatico! Oh, non pigli un granchio il lettore, per
carità! Non si trattava del poeta dei Fiori del male, ma di un onesto
cartolaio, al quale avevamo affibbiato quel nome per certe rassomiglianze
fisiche col geniale laudator di Francesca. Ma quanta maggior rassomiglianza,
anzi affinità spirituale aveva con questo il mio amico. La stessa torturante
ricerca della perfezione, la stessa originalità profonda del concetto, la
medesima ripugnanza per ogni sfoggio ciarlatanesco d'ingegno, per ogni
stravaganza studiata, si nascondeva nel cervello del mio amico. Per completare
l'affinità aggiungo che anch'egli possedeva in grado supremo un bizzarro
spirito di mistificazione. Una delle sue vittime fu appunto Baudelaire, il
cartolaio. Costui aveva una botteguccia in una via frequentatissima di Genova e
si teneva di continuo dietro il suo banco, guardando con aria annoiata i
passanti. Il mio amico ed io cominciammo a fargli una corte assidua, soffermandoci
a contemplarlo almeno una volta ogni giorno, non so dire se con maggiore
meraviglia sua o nostro piacere. L'avremmo baciato volentieri per quella
somiglianza fisica e cercavamo ogni mezzo per farglielo capire. Ma lui, duro!
Forse non aveva mai letto i Poemetti in prosa. A poco a poco quell'uomo
divenne il nostro incubo, un'ossessione, sebbene l'ossessionato, in apparenza,
fosse lui. A forza di almanaccare riuscimmo a convincerci che l'anima del
geniale poeta s'era rifugiata, per vivere un po' tranquilla, nel corpo
dell'umile bottegaio. Ma perchè non rispondeva alle nostre chiamate, ai nostri
gesti amichevoli? Perchè quell'uomo ci spalancava in faccia i suoi occhi, che
assumevano di giorno in giorno un'espressione sempre più inquieta e turbata,
invece di aprirci cordialmente le braccia e di concederci un amplesso fraterno?
— È la miseria, che lo rende
timido; diceva il mio amico. Non vedi com'è sempre triste, pover'uomo? Egli si
vergogna di sè stesso.
Un giorno decidemmo di aiutarlo
con le nostre poche forze pecuniarie e di recargli un conforto dimostrandogli
la nostra simpatia con un atto materiale. Un'elemosina nostra non avrebbe
potuto offenderlo! E poi, bisognava ben ricompensarlo per le gioie, che ci
procurava rievocando ai nostri occhi un idolo della nostra gioventù entusiasta.
Frugammo nelle tasche, ma dopo laboriose ricerche riuscimmo a raccogliere
soltanto due soldi, che dividemmo fraternamente. Poi, l'un dietro l'altro,
passammo dinanzi a Baudelaire deponendo sul suo banco la nostra offerta modesta,
accompagnata da un gesto devoto e da uno sguardo d'intesa. La sera stessa
andammo a battere all'uscio degli amici più ricchi per raccogliere un più degno
dono. Ma, che volete?, le tentazioni sono tante in questo basso mondo, e il
gruzzolo raccolto era così meschino! In conclusione, il domani eravamo
possessori di due centesimi. Tuttavia la
tenuità dell'offerta non ci scoraggiò. Egli saprà comprendere la nostra
intenzione, ci dicemmo. E ripetemmo la scena del giorno prima, ma ancor più
gravi e raccolti. Il cartolaio, vedendoci passare e deporre la nostra monetina,
tentò di alzarsi, forse per ringraziarci; ma la commozione glielo impedì. Ci
diede uno sguardo stralunato e fece udire un debole gemito.
Poco dopo, ripassando da quella
strada, trovammo chiusa la cartoleria. Un vicino di bottega ci disse che aveva
visto il proprietario uscirne barcollando con un'espressione sconfortata sul
viso, poi chiuderla a chiave risolutamente e allontanarsi a passi precipitosi.
Non vedemmo mai più il nostro Baudelaire.
*
* *
A volte, quando nell'osteria
veniva qualche altro elemento a ingrossare le file della solita comitiva, si
iniziava e conduceva rapidamente a termine qualche processo. Di consueto il
presidente era un bel tipo di napoletano, professore d'università, buon chitarrista,
ottimo compagnone, pieno d'allegria e d'intelligenza. Ma, per scarsità di
numero, molto spesso eravamo costretti a cumulare la qualità di giudice con
quella d'imputato. Naturalmente, cercavamo di dare uno scopo alla seduta,
obbligando il condannato a pagare... il fiasco. Da ciò risulta chiaro ch'esso
era sempre rappresentato dall'individuo supposto possessore, in quella
determinata sera, dei soldi necessari per soddisfare la sentenza. Le colpe
variavano a seconda del capriccio; si poteva essere accusati tanto di aver
rubato la luna come d'aver detto male di Leopardi. Ed anche le prove e le
testimonianze erano svariatissime; ma, in fondo, avevano poca importanza,
poichè la condanna era decretata, in precedenza, dei giudici. Tant'è vero che
una sera venne accusato qualcuno d'essere un asino. L'infelice tentò invano di
confutare il pubblico ministero mettendo a nudo il proprio piede, fornito di
cinque dita anzichè d'una, com'è abitudine dei filosofi orecchiuti. Non gli
valse la prova; poichè dovette battere in ritirata dinanzi alle conclusioni del
magistrato, il quale trovò una prova luminosa della di lui asinità nel fatto
stesso d'aver creduto imparziale il tribunale.
*
* *
In seguito ho incontrato, nel
corso della mia esistenza, altre compagnie, ho giuocati altri scoponi. Ma
nessuno mi ha fatto dimenticare quelli vinti o persi in un'osteria popolare, al
fianco dei miei amici di un tempo. Fosse, perchè una volta sola, nella vita, è
concesso a un'anima d'intendere le parole misteriose, che illuminano altre
anime come tenui fiammelle, gelosamente custodite sotto l'involucro della carne
e le volgarità dell'umano consorzio.
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