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Pierangelo Baratono
Ombre di Lanterna

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  • Il Poeta Ciccillo
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Il Poeta Ciccillo

 

Narrano le favole come un tempo vivesse in una noiosa città di provincia un certo signor Ciccillo, il quale esercitava degnamente il mestiere di poeta. I suoi versi correvano per i giornali paesani come le lucertole su per i muri e tramandavano un'armonia, che in tutto somigliava allo stridere delle cicale nei meriggi estivi. Due cose grandi possedeva: l'orgoglio ed una escrescenza ossea, che gli adornava la schiena e che dicevano si fosse procurata con opportuni esercizi spirituali al fine di rassomigliare al glorioso Recanatese. Tuttavia la sua Musa non era triste; anzi, lepida e leggera si compiaceva nella satira e sforzavasi di superare, in una gara geniale, quelle di alcuni invidiosi anonimi, costruttori astuti di sonetti. Fra costoro il poeta Ciccillo confessava dignitosamente agli amici di annoverare i più noti scrittori d'Italia. Le sue risposte le componeva sovra tavolini di caffè, sbattendo le palpebre come uno scimmiottino, che abbia trangugiata una buccia di limone, e sorridendo mefistofelicamente a sè stesso.

Un bravo ragazzo, in fondo, con una dose rilevante di furberia infantile, bilanciata purtroppo dalla coscienza della propria grandezza... morale.

Tutti lo conoscevano, tutti lo chiamavano col famigliare nomignolo di «poeta». Aveva anche molti nemici, accaniti contro il suo lucido ingegno, i quali lo angustiavano con piccole malizie di collegiali o, peggio, di provinciali. Ma il bravo Ciccillo si rasserenava presto, attingendo a piene mani forza e coraggio nella fama, che di lui s'era sparsa per l'universo facendo sospirare le fanciulle e piangere i torchi del più influente giornale del luogo. Era anche modesto; ma, santo Dio!, nessuno poteva pretendere che rinnegasse la superiorità benignamente concessagli dalla natura! A volte il suo cuore soffriva per l'umiliazione dei meschinelli, che l'avvicinavano; ma egli sentiva, sopra ogni cosa, il dovere di salvaguardare la propria missione di vate. Perciò, ad un nuovo conoscente, che gli chiedeva se dovesse chiamarlo «signor poeta» o «signor Ciccillo», si sentì obbligato in coscienza a rispondere: Eh, via! Mi può chiamare «signor poeta Ciccillo»!

Un giorno s'imbattè in uno scrittore famoso, capitato per caso nella città. Nell'autopresentazione seppe mantenersi geniale e semplice a un tempo. Disse:

— Io sono Ciccillo.

— Bravo! Bravo! Tanto piacere!, rispose l'altro, facendo atto di allontanarsi. Ma il nostro eroe lo prevenne lanciandogli in pieno viso, come una doccia fredda, questa frase:

— Lo sa che Carducci ha dovuto confessare che i miei sonetti valgono i suoi?

L'altro sgranò gli occhi:

— Davvero? Tanto, tanto piacere!

Quell'omettino, che portava il peso della schiena con tanta dignità sulle fragili gambette, cominciava ad interessare il grand'uomo. Si avviarono per i portici, discorrendo. Ciccillo raccontava, agitando nervosamente la mazzetta di giunco, le piccinerie dei nemici e l'odissea del proprio genio.

— Pastonchi, perfino Pastonchi, concluse, ha bersagliata la mia anima di sonetti anonimi. E con versi discreti, bisogna confessarlo!

Prima di accomiatarsi, Ciccillo depose nelle mani dell'illustre autore un foglio di carta protocollo, sul quale correvano, come vermicelli, degli scarabocchi d'inchiostro.

— Li legga!, borbottò: Fra colleghi una buona parola val molto!

Due ore dopo Ciccillo trovò di nuovo il grande poeta, che, con un pacchetto sotto il braccio, camminava frettoloso.

— Parto fra poco, gli disse costui. Venga con me alla stazione.

Entrarono insieme nel caffè, aspettando il treno. L'illustre personaggio ordinò da bere, poi sciolse l'involto.

— Posso offrirle? È uno spuntino, ch'io faccio quasi sempre prima di pormi in viaggio.

C'era del salame, lì dentro, ed anche qualche panino. Ma Ciccillo non aveva voglia di mangiare. Era diventato pallido come un morto e sentiva le dita tremargli sulla mazzetta. Nella carta unta e spiegazzata, che involgeva quei commestibili, aveva riconosciuto il suo manoscritto.

 

*

*   *

 

Cedendo alle preghiere degli amici il poeta Ciccillo si decise, infine, a far valere i propri diritti. Comprò un foglio di carta bollata e con la sua migliore calligrafia scrisse al Sindaco della città. Con la modestia che lo distingueva in ogni sua azione rimetteva il proprio destino nelle mani della prima autorità civile (la morale, naturalmente, era lui); padrona essa di offrirgli un posto degno del patrio poeta.

Aspettò un mese, senza ottenere una risposta. Gli amici, intanto, lo punzecchiavano.

— Caro poeta, gli dicevano; in fatto d'illustrazioni non c'è che quella Italiana, che abbia ottenuta fortuna in patria.

— Ingrata terra, mormorava Ciccillo strabuzzando gli occhietti.

Ci pianse sopra un poco; poi scelse la sua vendetta. Un giorno i pacifici provinciali videro in un angolo dei portici un omino curvo sovra una scatola da lustrascarpe, intento a rendere lucidi due enormi stivali. Ciccillo aveva trovato il suo mestiere, s'era fatto lustrino.

— È una protesta, diceva a quanti l'interrogavano. Il Municipio non ha voluto dare un pane al poeta, e il poeta gli ha dimostrato che sa guadagnarselo senza aiuto.

Un amico mormorò filosoficamente:

— S'io fossi sindaco ti darei non solo del pane, ma del... salame!

Purtroppo, anche in quel mestiere c'erano i guai. Ma via, si poteva tirare avanti, tanto più che il nostro Ciccillo aveva già confidenza coi piedi, come poeta. E poi, c'era un altro guadagno: mentre lustrava, poteva esibire un'altra merce, le sue poesie.

— Quanto per la fatica, Ciccillo?; chiedeva qualche avventore.

— Fai tu, rispondeva l'interpellato.

— E per la poesia?

— Il doppio.

Non era caro, il bravo Ciccillo.

Un mattino si chinò, come di solito, per aprire il coperchio della cassetta e ficcò dentro una mano per toglierne le spazzole. Ma sentì subito sotto il palmo qualcosa di freddo, che si muoveva. Diede in un piccolo strido, ma non ebbe tempo di ritirarsi. Due grossi sorci, passandogli sotto il braccio e fra le gambe, s'erano affrettati a fuggire. Ma non corsero certo tanto svelti da una parte come il povero Ciccillo dall'altra con le sue gambette e la gobba, che gli tremolava sulle spalle.

L'avventura finì con una purga abbondante; ma il mestiere di lustrascarpe venne per sempre lasciato.

 

*

*   *

 

Ciccillo aveva il temperamento caldo ed il cuore bollente; perciò sentiva spesso il bisogno d'amore. Le ragazze gli sorridevano, è vero; ma, allo stringer dei conti, ridevano addirittura. Una sola pareva lo guardasse teneramente. Era bella e ricca; un partito magnifico. In città presto si sparse la voce dell'idillio. Molti passavano a bella posta da una certa strada per vedere il poeta passeggiar su e giù lungo il marciapiedi, col naso in aria e agitando nervosamente la mazzetta fra le dita. Di quando in quando un visino fresco di fanciulla si affacciava ad una finestra, sorrideva e si ritirava. Una volta nel cappello di Ciccillo cadde un fiore; ma il disgraziato non se ne avvide e continuò a gironzolare per un'ora, domandandosi perchè i passanti ridessero tanto, guardandolo. Il motivo glielo spiegò un amico, che gli chiese a bruciapelo:

— Di', ti crescono le rose sulla testa in attesa delle corna?

Anche in questo suo nuovo intrigo Ciccillo doveva trovare dei grattacapi, anzi, per dir meglio, un grattacapo, rappresentato da un giovanottone biondo e grasso, che frequentava la famiglia della benamata, e talvolta si mostrava con lei alla finestra, spingendo la sfacciataggine fino a.... sorridere al poeta, che gli passeggiava sotto il naso.

Disgrazia volle che i due rivali si trovassero, un giorno, nello stesso crocchio d'amici. Si parlava di ragazze e d'amori con la malignità pettegola, che è propria dei provinciali. A un tratto qualcuno disse, additando Ciccillo:

— Ecco un fortunato!

Il poeta sbattè le palpebre e chinò gli occhi modestamente.

— Io? Ohibò!

— Via! Sappiamo che ai poeti sorridono le belle! La signorina C... può dirne qualche cosa!

Il giovanottone biondo, ch'era stato a sentire, fece un gesto d'impazienza brontolando:

— Povero scemo!

Ciccillo divenne pallido come un cencio. L'altro continuò, guardandolo di sott'occhio:

— Chi volete lo prenda sul serio? Al più, possono prenderlo.... in giro, e con molti sforzi dato lo sviluppo eccessivo della schiena!

La vocetta stridula dell'insultato lo interruppe:

— Lei è un imbecille!

Se non fossero stati gli amici a intromettersi, povero giovanotto biondo! Ciccillo sarebbe stato capace di mangiarselo!

Il domani venne combinato fra i padrini un duello all'ultimo sangue. Prima di esporsi al cimento, Ciccillo si fortificò con qualche bicchierino di cognac, che gli pose in corpo un prurito eroico molto simile a quello prodotto da certi insetti domestici. Sul terreno si piantò ben saldo sulle gambette, procurando di equilibrare il di più posteriore e impugnò la pistola, che, in parola d'onore, era più grossa di lui. Poi, guardò innanzi a sè risoluto: vide una bocca enorme e nera, che sembrava appartenere a un cannone, puntata contro di lui, e sentì un'impressione di freddo lungo la curva della spina dorsale. Ma si fece coraggio e al comando di «fuoco» chiuse gli occhietti e premette il dito. Un orribile boato gli riempì le orecchie, un colpo come di pugno gli sbattè il braccio contro il petto e una nube attossicante di fumo salì a soffocarlo. Sentendosi ancora in vita, riaprì gli occhi e scorse i padrini correre verso il suo avversario che, rovesciato per terra, agitava le braccia boccheggiando. Ciccillo provò uno spasimo tremendo e corse anche lui vicino al rivale. Dal volto del ferito colava un rivoletto di sangue nerastro a formare una pozza sull'erba. Il poeta cacciò fuori un urlo e si lasciò cadere per terra anche lui. Un assassino! Era un assassino! E fra poco lo avrebbero messo in carcere, per tutta la vita! Scoppiò in un pianto dirotto, ficcandosi le mani nei capelli.

Ma una risata omerica lo tolse dall'accasciamento. Ridevano tutti, intorno a lui; perfino il morto rideva, asciugandosi con un fazzoletto le guance.

— Polvere e inchiostro, caro poeta; spiegò bonariamente un padrino.

Addio speranze amorose! Una tale burla troncava per sempre l'idillio e costringeva Ciccillo a dare le dimissioni da don Giovanni.

Ma il poeta si consolò scrivendo un poema e inviandolo, con una dedica fraterna, a Giosuè Carducci. Aspetta ancora una risposta.




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