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Pierangelo Baratono
Ombre di Lanterna

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  • Re Torbido
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Re Torbido

 

Egli era giunto da molto tempo nella città della nebbia; ma negli occhi serbava ancora la nostalgia di un lontano paese più soleggiato. Nessuno conosceva il suo vero nome; i vagabondi e gli straccioni, che vedevano passare quel bellissimo corpo di atleta, come un'ombra di altri tempi, sotto la luce smorta dei fanali, si soffermavano meravigliandosi, tentando di indovinarne il mistero.

Ma egli camminava, senza guardarsi d'attorno, con un passo lento, muovendo mollemente i rotondi fianchi di figlio del sole. Il suo volto era nascosto sotto la lunga e morbida barba nera; la pelle era bianca e fine: e fini erano le mani, quasi di donna, affilate e nervose. Sulle spalle ricadevano i capelli in ciocche diffuse come una nube, e si arruffavano su l'ampia fronte quasi fino a coprire gli occhi torbidi e inquieti.

Era un magnifico modello di vagabondo, col suo robusto corpo mal protetto da un vecchio abito stinto di marinaio. Rideva qualche volta, mostrando due file di denti bianchi e sani. Chi sentiva la sua risata, provava un brivido di raccapriccio, come se nella notte gli fosse pervenuta all'orecchio la sghignazzata lontana di una jena. Quando egli cantava, nelle tenebre, i borghesi rincasanti e gli straccioni si arrestavano avvinti dal senso indefinibile di accoramento, che si rivelava nelle sonorità di quella gola, ove a volte pareva piangesse un bambino, a volte imprecasse un dannato.

La mattina il misterioso vagabondo piegava i forti omeri e le braccia muscolose, aiutando, sul mercato, questo o quel rivenditore a posar ceste, a fermare travi o ad inchiodar tende. Poi, terminato il lavoro, si accucciava come una bestia selvaggia in qualche solitario carro o in un angolo di cortile, sino alla notte. Al primo calare delle tenebre, egli usciva dal suo nascondiglio, con lo sguardo basso e le mani nelle tasche dei calzoni, a passeggiare indolente fra mezzo al brulichio delle contrade e nella spessa umidità della nebbia. Di quando in quando il suo passo si accelerava, le mani si alzavano ad accennare gesti di minaccia, le labbra lasciavano sfuggire brevi gridi e parole smozzate.

Qual notturno beffardo, quale straccione avvezzo allo scherno della miseria lo chiamò, per il primo, Re Torbido? Forse a un poeta delle tenebre, a un nottambulo artista venne spontaneo alle labbra un tal nome. Allorchè per la prima volta egli sentì suonare all'orecchio quelle due parole, sorrise, annuendo con un gesto breve e con un rapido volger d'occhi. Re Torbido!

Quale colpa aveva macchiata la vita di quell'uomo, sì da costringerlo ad abbandonare il proprio paese soleggiato per rifugiarsi nella nebbia e nella solitudine? Nessun vagabondo osava parlare, se non a bassa voce e in crocchio di amici, di quel passato, che molti intravedevano tenebroso. Sovra tutti, anche da lontano, pesava l'immagine di quel volto rabbuiato e di quelle mani fini, ma piene di forza.

 

*

*   *

 

Un giorno, Re Torbido trovò finalmente un amico. Lo vide sulla porta di una bottega di erbivendolo e lo riconobbe subito

— Sei tu, Arviò? Che fai?

Quello si volse impetuoso verso di lui; poi si gettò con un «oh!» di meraviglia fra le sue braccia.

— È tuo?, chiese ancora il vagabondo, accennando al piccolo negozio.

— Sì, proprio mio.

Un ometto magro e nervoso, quell'Arviò, con gli occhi sporgenti come bulbi e il naso a punta, rubizzo.

— Sai, gli disse Re Torbido smozzicando le sillabe; mi son dato anch'io al buono.

— Oh, e come?

— Lavoro.

Quando l'altro seppe del soprannome, appiccicato all'amico, sghignazzò:

— Buono, buono, e bene appropriato! Vieni dentro. Berremo insieme. E ti farò conoscere mia moglie.

Entrarono a braccetto nel retrobottega. Dentro c'era, seduta, una donnina grassoccia, col naso birichino e gli occhi azzurri. Stava scherzando con un grosso gatto e con un gomitolo di lana. Appena vide entrare i due, si fece seria e si alzò.

Arviò spinse innanzi il vagabondo, dicendo:

— Grazietta, c'è l'amico di cui ti ho tanto parlato. Ora si è dato al buono. Sai? Lo chiamano Re Torbido, qui!

La donna mostrò i dentini fitti in una breve risata. Poi si avvicinò al vagabondo e lo guardò, in silenzio, con i suoi occhioni azzurri. Tentò ancora di ridere, allungò timidamente una mano a raggiungere quella che le si tendeva, e corse a rincantucciarsi in un angolo buio, col suo gatto.

— È un po' selvaggia, spiegava Arviò all'amico; ma non quanto te!

Lo sguardo di Re Torbido rimaneva fisso, con un incosciente stupore, su quel fresco viso di donna.

Per un pezzo il vagabondo non fu più visto da Arviò. Infine, una sera capitò nel negozio. Da allora si fece visitatore assiduo. A poco a poco diveniva più docile, meno irrequieto, meno superbo. Qualche volta si attardava in quel retro-bottega, mentre Arviò dormiva con la testa appoggiata al tavolo e Grazietta chiacchierava allegramente.

Intanto, nel quartiere cominciava a correre qualche voce un po' dubbiosa su quella nascente intimità. Dapprima le comari si riunivano in crocchio a commentare, come potevano: trovavano da ridire sulla strana allegria di Re Torbido e sulle nubi di tristezza, che a volte velavano il bel viso di Grazietta. Poi, fatte più audaci, sobillarono anche gli uomini a parlarne. Qualcuno, perfino, osò riferire le chiacchiere a Re Torbido. Il vagabondo fissò col suo sguardo torvo chi gliene accennava; poi, volse le spalle fischiando.

 

*

*   *

 

La vigilia di Natale, a sera, Arviò vide passare rapidamente il suo amico innanzi al negozio. Gli urlò dietro:

— Dove vai? Fermati! Devo parlarti!

Il vagabondo rifece la strada a malincuore. Quando fu vicino ad Arviò, questo lo prese per un braccio e lo spinse nella bottega, quasi a forza; poi chiuse le imposte e sprangò l'uscio.

— Che significa la commedia?, chiese Re Torbido.

Ma l'altro lo guardò, stralunato, mormorando:

— Siedi. Lì c'è dell'acquavite. Bevine.

— Che vuoi da me?, rincalzò il vagabondo.

— Avevo da parlarti, ti dico. E giacchè mia moglie è fuori, meglio questa sera che domani.

Passeggiò nervosamente su e giù per la stanza; poi si fermò innanzi alla tavola, afferrò la bottiglia dell'acquavite e bevette un gran sorso.

Re Torbido, seduto tranquillamente, con le gambe a cavalcioni, le mani strette alle ginocchia e il petto appoggiato alla spalliera della sedia, accompagnava con uno sguardo sprezzante i movimenti dell'amico.

Arviò non si risolveva a parlare, ma continuava a passare su e giù innanzi al vagabondo, fermandosi solo di quando in quando per bere. Infine, si lasciò cadere sopra una panca e rivolse il volto verso l'altro. Re Torbido sbadigliava.

— Sai, amico?, suonò ad un tratto la voce di Arviò.

A quell'urlo il vagabondo si riscosse, e, tolte le mani dalle ginocchia, le strinse alla spalliera della sedia, posando il mento sovr'esse. Gli occhi velati dell'erbivendolo erano, adesso, lucidi e vivi, le sue mani avevano un tremito di febbre. Egli gridava, con uno spasimo nella voce, ansimando:

— Vuoi portarmi via Grazietta; non negare, non negare!

Re Torbido rise selvaggiamente, poi si volse a furia, a rispondere:

— Che t'importa? Faccio quel che mi pare. Tua moglie mi ama. E poi?

— Tu lo dici! Ma io non voglio, capisci? È mia moglie, dopo tutto! La ho presa con me, per tenermela, e per sempre!

— Bada Arviò; tu dici una sciocchezza. Il «per sempre» è un di più. Se vuol venire con me, che c'entri?

— Me la vuoi rubare, dunque?

— Abbiam rubato tante volte in due!

— Perchè? Perchè? Vuol andarsene? Non sta bene, qui? La ho sempre tenuta come una santa!

— Capricci di donna. Glie l'ho detto anch'io. Farai della fame con me; resta con tuo marito! Ma chè! Vuol fuggire!

Si strinse nelle spalle; poi, concluse:

— Siccome la amo anch'io, faccio quanto essa vuole. Ti accomoda?

Arviò si era alzato, minaccioso:

— No, non mi accomoda. E tanto meno da parte tua. Ti ho nascosto in casa mia per proteggerti da tuo padre, ricordi? Ti ho ricoverato, nutrito per tanto tempo! Ti ho risparmiata anche la prigione! E questa la tua riconoscenza? Cosi mi ricompensi?

Il volto di Re Torbido era divenuto spaventoso. Un furore bestiale sconvolgeva i lineamenti vigorosi e un bagliore d'inferno divorava quegli occhi, scintillanti fra mezzo allo spiovere dei capelli.

— Ah! E così? È così?, ghignò. Tu mi rinfacci il passato? Ma se ho accettato qualche cosa da te, si era perchè tu offrivi da amico, non da padrone. Grazietta verrà via questa notte stessa! Non c'è più niente da dire, su questo! E tu vieni a piagnucolarmi, a minacciare perfino! Mi butti in faccia il passato! Porto una catena, forse? E con te! Ripetilo! Con te! Con te! La spezzerò io, la catena!

Si era drizzato, terribile di collera, pronto a slanciarsi.

Ma Arviò, con mezzo corpo abbandonato sul tavolo, piangeva dirottamente.

Re Torbido lo guardò un istante, poi sedette di nuovo. I suoi lineamenti si erano ricomposti, le sue labbra avevano, adesso, una smorfia di disprezzo.

Arviò, intanto, singhiozzava:

— La ho amata tanto! E la amo ancora! Mi ha fatto diventare onesto, mi ha tolto dalla mia miseria! E adesso! E domani? Che farò, solo, abbandonato? Mi strapperò le carni a brani, ridiventerò un ladro, un omicida! Oh, se tu sapessi, se tu sapessi! Perdonami! Ti ho insultato. Ma non potevo, non posso tollerare l'idea di rimanere privo di lei! Bisognerebbe uccidermi, prima!

Re Torbido ascoltava, col volto pallidissimo. Il suo sguardo vagava inconsciamente per quella povera stanza, su quella pace, rotta violentemente dalla disperazione di Arviò. A un tratto, scosse il capo e si alzò.

L'amico si era accasciato sopra la tavola; non aveva più la forza di piangere, ma mormorava ancora con un lungo lamento di bambino:

— Senti, prenditi tutto il resto, la bottega, i denari. Ma lasciami Grazietta! Non mi vuol più, è vero; ma io la voglio ancora. La terrò come prima, anzi meglio di prima. Farà di me quello che vorrà, purchè rimanga!

Il vagabondo guardò ancora una volta l'amico, poi la stanza.

— Aprimi, disse.

L'altro alzò pauroso il viso bagnato di lagrime e ancora scosso dalle convulsioni del singhiozzo.

— Dove vai?, chiese titubando.

— Fuori, all'aperto!

— Tornerai qui?

— Non lo so. Apri!

Arviò si rimise in piedi e, barcollando, si avviò all'uscio, lo aprì.

Il vagabondo, senza volger gli occhi indietro, passò la soglia, poi rinchiuse violentemente alle sue spalle la porta. Rimase ancora un poco, immobile, con la fronte scottante appoggiata sull'umidità del muro. A un tratto si mosse precipitoso, scomparve nella densa nebbia e nella notte.




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