Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Pierangelo Baratono Ombre di Lanterna IntraText CT - Lettura del testo |
|
|
Mehara
Mi trovavo da pochi giorni, in cerca di pace e riposo, nel paesello di Ruta, in Liguria, allorchè conobbi le signorine Boony, due sorelle dai corpi aggraziati, sebbene un po' magri, e dal visetto pallido, incorniciato da una chioma nerissima. Eran gemelle e somiglianti fra loro in tutto, tranne nel colore degli occhi, che nell'una avevano i riflessi glauchi del mare e nell'altra la densa profondità delle tenebre. Orfane e ricche, esse s'erano rifugiate in quel paese meraviglioso, compiacendosi nel magnifico quadro della natura, che in quei luoghi, pel folto verdeggiare delle colline e per la stesa purissima del mare, ha il suo aspetto più sincero e più incantevole. Il padre delle signorine Boony, colonnello nell'esercito inglese, aveva trascorsa una gran parte della vita nel clima snervante dell'India. Ottenuto il congedo e abbandonata la colonia, con la moglie, figlia di un medico indiano, visse ancora qualche anno in patria fra mezzo ai ricordi del suo avventuroso passato. Una malattia di languore avviò quasi contemporaneamente i due sposi pel cammino dell'eterno silenzio. Potei raccogliere queste poche notizie dalle signorine Boony, alle quali una strana ed evidente angoscia impediva di fermare a lungo il pensiero sovra i morti genitori. Provai fin dal primo momento una viva simpatia per le due sorelle. Amavo trascorrere le ore al loro fianco, compiacendomi della squisita sensibilità di quelle delicate creature e seguendo con interesse ed affetto le diverse manifestazioni delle loro anime di sognatrici. Ammiravo in Mehara gli occhi turchini e fondi come il cielo equatoriale e la vivacità di pensiero e di sentimenti; ma quanto più cari mi erano gli occhi nerissimi di Damianti e la sua melanconica dolcezza! Spesso quella vaga fanciulla si avvicinava a me con un moto istintivo, che rivelava un puerile terrore, e posava la piccola mano sul mio braccio, quasi a cercare protezione ed appoggio. Mehara, invece, mi incuteva timore e in pari tempo svegliava nel mio animo il più morboso interesse. Bizzarra fusione di estasi e d'irrequietezza, il corpo in continuo movimento e il pensiero sperso dietro visioni enigmatiche, quella creatura presentava un duplice aspetto di veggente e di amazzone. Sovente si dilungava veloce su per le colline di Portofino innanzi alla sorella ed a me, che più lenti la seguivamo; poi, giunta sul culmine, volgeva l'avido sguardo all'orizzonte, lasciando sfuggire dal petto ansante un selvaggio grido d'entusiasmo. E a volte si posava sulla roccia, con le braccia distese in forma di croce e le mani aderenti per le palme al nudo sasso, godendo nel sole, che le arroventava le membra, pietrificate in una specie di profondo abbandono. La sera, riuniti sulla veranda dell'albergo, or taciti ascoltavamo i rumori diffusi della campagna, coperta d'ombre, fissando gli sguardi nel vivo scintillio del firmamento o sull'abisso di tenebre, che si allargava ai nostri piedi, ora interrompevamo il silenzio con brevi parole, esclamazioni fugaci che rivelavano le nostre comuni impressioni. Talvolta Mehara si sporgeva, col corpo sottile, dalla balaustrata, quasi volesse precipitarsi nella buia voragine; poi, si drizzava con un rapido movimento e, rigida nella penombra, cominciava a parlare, con una voce cadenzata e un po' stridula, delle grandi pianure indiane, ove non era mai stata, e dei templi di Brama e dei sacerdoti, intenti nelle loro ascetiche contemplazioni. Narrava anche di vaghe forme, da lei intraviste nell'immensità del cielo, e di strane corrispondenze fra quelle e i pensieri d'ogni umana creatura. Il mondo non aveva più misteri ai suoi occhi; ogni avvenimento era da lei presentito, ogni creatura umana aveva l'aspetto di un libro aperto, nel quale essa poteva leggere a suo piacere. Ma le pupille, spesso, si stancavano di veder troppo e, offese dalle vibrazioni dell'aria, che si rivelavano di continuo intorno ad ogni corpo vitale, amavano riposarsi nella notte e nella calma solitudine delle tenebre. Il segreto delle anime, ignoto ai profani, assumeva per lei un aspetto iridescente e si profilava intorno ad ogni creatura come un'aureola rivelatrice. «Gli uomini sono colori, essa diceva con la sua voce monotona; ma occorre un prisma a conoscerli.» Il flusso di quelle parole, piene di mistero e di febbre, faceva tremar me e piangere Damianti, che lasciava scorrere liberamente le lagrime sulle mie mani, intrecciate con le sue in un dolce atto fraterno.
* * *
Mehara si appalesava entusiasta e profonda conoscitrice della religione braminica e spesso si addentrava con morbosa curiosità nell'interpretazione simbolica delle strane cerimonie di quel culto. «Io non vorrei morire mi disse un giorno, se non bruciata dalla fiamma purificatrice, alla quale la vedova si affida con gioia nei boschi dell'India.» Ma perchè, manifestando questo folle desiderio, essa volgeva intensamente i suoi occhi nei miei? Le nostre relazioni d'amicizia accennarono lievemente a modificarsi, in quei tempi, assumendo, a poco a poco, un aspetto diverso. Damianti continuava a trattarmi famigliarmente, ricercando la mia presenza e abbandonandosi, in ogni occasione, allo svago di un dialogo confidenziale. Ma la sorella cominciava a dimostrare per me un'inesplicabile avversione, allontanandomi da sè con frasi fredde e imperiose. Perdonavo volentieri queste bizzarrie attribuendole all'indipendenza ed alla stranezza del suo carattere; inoltre, mi sentivo già troppo dominato dalla dolce fantasticheria, che è quasi sempre la messaggera dell'amore, per poter volgere a lungo l'attenzione su quanto non riguardava Damianti, la mia delicata amica. Non osavo ancora definire i miei sentimenti; se lo avessi potuto, mi sarei sentito debole e inetto di fronte a una creatura, che sembrava nata più per la pura contemplazione di una felicità divina, che per le volgari gioie della terra. Pur finalmente un mattino le nostre anime si rivelarono, a un tratto, l'una all'altra. Passeggiavamo, io e la dolce Damianti, per il boscoso declivio di una collina. Mehara, dinanzi a noi, si era dilungata dalla nostra vista fra mezzo al viluppo degli alberi. Più nulla si udiva, in quella melanconica solitudine, tranne, di tempo in tempo, il richiamo breve di qualche contadino o il fievole rintocco di campane. Quale misteriosa fatalità mi spinse, in quel punto, a piegar lievemente il viso su quello della cara fanciulla ed a sfiorare con le mie avide labbra la sua bocca tremante? Ella corrispose al mio bacio, ingenua e fidente, e si appoggiò tutta su di me, nascondendo l'imbarazzo e il rossore fra le mie braccia. Ma la mia benamata fu presta a sciogliersi dall'abbraccio e a fuggire lieve, tinnendo un piccolo grido, come di uccello ferito. E a questo rispose, dall'alto, un urlo prolungato e stridente, che mi agghiacciò il sangue nelle vene e mi paralizzò per un attimo. Pur mi scossi e mi avventai su per la collina, sino alla vetta nuda. Là, abbandonata sulla roccia, bianca e rigida come una morta, trovai Mehara: al suo fianco, Damianti piangeva torcendosi le braccia delicate. Molte cure occorsero a far rinvenire la fanciulla; infine, i colori della vita tornarono sulle sue guance e si riaprirono i grandi occhi glauchi. Il suo primo sguardo si posò su di me, uno sguardo denso d'odio e di minaccia, che mi fece rabbrividire. Poi Mehara cominciò a parlare pianamente, tenendo fra le sue le mani della sorella e pur continuando a fissarmi le pupille, nel volto: — So quanto è accaduto, laggiù, tra voi due; ho inteso nella mia anima l'eco del vostro bacio. Perdonate la debolezza, che mi ha vinta per un istante. Il pensiero di dovermi staccare da mia sorella, di dover dividere con altri il suo affetto, è stato più forte di me. Voi vi amerete.... ed io me ne andrò, lontano, ove vorrà guidarmi il destino. Non parlare, Damianti. So quel che vorresti; ma non posso rimanere con te. Le nostre anime erano indissolubilmente legate l'una all'altra; uno straniero è venuto e le ha divise, per sempre. Non piangere; la tua pena è grande, ma non quanto la mia! Tornammo all'albergo, non osando guardarci nè rompere il penoso silenzio, che ci gravava sull'anima. Da allora mutammo profondamente le antiche abitudini. Io rimanevo assiduo al fianco della mia fidanzata, che l'affetto di sorella dimenticava per l'amore di donna. Quanto a Mehara, non si lasciava più vedere da noi. Essa trascorreva le sue ore nella raccolta solitudine della camera o fra la calma spaziosa dei colli. Talvolta, Damianti mi pregava sommessa di rinunciare al nostro affetto e di render la pace alla sorella. Ma le mie parole e più ancora la viva espressione dei miei sentimenti dissipavano presto la nube del suo dolore e rendevano il sorriso alle sue trepide labbra. Una sera, tornavo da una breve passeggiata, allorchè mi imbattei, sulla strada provinciale, in Mehara, sola ed assorta. Imbarazzato dall'improvviso riavvicinamento, tentai di balbettare una frase banale, la prima che mi venne alle labbra. Ma rimasi muto e impietrito di terrore innanzi al selvaggio aspetto, che aveva in un attimo assunto il volto della fanciulla. Ora la luna, illuminandola in pieno, rivelava un viso pallido come marmo, sul quale si aprivano gli occhi, scintillanti e profondi come golfi di luce, fissi su di me con un'espressione di odio implacabile. — In nome del cielo, Mehara, che avete? esclamai. Mi posò una mano sul braccio, con violenza: — Non hai compreso, dunque? Non hai compreso che, facendoti amare da mia sorella, suscitavi la passione anche nel mio cuore? I sentimenti di Damianti sono i miei, come la sua vita è la mia. Non si può rubare l'anima all'una, senza prendere quella dell'altra. Essa lo sa, essa; ma tenta di dimenticarlo. Insensata! Le nostre due esistenze sono intimamente legate, come le nostre due anime. E tu non lo hai compreso, non sei riuscito a leggere nel libro del destino! Ben presto ogni cosa sarà chiara per te, ma dopo quali dolori! Prepariamoci a subire la stessa sorte, noi, che la fatalità ha segnati con una sola croce. Tacque un istante, guatando attorno, come spaurita; poi riprese: — Questa notte io partirò, vi lascierò soli col vostro amore. Ma con te, al tuo fianco, rimarrà la mia anima, poichè vi resta quella di mia sorella Damianti. Mi tolse la mano dal braccio, mormorò ancora: — Io sono la vedova e mi appresto al sacrificio. Poi fuggì rapida per la strada bianchissima.
* * *
Un triste presentimento aggravò improvviso l'anima mia e di Damianti, allorchè varcammo la soglia della stanza nuziale. Benchè uniti per sempre nella gioia del nostro amore, non riuscimmo a muovere le labbra per dirci l'un l'altro la nostra felicità; ma, muti ed assorti, ci tenevamo abbracciati trepidando fra le tenebre, che cominciavano a invadere la camera. Quando intorno a noi le cose perdettero il loro colore per immergersi nell'ombra, io mi volsi alla mia compagna e cercai di susurrarle qualche parola d'amore. Essa mi ascoltava col visino alzato verso di me, bianco sulle tenebre della stanza. Vincendo il segreto terrore, che mi occupava il cervello, posai le mie labbra avide di gioia su quella bocca palpitante. Ma la fanciulla si svincolò dal mio amplesso, gridando con un accento straziante — Guarda! Guarda! Volsi indietro la testa, meravigliato. La parete di fondo della camera s'era come dissipata nell'aria: al di là, un'altra camera appariva, illuminata dal fosco bagliore di una torcia di resina. Mehara, nel mezzo, dritta con l'alto e sottile corpo, agitava il ramo incendiato, da cui sgorgavano globi di denso fumo e scintille. Oh, sempre, sempre nella mia memoria rimarrà impresso quel volto, cupo d'odio, e il sogghigno atroce di quella bocca, e il luccichio delle pupille, fisse sovra di me! L'orribile apparizione balzò agilmente sul letto gettando la torcia fra le coperte. E subito da ogni lato si innalzarono lingue di fuoco, scarlatto e listate di nero, avvolgendo il corpo rigido della fanciulla. L'incendio spaventoso, che si svolgeva senza rumore a pochi passi da me, progrediva rapidamente, come a traverso un velo di sogno, immergendo la mia anima nel più profondo terrore. Vidi le vesti di Mehara fiammeggiare, il suo volto e le tenere carni solcarsi di liste rosse e nerastre, corrose dalla forza distruggitrice; vidi i suoi lunghi capelli drizzarsi sulla sua fronte e avvampare come da torcia umana. Fra le lingue di fuoco, che la coprivano, gli occhi ancor luccicavano, fissi intensamente nei miei. Scorsi ancora le sue braccia, levate alte sul capo, agitarsi in un ultimo gesto di spasimo; poi tutto il corpo rovinò in fascio nel vortice incandescente. La parete della camera riapparve, impenetrabile come prima. Raccapricciando nelle tenebre, che di nuovo m'avevano avviluppato, mi affrettai ad accender la lampada, che avrebbe dovuto vegliare sovra il mio amore. E scorsi Damianti, col corpo abbandonato sul pavimento, il viso bianco, e gli occhi, ancor pieni di luce, fissi, spalancati nel vuoto.
* * *
Seppi al domani la fine di Mehara, bruciata viva per un incendio fortuito, sviluppatosi nella sua camera. |
Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License |