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Pierangelo Baratono Ombre di Lanterna IntraText CT - Lettura del testo |
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Un buono-a-niente
Nelle soffitte di Torino vivono ancora gli ultimi campioni di quella strana famiglia, che, preso un nome zingaresco, abitò un tempo Parigi ed ebbe a storiografi diligenti Murger, Vallès e De Bernard. Ormai ridotti a pochi e ignorati dal mondo, costoro conservano tuttavia la dolce pigrizia, ricca di fantasticaggini e il buon umore, che resero per sempre gloriosi i loro affamati antecessori. Appunto a Torino conobbi uno di questi bizzarri figli del caso. Era un simpatico giovinotto sui venticinque anni, pieno di brio e di vitalità nel suo piccolo corpo irrequieto. I capelli ricciuti, spioventi di sotto al tradizionale berretto di flanella, largo e piatto, e la breve barba a punta, di un color castano chiaro, accuratamente pettinata, lo designavano a prima vista per uno di quei vagabondi artisti sempre in caccia di un sogno e di una colazione. La finezza del naso aquilino e la dolcezza dello sguardo temperavano quel po' di studiato e di esteticamente pretenzioso, che poteva rivelare il resto della fisonomia. Quanto agli abiti, ne possedeva uno solo, corto e attillato e «completamente all'ultima moda», come diceva lui sorridendo. Un piccolo mantello di lana turchina, che gli arrivava ai fianchi, era l'unico lusso che, nella stagione invernale, si permettesse. Poteva sembrare un imitatore di altri costumi e di altri tempi; era, invece, originalissimo. Del resto, la sua poca istruzione non gli permetteva di appoggiarsi a ricordi letterari. In politica era rimasto fedele all'impero Napoleonico, in letteratura si limitava a declamare Ugo Foscolo e le rime di Pompeo Bettini. Ogni altro nome, per lui, era lettera morta. Qualche sera, allorchè la luna gli carezzava i capelli, bagnandolo col suo vivo scintillio, ammetteva che potessero esser vissuti altri geni. Ma erano i suoi minuti di condiscendenza; e guai a chi gliene avesse riparlato il giorno dopo. Lo conobbi in un momento caratteristico. Pranzavo in una piccola trattoria del sobborgo, allorchè vidi entrare quel bel tipo. Portava sotto il braccio un oggetto lungo e rettangolare, involto in vecchi giornali. Si avvicinò al banco e, rivolgendosi al padrone, chiese con aria misteriosa: — Vi intendete di oggetti d'arte? — Non ne compro, rispose quello. — Aspettate; non vi dico di comprare. Servitemi un modesto pranzo ed avrete in pegno un capolavoro. Malgrado il grugnito poco rassicurante, che accolse la sua proposta, cominciò a svolgere flemmaticamente l'oggetto. Era una vecchia tavola tarlata, sulla quale la muffa aveva disegnato una specie di cavallo galoppante, con sulla schiena un moro, che poteva anch'essere una scimmia. — Cos'è quella porcheria?, chiese il trattore, volgendo lo sguardo meravigliato dal guazzabuglio all'intruso. — Una porcheria? È un capolavoro, che nessuna mano d'uomo avrebbe potuto dipingere! Si potrebbero averne cento, duecento, mille lire, una sull'altra. — Bene! Rivolgetevi a un antiquario! ribattè il padrone con un'alzata di spalle. Mi decisi a intervenire, poichè mi sentivo vivamente interessato per quel bizzarro venditore. Si trattava di un imbroglione o di un visionario? Allora non potevo deciderlo; più tardi mi accorsi che c'era un po' di entrambi in quell'uomo; ma che, sovra tutto, c'era uno spirito profondo di mistificazione. — Scusi, dove l'ha trovata? domandai a quell'entusiasta, additandogli la tavola. — In casa mia, rispose col tono con cui avrebbe detto: Nel mio palazzo! Non è, forse, un capolavoro?, continuò, rivolgendosi verso di me. — Sì, sì; può darsi. Ma, tale qual'è, troverà difficilmente un compratore. — E chi ha detto di venderla? Non me ne priverei per un tesoro. Volevo soltanto lasciarla in pegno per un miserabile pranzo. Nei suoi occhi malinconici vidi un profondo scoraggiamento; perciò, mi decisi a invitarlo: — Se vorrà dividere la mia modesta cena, mi farà un vero piacere. Quel povero diavolo guardò ancora una volta il trattore; ma lesse sovra il suo viso un'incrollabile decisione. — Accetto, mormorò, stendendomi la mano. Poi si diede a frugare nelle tasche e finì con l'estrarne un biglietto da visita, cioè, per meglio dire, un pezzo di cartoncino sporco, sul quale eran tracciate, in un carattere lungo e angoloso, queste parole: Giorgio Rocca scenografo. Durante il pranzo, ch'egli divorò con un appetito degno di un corpo più voluminoso, mi narrò l'odissea della sua vita. Una vita di miserie sopportate allegramente e di allegrie senza soldi, ricca di incidenti umoristici e di dolori, riboccante di risate e di lagrime. Quell'uomo aveva fatto un po' di tutto ed aveva sopportati i rovesci della fortuna con la stessa giocondità, con la quale aveva accolti i pochi favori. Ogni angolo di Torino gli era noto per avervi dormito, allorché si trovava senza alloggio. Ogni trattoria era conosciuta dal suo naso, che vi aveva fatte innanzi lunghe stazioni, aspirando i profumi della cucina, che dovevan tenergli luogo di pranzo. Volta a volta decoratore, pittore, scenografo, qua rifiutato, là accolto con sprezzo, tollerato per compassione, egli aveva provato tutto, tutto sofferto. Ma il suo schietto sorriso non era, per questo, fuggito dalle sue labbra. Perfino nella vita d'impiegato, che aveva fatta per qualche mese, era riuscito a crearsi un buon umore fittizio. Le sue mani fini di pigro sognatore si erano imbrogliate fra le pratiche polverose senza strappargli di bocca che risate e motteggi. Appunto in quell'epoca i colleghi d'ufficio avevan trovato per lui il nomignolo di Buono-a-niente. Era colpa sua, se le dita, invece di tracciare cifre e note, disegnavano fogliami o paesaggi? Il soprannome, foggiatogli dalla malignità burlesca dei mangia-carta e bevi-inchiostro, gli era rimasto anche con i pochi amici delle soffitte. Ormai nessuno lo chiamava più Giorgio Rocca. Egli mi raccontava tutto ciò, ridendo, e confessava che il nomignolo era indovinatissimo. Infatti, a ben poco si sentiva adatto, tolto dai suoi disegni. E anche in questi si stancava subito. Quante ordinazioni gli erano andate in fumo per la sua pigrizia! Quante volte aveva stancato i clienti con la lentezza del suo lavoro! Oh, avevano ben ragione, amici e nemici, di chiamarlo Buono-a-niente!
* * *
Da quella sera mi trovai sovente in compagnia del mio nuovo amico e cominciai ad affezionarmi a quella singolare natura di spostato. A volte ingenuo come un fanciullo, a volte scaltro come una scimmia, generoso sempre nella sua miseria, egli profondeva intorno a sè l'allegria come un tesoro. I momenti di malumore li aveva anche lui, allorchè gli mancavano i denari in tasca, il tabacco nella pipa e gli amici nella povera camera all'ultimo piano. Ma passavano subito o, per lo meno, li scacciava dandosi ad una furiosa passeggiata per le strade più popolose o recandosi a sedere sovra qualche solitaria panchina in vista del Po e di Superga. Aveva una cordialità di accoglienza, che gli incatenava i cuori; perciò, anche nei momenti della più nera miseria, non mancavano amici nella sua camera. Tutti amici della sua condizione, naturalmente, cioè senza posizione sociale, ed ai quali non rifiutava mai ospitalità nella notte, cedendo loro il lettuccio e contentandosi per dormire, di sdraiarsi sovra un tavolaccio, che dal davanzale della finestra scendeva a piano inclinato sino al coperchio di un antigo baule, coperto da incisioni di giornali e da note di trattorie. Qualche capriccio di un mese, qualche passione di un anno lo avevano addestrato a conoscere l'eterno femminino. Malgrado ciò e malgrado le piccole orgie, alle quali a volte si abbandonava, egli conservava un inalterabile sentimentalismo, che lo avrebbe reso ridicolo se fosse stato compreso da chi l'avvicinava. Ma le sartine e le modiste, alle quali rivolgeva sguardi languidi e frasi delicate, attribuivano al suo cervello balzano quelle passeggiate al chiaro di luna e quegli idilli sovra i prati, che avrebbero dimostrato a persone più raffinate una grande sensibilità e un intenso bisogno di affetto. Tutti i contrasti si trovavano nel suo modo di pensare e di agire; ogni parola, ogni gesto rasentavano il paradossale e cadevano nel misterioso. Soltanto le sue risate erano franche e chiare, sebbene a volte suonassero come uno sfogo di dolore. Nessuno aveva mai compreso il mio povero Buono-a-niente; ogni cosa aveva ostacolato quella tempra d'artista sibarita nel difficile cammino dell'esistenza. Ricordo un episodio, che potrebbe dimostrare come, anche nei piccoli avvenimenti, la fatalità si divertisse a porgergli un'uguale porzione di gioie e di dolori. Uno dei soliti amori, questa volta con una studentessa; ma un amore disgraziato, poichè si rivolgeva ad una donna più bizzarra ancora del pittore, piena di contraddizioni e di capricci. Il mio amico aveva persa quasi ogni speranza. Talvolta, mi diceva: — Forse verrà il momento buono anche per me. Ma bisogna che mi fidi di quella pazzerella, che è tanto cattiva e lo farà attendere a lungo! Una notte, verso le dieci, tornò a casa. Aveva girato parecchie ore per trovar da mangiare. Digiunava da un giorno; e a venticinque anni il digiuno è ben lungo! Finalmente, appunto verso le dieci, aveva trovato un amico fotografo e si era fatto regalare da lui due o tre cartoline illustrate. Riuscì a venderle a un tabaccaio; poi corse a comprare pane e prosciutto e s'affrettò verso la sua soffitta. Non aveva ancora addentato il pane, che gli era costato tante parole e tanti espedienti, allorchè l'uscio della cameretta si aprì o, per meglio dire, si spalancò, poichè era sempre socchiuso. Dal buio del pianerottolo suonò una voce lamentevole: — Hai da mangiare? Era un amico, il quale, come lo spettro della fame, compariva dinanzi a lui in quel critico momento. — Vieni avanti: divideremo; borbottò Buono-a-niente. L'altro, da buon compagno che vuol rendersi utile, trasse di tasca due mele, un po' guaste, ma ancora presentabili, e un temperino; poi sedette. Sopra il legno, che serviva da tavola e poteva anche far le veci di un letto, e sotto gli occhi luccicanti dei due i commestibili prendevano un aspetto seducente di pietanze da re. Bisogna dire, però, che un mozzicone di candela non basta con la sua luce a far giudicare le cose. Diavolo! Qualcuno picchia sommesso all'uscio; poi s'ode una risata squillante. Il mio amico dà un balzo, rovescia a terra le provviste e le copre con una vecchia giacca, mentre l'altro, attonito e spaventato, corre a rifugiarsi nell'ombra protettrice di un angolo. Nel vano della porta era comparsa, come una visione, la figura ridente di una donna, della studentessa! Povero Buono-a-niente, che, con lo stomaco vuoto, si vedeva costretto a sorridere! Pure, chi avrebbe potuto trattenere un grido di gioia innanzi a quel nasino provocante e a quelle due guance piene di fossette? — Non mi aspettavate, vero? Ma c'era conferenza al Circolo. Mi annoiavo; sono scappata, ed eccomi qui. Ma buono, veh! E datemi la mano per queste scale buie. Mi condurrete a passeggiare. Buono-a-niente lasciò cadere un ultimo sguardo pietoso sulla giacca sdrucita, che nascondeva la sua colazione e il suo pranzo, poi si affidò alla sorte. Il pittore era ubbriaco di fame; perciò agì come un ebbro. Sentiva che la testa gli girava e cominciò a parlare per vincere la languidezza, che l'invadeva. Parlò molto, discorrendo della sua passione come un disperato. Oh, se la studentessa avesse potuto leggere nel suo cuore e nel suo stomaco! Debbo aggiungere che Buono-a-niente piacque? Quando tornò a casa, il mio povero eroe non trovò più traccia nè della cena nè dell'amico affamato.
* * *
Ho detto che il pittore abitava all'ultimo piano, in una specie di soffitta. Dalla piccola finestra della sua camera egli dominava un terrazzino. Buono-a-niente rimaneva spesso ore e ore appoggiato al davanzale, vagando distrattamente con l'occhio per il cielo e sulla via un po' deserta. Una sola cosa turbava il suo quieto fantasticare e cioè un bellissimo pappagallo, di una razza rarissima a piume verdi e rosse, che troneggiava sopra una gruccia nel terrazzino, fra un vaso di rose e uno di geranî. La bestia pareva fosse stata allevata a bella posta per disturbare i sognatori, poichè non cessava mai dal cantare certe sue nenie, inframmezzandole accortamente con brani di dialogo e invocazioni al pasto. Per qualche tempo Buono-a-niente sopportò il martirio. Infine, un giorno ebbe una idea. Comprò un secchietto di latta, una specie di giocattolo col suo manico per tirar acqua dai pozzi minuscoli, che sogliono fabbricare i bambini. Atteso il momento buono, in cui nessun volto umano era affacciato alle finestre, calò con una funicella il secchio colmo di acquavite, sino a portata del becco del pappagallo. L'uccello cominciò col guatare quel liquido sconosciuto: poi, incuriosito, volle assaggiarlo. Pare che il gusto dell'alcool piacesse al figlio della libera America, poichè in breve il secchietto rimase asciutto e potè venir ritirato dal suo proprietario. Gli effetti dello scherzo non tardarono a mostrarsi. Il linguacciuto animale cominciò a sbattere le ali, a muover le zampe disordinatamente e a cantare con voce rauca le più lamentevoli arie del repertorio. Ad un tratto apparve sulla terrazzina un uomo lungo e magro, con le spalle curve e col corpo avvolto in una vestaglia da camera, rossa fiammante. Il nuovo venuto alzò verso il pappagallo uno strano visetto, che gli sfuggiva di sotto alla papalina ficcata fin sulle orecchie, tutto zigomi e mento, con gli occhi piccoli affondati nel cranio e con due grandi buchi per guance. Quel bizzarro individuo cominciò a chiamare dolcemente l'uccello. — Cicco! Cicco! Povero Cicco! Ma sì! Il povero Cicco era occupato a ballare sulla sua gruccia, accompagnando la strana furlana con lo sbatter dell'ali e con la voce roca. Il tanfo dell'acquavite non tardò a far conoscere al vecchio in vestaglia la causa di quello sconcerto. Alzò il capo e scorse Buono-a-niente. — Signore, hanno ubbriacato il mio pappagallo. — Lo racconti al portinaio, rispose con calma il mio amico. — Ma non c'è altri che lei, qui sopra. — Davvero? Ma sotto c'è un'osteria. — Pretenderebbe che Cicco si fosse recato da sè alla taverna? — Chi lo sa? È un pappagallo di spirito. Inoltre chiacchierava troppo: io ho sempre osservato che le persone molto loquaci nascondono qualche dispiacere. Il suo pappagallo sarà stato addolorato e avrà voluto dimenticare..... nell'alcool. Chiuse la finestra e si gettò sul letto, ridendo. L'ubbriacatura portò il povero pappagallo sull'orlo della tomba. Buono-a-niente, che avrebbe bramato osservare gli effetti dell'alcoolismo negli uccelli, non potè soddisfarsi, poichè non ebbe più nuove del chiassoso vicino. Ma, in compenso, un giorno vide l'uomo dalla papalina e dalla vestaglia avanzarsi sulla terrazza armato di un enorme trombone. Egli comprese la vendetta e si preparò alla difesa. Pure, per qualche giorno dovette sopportare i boati dell'orribile strumento e deliziarsi in una gamma, che al suono più basso gli faceva turar le orecchie e al più acuto, malgrado la precauzione, lo balzava in aria come un turacciolo. Infine ebbe un lampo di genio e comprò un piccolo petardo. Due ore dopo, appoggiato tranquillamente al davanzale, egli studiava l'avversario dall'alto della propria situazione. La bocca minacciosa dello strumento si apriva quasi sotto il suo naso, cacciando fuori, come un mostro marino, gli sbuffi spaventosi delle note. Il momento era propizio Buono-a-niente reagì. Il petardo, lanciato da una mano sicura, ruppe una nota nella gola del trombone e, scoppiando tra le lucide pareti, produsse un vortice di fumo e di scintille e un boato, quale mai orecchio umano aveva udito prima d'allora. Il suonatore rovesciò sul suolo tramortito dallo spavento, lasciandosi sfuggire dalle mani lo strumento e la papalina dal cranio. In quell'istante comparve sul terrazzo una fata. Cioè, Buono-a-niente vide avanzarsi una creatura sui diciassett'anni, bionda, rosea, delicata. Il grido di terrore della ragazza fece rinvenire il mio amico dalla sua estasi. Si precipitò per le scale come una furia e corse ad attaccarsi al campanello di casa della sua vittima. Come spiegare la faccenda? I due giovani s'innamorarono e, dopo cinque o sei mesi, si fidanzarono malgrado il pappagallo e il trombone. Pareva che, ormai, la felicità dovesse arridere al mio amico. Ma che! Seppi, più tardi, che il matrimonio era sfumato. Povero Buono-a-niente! |
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