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Pierangelo Baratono Ombre di Lanterna IntraText CT - Lettura del testo |
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La jettatura del maestro Pèpere
— Venga questa sera, mi disse la signora Guicci; faremo un po' di musica e proveremo il boston. E poichè, col fine intuito che contraddistingue le donne, aveva letto nei miei occhi la poca simpatia, che m'inspiravano i divertimenti offerti alla mia immaginazione, soggiunse in tono misterioso: — Senza contare che la presenterò al maestro Pèpere. Avevo sentito parlare molto e da molti del maestro Antonio Pèpere come del personaggio più curioso di quella città di provincia. Nell'ambiente di noia e di chiacchiere, che caratterizza la vita provinciale, la figura del maestro pareva si profilasse come una bizzarra oasi sopra un deserto di sabbie. La città era settentrionale; ma il maestro, a quanto m'avevan riferito, era il più puro tipo di meridionale in genere e di napoletano in specie. La prima era sciocca, pretensiosa, vuota d'anima e di movimento; il secondo, invece, possedeva molto spirito, bontà ed altri ottimi requisiti. Tuttavia la città e il maestro pareva andassero d'accordo. Si sarebbe giurato, da lontano, che lì sotto giuocasse un po' di magìa; da vicino, sempre secondo i discorsi che m'avevan tenuti, si spiegava facilmente il fenomeno. Don Antonio aveva conquistata la benevolenza dei suoi compaesani d'occasione a forza di tatto, di prudenza e, diciamolo pure, d'originalità. Non dava ombra a nessuno, non parlava male neanche delle mosche, non si urtava contro alcuna di quelle forze latenti e spesso ignorate, che si sprigionano al minimo contatto brutale dal temperamento generale, astioso e diffidente, dei provinciali. Perciò, s'era conquistata la popolarità nel senso più elevato della parola. Questo ritratto, messo su con l'unione di cento informazioni particolari, mi aveva posto in curiosità di conoscere personalmente l'originale. Perciò, sebbene fossi molto restìo a subire le conversazioni agro-dolci di un salotto ed a prendere parte ai così detti trattenimenti familiari, quella sera mi recai di buon animo al ricevimento della signora Guicci. Giunsi un po' presto e dovetti sorbirmi, come antipasto, l'audizione di tre o quattro notturni e di altrettante barcarole, che una signorina, armata di buona volontà, pestava come invasata sopra un rumoreggiante pianoforte. Ero intento a seguire con sguardo ansioso i movimenti di due agili mani sulla tastiera, che sembrava poco contenta di quei continui e bruschi contatti, allorchè sentii una voce femminile mormorarmi all'orecchio: — Ecco il maestro! Mi volsi improvviso. In quel momento un signore varcava la soglia del salotto, asciugandosi la fronte con un fazzoletto. Aveva una faccia bonaria, larga e grassa, due occhi limpidi, un po' irrequieti, protetti da un paio di lenti profondamente piantate sul naso carnoso, e due baffoni color di carota, ripiegati sulle labbra a guisa di ornati. Quando tolse il fazzoletto dalla fronte, scorsi un cranio rotondo e completamente calvo, sul quale, come sopra un terso cristallo, si rispecchiavano le fiammelle dei lampadari. A completare il ritratto aggiungerò che il suo corpo era panciuto e voluminoso e che le sue braccia si muovevano continuamente con gesti lenti e un po' teatrali. — Un vero compaesano?, chiese con voce sonora e profonda dopochè la padrona di casa mi ebbe presentato a lui come napoletano. Avanzò una mano grassoccia e sudata e strinse la mia, che si tendeva fraternamente, indugiando nella posa. — Che caldo!, soggiunse subito sorridendo e scrutando con gli occhi gli angoli della stanza. Non seppi che rispondere e mi limitai a mormorare con accento rassegnato: — Già! Che caldo! Un gruppo di ragazze avviluppò il maestro Pèpere, togliendolo alla mia compagnia, ed un coro di voci giovanili lo tempestò di domande. — Maestro, suona qualcosa di suo? L'ha promesso, non ricorda? Suoni «L'ultima burla di Pulcinella!». Il buon Pèpere alzò la mano, armata di nuovo del fazzoletto, passò questo sull'ampia fronte imperlata di sudore, poi si mise a ridere. In parola d'onore, non avevo mai intesa prima d'allora una risata così schietta e rumorosa! Pareva lo sfogo di un temperamento veramente allegro, che si compiaccia nel comunicare agli altri la propria gioia. Non l'ho ancora detto? Il maestro Pèpere era professore di musica e canto e compositore a tempo perso. La signora Guicci mi s'era avvicinata di nuovo. — Che ne pensa?, mi chiese. — Molto simpatico, risposi senza esitare. — Lo prevedevo. E Lei non sa ancora nulla. Quell'uomo ha nel cuore un vero tesoro di bontà. Alle volte, è vero, si lascia trascinare a certe sfuriate, che paiono uragani; grida e tempesta con le sue scolare come potrebbe fare il professore più burbero e più maleducato. Ma subito si ripiglia e si pone a ridere in quel suo modo speciale, che al pari di un buon vento spazza via ogni densa nube. Nessuno, neanche le sue scolare più testarde e orgogliose, potrebbe offendersi per quegli scatti e tanto meno serbar rancore. — Ha gli occhi maliziosi e l'espressione del viso ingenua come quella di un bambino, osservai sottovoce. — E vero: l'ha caratterizzato molto bene. È un fanciullone furbo. Ha portato con sè dal suo paese pieno di sole e di bellezza un sentimentalismo un po' puerile, ma dolce, un modo di considerare la vita e gli uomini tutto soggettivo, a impressione. Ma tiene in riserva, per sua difesa, un fondo d'astuzia non comune. Pochi si accorgono di questa sua qualità; ma a noi donne non può sfuggire. Dicono che sia capace di profonde affezioni e di sacrifici illimitati per chi riesca a piacergli. Ma io credo che, in generale, dinanzi agli indifferenti ed alle semplici conoscenze, egli si conservi freddo e cauto e sia pronto ad approfittare in proprio vantaggio dei loro difetti. Ma la piacevolezza della sua conversazione e più ancora il timbro delle sue risate lo fanno sembrare amabile a tutti. E un carattere molto complesso sotto un'apparenza di semplicità. Ne giudichi da quest'aneddoto. Un giorno, in compagnia di quattro o cinque giovanotti, entra in una pasticceria, prende un dolce e, volgendosi agli altri, dice con voce animata ed in tono cordiale: Servitevi, servitevi; mi fate piacere. Tutti approfittano dell'invito, ma all'atto del pagare vedono il buon Pèpere sborsare tranquillamente la propria parte e attendere con serenità olimpica che anche gli altri compiano il loro dovere. — Oh, la cosa si spiega, dissi: il maestro è una natura esuberante, che ama la compagnia anche nel mangiar dolci. Il suo bisogno di far partecipare gli altri ai propri godimenti lo avrà indotto all'invito, ma ad un invito senza sottintesi, come si pratica fra persone, che si comprendono. Soltanto, aveva da fare con settentrionali chiusi e cerimoniosi e quelle sfumature di sentimento non poteva trovare chi le intuisse. — Vuole un altro aneddoto? Il maestro non è ricco; al contrario, le sue lezioni gli fruttano appena di che vivere. Ma ogni sera sente il bisogno di trascorrere qualche ora in un caffè a vuotare una bottiglia di vino e a giuocare. Siccome è molto metodico, mi han detto che invariabilmente al mattino pone da parte i soldi, consacrati al suo capriccio innocente. Credo che non potrebbe vivere senza quel vino. Una sera un amico lo ferma sulla soglia del caffè e gli chiede un prestito, che lo salvi da impegni urgentissimi. Il maestro rovescia le tasche, apre il portafogli e mette quanto possiede nella mano del richiedente. Per un mese non lo videro più al ritrovo serale. Il bilancio non gli permetteva di soddisfare l'unico piacere della sua vita. I suoi conoscenti temevano che ne facesse una malattia, tanto era diventato nervoso e intollerabile in quel tempo. Ma nessuno lo udì mai pronunciare una parola amara contro il debitore o di rimpianto per il denaro, che s'era involato dalla sua borsa. Al contrario! — Brav'uomo! esclamai. Dev'essere facile contrarre amicizia con lui. — Non tanto! Ha più bisogno, forse, d'ammiratori che di amici. Perciò si circonda di conoscenze, specialmente di giovanotti, compiacendosi nella loro compagnia e discorrendo continuamente. Quanti lo avvicinano pendono dalle sue labbra e ne imitano i gesti più insignificanti, quasi fosse un nuovo Socrate. Ed egli ne va lieto e cerca di estendere sempre più la cerchia dei suoi discepoli. Ha cinquant'anni, ma possiede ancora un temperamento di venti. Frattando l'oggetto della nostra conversazione s'era avvicinato al piano, fra un nugolo di signorine. Lo vidi sedersi tranquillamente e far scorrere le dita sulla tastiera, mentre il suo faccione s'alzava verso il soffitto, il suo corpo si dondolava ritmicamente e gli occhi scorrevano per la sala quasi volessero leggere l'impressione dei suoni su quei visi attenti. Suonava molto bene, con animo, un po' lentamente, velando con una leggera nube di melanconia i brani musicali più gai. Nell'uscire dal salotto mi prese per un braccio e mi chiese: — Vogliamo far due passi insieme? Da quella notte una viva corrente di simpatia si stabilì fra noi due.
* * *
Benchè vivessi, ormai, in molta famigliarità col maestro Pèpere, qualche volta lo trovavo stranamente ostile verso di me. Appunto nei momenti di maggiore abbandono egli soleva staccarsi bruscamente dal mio braccio e, dopo avermi guardato con un'espressione quasi di rabbia, allontanarsi frettoloso con un breve cenno di saluto. Sapevo ch'era un po' superstizioso ed avevo osservato che non si toglieva mai dalla catena dell'orologio un grosso corno d'avorio, che spiccava come una virgola sull'ampio panciotto. Una volta gli chiesi all'improvviso: — Maestro, avete paura ch'io vi metta il malocchio? Diede in uno scossone e spalancò gli occhi; poi chinò il viso verso terra, mormorando: — No, no; perdonatemi! Lo strinsi di domande e finii con l'ottenere da lui la spiegazione, che cercavo. — Sentite, mi disse. A voi posso parlare a cuore aperto. Ho paura di diventarvi troppo amico, ve lo confesso senza complimenti. — E che male ci sarebbe, gli chiesi, dal momento che anch'io mi sento così legato alla vostra persona? — Oh, per voi non c'è pericolo! Ma io... io... Tacque un istante; poi mi prese a braccetto e mi condusse fino ad una panchina solitaria. Dopo che ci fummo seduti, cominciò a parlare a voce bassa: — Sapete? Non sono jettatore: oh, così lo fossi! Sono jettato, invece; ho il malocchio sopra di me. Nessuno di quanti mi avvicinano deve aver timore di me; ma io, io solo ho paura, poichè se m'affeziono sono un uomo rovinato. Gli unici tempi felici della mia vita sono stati quelli, nei quali non ho avuto nessun legame d'amicizia o d'amore. In quelle epoche le cose andavano a gonfie vele: ero tranquillo, non provavo dolori, vedevo la vita sotto un color di rosa. Ma guai se m'affezionavo a qualcuno. La maledizione si rovesciava sopra di me. Vi racconterò tutto, poichè vi so capace di comprendermi. Ogni mia sventura è derivata da questo strano malocchio, che mi prende quando voglio bene a qualche creatura. Gli altri, intorno a me, sono felici; ma io soffro le pene dell'inferno. Ho dei ricordi terribili nella mia esistenza; se sono un disgraziato, che campa delle proprie lezioni, lo devo appunto alla jettatura, che esercitano sopra di me le mie stesse affezioni. Mio padre era un povero portinaio di Napoli. Con molti sforzi mi fece frequentare le scuole tecniche. Ma fin d'allora avevo un'invincibile attrazione per la musica; ho imparato da me a suonare, componevo anche dei pezzi e li facevo sentire a qualche maestro di concerto, che m'incoraggiava. Ma sopra ogni cosa amavo mio padre: quel buon vecchio era tutto il mondo per me. Quando si trattò di scegliere un mestiere, mio padre mi scongiurò di non volermi rovinare l'avvenire seguendo le mie chimere. Egli non aveva fiducia nell'arte e non poteva tollerare il pensiero di sapermi occupato nelle note musicali, che, secondo lui, non davano pane. Badate che appunto a quell'epoca un noto professore di canto m'aveva promesso un posto gratuito nel Conservatorio di S. Pietro a Majella. Tuttavia rinunciai alle mie speranze e mi posi a un mestiere. Quanto ho sofferto in quei momenti! Ma, pur di soddisfare mio padre, piegai il capo e dimenticai i miei sogni. Più tardi, allorchè il buon vecchio morì, mi trovai con un mestiere antipatico fra le mani e piansi tutte le mie lagrime pensando all'avvenire, che avevo perso. Vi parranno illusioni le mie! Eppure, credo che sarei riuscito a qualcosa, se avessi continuato a studiare la musica. Per fortuna, a togliermi dal mio sconforto venne la leva. Fui incorporato in una banda militare e potei sfogarmi un poco con la mia arte prediletta. Ma ormai era troppo tardi per cominciare qualche studio serio. Appena preso il congedo, mi dedicai con pazienza a lunghi studi teorici e riuscii ad ottenere il diploma d'insegnante. Ma avevo perso i miei anni migliori e non potevo più pensare a rifarmi un avvenire. Da allora guadagnai più o meno bene da vivere senza sperar più di togliermi dal mio umile stato. Badate! Non mi pento di quanto ho fatto; ho ancor viva nell'anima la memoria di mio padre e non vorrei turbarla con rimpianti. Da compositore a maestro di musica è un bel salto, non è vero? Ma, che volete?, ne ha colpa il malocchio! Diede in una risata, che mi sconvolse come un grido di dolore; poi continuò: — Se volessi raccontarvi tutti gli scherzi del malocchio, ne avrei per un anno. Ogni volta che ho posta la mia affezione in qualcuno, mi son visto colpire dalla sventura. Ma ho sempre sorriso, sapete?, ed ho scossa la testa. Soltanto, man mano che avanzavo negli anni ponevo ogni mio studio nell'eliminare le cause d'ogni viva simpatia. Per questa ragione in qualche momento sono stato brusco con voi. Mi perdonate? Gli tesi una mano, ch'egli strinse fra le sue con un lieve tremito nelle dita. — Anche le donne, chiesi, v'hanno fatto del male? — Sono stato innamorato soltanto una volta nella mia vita. Dopo, ho fatto forza a me stesso. Avevo bisogno di una creatura, che mi guardasse fiduciosa e sorridente e mi affidasse la sua piccola anima. Ma il terrore del ricordo vinceva in me ogni stimolo a contrarre relazioni con donne. — Dite, dite, maestro! — È la memoria più dolorosa ch'io abbia; ma ve lo racconterò lo stesso. Quand'ero soldato musicante mi recavo ogni festa a suonare con la banda nel giardino di Salerno. Dalla caserma al giardino c'era una via piuttosto stretta e solitaria. Ma a me sembrava la strada del paradiso, poichè avevo osservato che dalla finestra di una casa, al nostro passaggio, si sporgeva invariabilmente un fresco visino di fanciulla a seguirci con l'occhio sino allo svolto. Che volete? Ero giovane e un po' fantastico: finii con l'interessarmi a quella piccina e col chiedermi perchè stesse in casa, mentre le altre ragazze uscivano a passeggiare ed a divertirsi. Mi dissero ch'era la figlia di un usciere del tribunale e che la madre, una specie di zingara secca e priva d'ogni sentimento, la obbligava a lavorare continuamente. Provai un po' di compassione e cercai di parlare alla fanciulla. Pensate: io avevo ventidue anni, essa diciotto. Ci intendemmo facilmente e cominciammo un idillio, reso ancor più caro dalle astuzie, che dovevamo mettere in opera per ingannare la madre. Ho passato momenti dolcissimi con quella ragazza: parlavamo del nostro amore e dell'avvenire, che la gioventù ci faceva sembrare facile e roseo. Qualche volta scambiavamo rapidi baci, che facevano arrossire la fanciulla e battere al mio cuore una marcia. Una sera la incontrai per strada a braccetto con un giovanotto; le diedi un'occhiataccia e vidi che abbassava il capo. Appena ci trovammo insieme: «È mio cugino», mi disse: «è tornato dall'America e vuol stabilirsi a Salerno». Dapprima non volli curarmi di quel parente giunto così all'improvviso; ma a poco a poco dovetti accorgermi che la ragazza si mostrava sempre più fredda verso di me e non mi concedeva più le sue labbra. Sentivo d'amarla con tutta la furia e la forza della mia gioventù; ne avevo fatto un idolo al mio cuore, avevo riposte in lei tutte le mie speranze ed i miei sogni d'avvenire. Avrei baciata la terra, che calpestavano i suoi piedini; sarei rimasto ore e ore sotto le sue finestre a contemplare i vetri della sua cameretta. Ma, malgrado la cecità dell'amore, finii con l'insospettirmi e col meravigliarmi di quel cambiamento. Una sera la strinsi di domande, mi buttai ginocchioni dinanzi a lei, scongiurandola di volermi dire la verità. Me la vedo ancora davanti, pallida e tremante, con gli occhi smarriti e appannati da qualche lagrima. «Oh, Antonio», mi disse coprendosi il volto con le mani e singhiozzando: «perdonatemi, per carità!». «Che c'è», urlai! «che cosa ti devo perdonare?». Essa mi guardò con compassione, poi mormorò: «So quanto mi amate; ed anch'io v'ho voluto molto bene! Ma ho paura, adesso, di non potervi più parlare!». «Perchè? Perchè?», la interruppi. «Perchè amo lui, mio cugino!». L'afferrai per un braccio, la costrinsi a piegarsi sotto la mia stretta. Ma essa mi guardò supplichevole, dicendo: «Perdonatemi, Antonio; sarò vostra lo stesso, se vorrete, poichè ho impegnata la mia fede con voi, ma ne morrò di dolore!». La sua felicità, la sua felicità sopra tutto! Sentivo l'impulso di ucciderla; ma mi dominai. Le volevo troppo bene; e poi, mi faceva tanta pena quel visino bagnato di pianto! Essa doveva essere felice, a qualunque costo, non è vero? Che importava che i miei sogni fossero distrutti d'un colpo, che importava ch'io mi trovassi di nuovo solo, abbandonato, con l'animo pieno di dolore? Purchè lei vivesse, purchè fosse felice! «Sei sicura d'amarlo?», le chiesi. Abbassò la testolina susurrando: «Oh, sì!». «E tu sposalo!», urlai. Poi fuggii all'impazzata per le strade. Lo credete? Quella notte meditai il suicidio. Ma le avrei dato troppo dolore, avrei pesato come un rimorso nella sua esistenza! E vissi. Ma da allora non badai più alle donne. Ed ho cinquant'anni! Volse gli occhi su di me, che lo ascoltavo attento; poi si alzò, dicendo: — Vedete! È sempre il malocchio! Non mi posso affezionare! Diede in un'altra risata, che suonò ancor più tormentosa della prima, e cominciò a camminare. Io lo seguii meccanicamente, con l'animo scosso dalle confessioni, che avevo udite. Prima di accomiatarsi da me, il maestro mi disse: — C'è un solo rimedio contro il malocchio, che mi pesa addosso. Me l'ha insegnato una sonnambula; ma fin'ora è andato a vuoto. Bisognerebbe che diventassi jettatore a mia volta e che producessi qualche danno a quelli, che mi sono affezionati. Ma non c'è mezzo! Ho sempre visto gli altri felici e mi son sempre trovato disgraziato lo stesso. È il destino! Sorrise e mi strinse la mano.
* * *
Un giorno il maestro Pèpere m'invitò a pranzare con lui alla «mensa». La mensa era una specie di pensione, dovuta all'iniziativa del mio amico, che aveva raccolto intorno a sè una diecina di giovanotti più ricchi di speranze che di denaro. Provai un'impressione nuova e gradevole a quel lungo tavolo, intorno al quale sedevano i tipi più disparati. Ricordo un tenente contabile, che raccontava freddamente le avventure amorose più inverosimili e più in contrasto con la sua faccia tranquilla di brav'uomo. C'era anche un professorino di francese con un visetto ingenuo e colorito, sperso in una barba a punta: era quello che mangiava più di tutti, benchè fosse il più piccolo. Durante il pranzo era un diluviare di frizzi, di satire, di chiacchiere, interrotte di quando in quando dalle risate rumorose del maestro che, a capotavola, sedeva come un re sul suo trono. Tornai parecchie volte in quella casa. Mi divertivano, sopra tutto, i sospiri del professorino innanzi alle porzioni troppo limitate e le rabbie di don Antonio, che ogni tanto, per non perdere l'abitudine, dava in una sfuriata contro la padrona. Costei era una vecchietta tutta grinze e nervi, con due occhi azzurri e irrequieti, quasi soffocati nell'invasione di rughe, che le distruggeva i lineamenti. L'aiutava a servire i pensionanti una figlia, ragazza sui quattordici anni, dai capelli rossi, dalle carni fresche e rosee e dai dentini bianchi e fitti, che si mostravano spesso nella risata. Pareva un bel frutto maturo, nel quale si sarebbe dato volentieri un morso come in una pesca vellutata. Mi accorsi subito che il maestro Pèpere la sorvegliava gelosamente, e glielo dissi. Si pose a ridere e mi rispose: — Sapete? La tengo come una figlia. Forse un giorno l'adotterò, poichè in quella casa so che si trova male. Sgridate e lavoro, null'altro! A dire il vero era lui il primo a sgridarla ed a tuonarle dietro, ad ogni minimo sbaglio, con un vocione da orco il suo epiteto favorito: Salame! Lì dentro, anzi, tutti la chiamavano con quel nome, provocando in lei un'allegria di fanciulla sana, che le faceva aprire le labbra carnose e mostrare l'avorio dei denti. — Attento, don Antonio!, dissi un giorno al maestro. Badate a non affezionarvi troppo, chè potreste incontrare di nuovo il malocchio! — Avete ragione!, mormorò in risposta il mio amico. Ma ormai ci sono abituato! — E se diventaste jettatore a vostra volta?, continuai ridendo. Rise anche lui: — Sapete? Sarebbe l'unico modo per non essere più jettato. Notai in quel tempo nel maestro Pèpere una preoccupazione sempre crescente, che gli turbava la bella faccia serena e lo rendeva nervoso. — Che avete, maestro?, gli domandai un giorno. — Volete saperlo? Ho il desiderio d'adottare davvero quella bambina; ma non oso. Ho paura che succeda una disgrazia. — Ubbìe! Adottatela e guarirete! La sera andai a cenare alla mensa. Don Antonio si mostrava più allegro del solito, pur non tralasciando di brontolare di quando in quando contro la sua protetta. Ma pronunciava quel titolo «Salame!» con un tono così dolce, da far quasi venire le lagrime agli occhi a me, che sapevo le sue intenzioni. E poi, la covava con lo sguardo con un'espressione amorosa e paterna, che non sfuggiva alla mia osservazione. Al domani mi disse solennemente: — Ho parlato con la madre e con la figlia; sono entrambe contente. Così, questa sera dovete essere ancora dei nostri e prender parte ai brindisi, che ho intenzione di fare. Era felice; il suo faccione onesto si rischiarava come una luna piena. A cena annunciò ai commensali la sua risoluzione, che fu accolta con un'ovazione generale. Allorché furono poste in tavola le bottiglie, offerte da don Antonio, l'allegria cominciò a prendere un gigantesco sviluppo. Intanto la fanciulla, rossa in viso e sudata, s'affaccendava intorno ai pensionanti, schermendosi come meglio poteva dai loro complimenti e dalle loro carezze affettuose. La padrona di casa, per chiudere la serata, offrì il caffè sul terrazzo. Il maestro Pèpere s'affrettò a segregarsi in un angolo di questo, tenendo sulle ginocchia la sua nuova figliuola, che con i capelli scomposti e svolazzanti alla brezza notturna e con gli occhi luccicanti pareva la raffigurazione della felicità. Pochi giorni dopo trovai per la strada don Antonio, pallido ed abbattuto. Camminava curvo, scuotendo la testa e borbottando. — Che v'è successo, maestro?, gli chiesi. — Sapete? La sonnambula aveva ragione. Son guarito dal mio malocchio, diventando un jettatore. — Perchè? Perchè? Si passò il fazzoletto sulla fronte, poi mormorò: — La mia figliuola adottiva è moribonda. Provai come un urto nel cuore e balbettai: — Che dite? Cos'è accaduto? — Ha presa una polmonite doppia e va struggendosi come cera. Si allontanò rapidamente, senza salutarmi, con la testa china verso terra e le spalle piegate. La sera andai alla pensione e trovai la padrona in lagrime. Mi fece entrare in una cameretta, ove scorsi sopra un lettino il corpo della fanciulla, bianco e immobile. — È morta?, urlai. Al mio grido, dall'ombra sorse il viso del maestro, livido e tremolante. — Vedete?, suonò la sua voce: non ho più il malocchio e devo ringraziare questa creaturina. — Non dite così, non dite così, maestro! — Che importa!, mormorò. Purch'io sia felice! Diede in una risata stridula, poi s'accasciò di nuovo nell'ombra. Baciai la povera morticina sulla fronte ghiacciata, poi m'avvicinai al maestro e lo scossi. — Su, su, don Antonio; non vi abbattete così. Non è colpa vostra, dopo tutto! Mi fissò con occhi stralunati e si drizzò con l'ampio corpo. — Avete ragione, disse; è il destino! Lo trascinai quasi a forza fuori di quella casa. Quando fu in istrada, mi strinse per un braccio e borbottò: — Bisogna che mi rimetta. C'è ricevimento domani sera in casa Guicci, e m'hanno invitato a suonare.
* * *
Durante tutto il giorno seguente non potei trovare il maestro Pèpere nè alla pensione nè in casa. L'inquietudine sulla sorte del mio amico m'indusse a recarmi al ricevimento della Guicci. In poche parole misi al corrente dell'accaduto la brava signora e la informai della risoluzione del maestro di venire a suonare nelle sue sale. Quando don Antonio entrò, notai che aveva il viso più infiammato del solito. — Forse ha bevuto per distrarsi, mormorai alla mia vicina. Egli camminava lentamente fra mezzo agli invitati, rispondendo con un sorriso ai saluti. Si diresse verso noi due e venne a stringere gaiamente la mano della signora Guicci. Poi si avviò al pianoforte, sedette, cominciò a suonare. Sotto il tocco febbrile delle sue dita si sprigionò una strana musica, piena di dolcezza e di malinconia. Quanti si trovavano nella sala sentirono scorrere per il corpo i brividi di un'angoscia misteriosa, poichè ignoravano la disgrazia del maestro. Tutti rimasero muti e paralizzati, quasi sospesi nell'attesa di qualche avvenimento impreveduto. La bizzarra composizione del maestro Pèpere si diffondeva per l'aria del salotto e scendeva nell'anima come l'eco di un pianto lontano e inconsolabile, come il gorgheggio di un uccello prigioniero che veda, di tra i ferri della gabbia, volar alto nel cielo i suoi simili. Qualche signora piangeva; gli uomini chinavano pensosi la testa. A un tratto vidi il maestro drizzarsi in piedi e rovesciare il capo all'indietro, sghignazzando. La signora Guicci ed io fummo i primi a corrergli vicini. Ma egli ci respinse con un gesto rude e urlò: — Indietro! Sono un jettatore! Poi scoppiò in un'altra risata. Prima ch'io potessi sostenerlo, lo scorsi barcollare e rovesciare pesantemente sul pavimento. I suoi occhi ebbero ancora un lampo di luce, le sue labbra si aprirono ancora a un sorriso; poi quelli si spalancarono, divennero opachi e fissi, queste sbiancarono come se tutto il sangue del buon maestro Pèpere si fosse condensato nel suo cuore, a spezzarlo. |
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