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Pierangelo Baratono
Ombre di Lanterna

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  • Fantasia per i grandi fanciulli
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Fantasia per i grandi fanciulli

 

Parlerò a quanti portano un sogno nell'anima, miei fratelli, fanciulli spersi nel continuo visionare d'una immaginazione febbrile. Lettore, se tu appartieni al gruppo di questi poveri paria del pensiero, forse troverai nel fondo delle mie parole un po' della tua visione.

Io sono un essere piuttosto grottesco. Figurati un corpo lungo e magro con le gambe a compasso e le braccia da spaventa-passeri. Sul collo un viso bizzarro, munito di due occhi scuri e trasognati e di una barba nera, stizzosa. Questo è il mio fisico. Pel resto, una grande lentezza di movimenti e una più grande irrequietezza d'animo. Però presento un fenomeno curioso, che mi induce appunto a parlarti del mio individuo. Dentro di me siamo in due io e Bob. Ho detto che il mio corpo ama la pace: non così il cervello. Mi son meravigliato sovente con me stesso di questo contrasto. Una notte, ne ebbi la spiegazione. Portavo in me un altro essere, Bob; lo nutrivo col mio sangue, lo vivificavo con le mie idee. Lo vidi per la prima volta al chiarore d'una lanterna. Io ero fermo: innanzi a me, sul lastrico della via, si allungavano due ombre. Rimasi per un istante sbalordito e più ancora indignato. Quando si è abituati, come sono io, a viver soli, annoia un poco che la nostra sia una solitudine in due. Cominciai a interrogarmi. Mi rispose Bob, dapprima umilmente, poi man mano crescendo in alterigia, finchè prese il tono del comando e mi impose di non far più osservazioni e di non tormentarlo più a lungo con le mie sciocche domande. Tacqui per riguardo a lui, che, in fondo, ero io. Da quella notte mi trovai in preda all'incubo dell'altra esistenza, che si faceva bella a mie spese d'ogni mia azione. Non ho mai saputo il nome del mio misterioso inquilino; ma nella famigliarità mi sono abituato a chiamarlo Bob e credo ch'egli sia rimasto soddisfatto di un tal nomignolo. Una delle bizzarrie del mio noioso compagno d'esistenza consiste nel voler viaggiare di continuo. Per non dare luogo a disgusti in famiglia lo accontento nel limite delle mie forze, quantunque sappia che le mie lunghe gambe si adattano malvolentieri a un tale faticoso servizio. Noi compiamo le nostre escursioni quasi sempre nel cuore della notte.

 

*

*   *

 

Una volta giungemmo a Berlino. La città riposava con le sue lunghe vie sonnolenti e le case nere rischiarate dalla vivida luce dell'elettricità o, nei quartieri più modesti, da quella vacillante e gravosa del gas. Bob voleva continuare il viaggio, spingersi, chi sa, sino allo spettrale castello di Elsineur. Ma il mio stomaco oppose un reciso rifiuto a tale pretesa e si trincerò dignitosamente, nuovo popolo Romano innanzi a un Menenio Agrippa, nel suo imperioso bisogno di rinfreschi. Quella volta, adoperando i mezzi più persuasivi, riuscii a vincere l'ostinazione del mio testardo compagno. Era passata la mezzanotte; ma, in fondo a una strada appartata e silenziosa, ammiccava ancora nella semi-oscurità verso di noi la fiammella di un fanale di taverna. Ci dirigemmo verso il piccolo faro, passammo una porta antica, stretta e bassa, scendemmo una scala umida e infine ci trovammo nel mezzo di un salone. Il luogo, per dire il vero, era abbastanza grazioso. Sulle pareti spiccava una tappezzeria a fiori rossi e azzurri, intrecciati con un certo gusto, e per tutta la lunghezza della stanza riposavano due file di soffici divani, in quell'ora deserti, innanzi ai quali eran schierati i tavoli di marmo nero. Emisi un sospiro di sollievo, mentre sentivo dentro di me Bob maledire la mia intemperanza. Mi posi a sedere sovra uno di quei divani, soddisfatto nel trovarmi unico avventore in quell'ora notturna e padrone del campo. Bob brontolava sempre; però, quattro boccali di birra e cinque pipe consumate sino al fondo lo ridussero alla calma. Il fumo, intorno a me, cioè a noi, aveva costruito una specie di tendone fluttuante, ma denso, a traverso il quale a mala pena spioveva un riflesso di luce. Mi sentivo come in casa mia, attorniato da quelle mobili pareti create dalla forza dei miei polmoni e del tabacco.

Quel maledetto Bob s'era addormentato. Mi venne un'idea diabolica. Pensai di abbandonare il dormiente sul divano della taverna e di fuggire in paesi lontani onde fargli perdere le mie tracce per sempre. L'impresa richiedeva prudenza; il minimo movimento un po' brusco avrebbe potuto mettere il nemico sull'avviso e provocare in lui una collera spaventosa. Mi alzai con lentezza. Sentivo il russare monotono di Bob e più ancora il battito del mio cuore. Avevo paura. Strisciai fra il tavolino e il divano e con le braccia tese innanzi tentai di attraversare il tendone di fumo.

Per tutti i diavoli! Esso si oppose ai miei sforzi come una massa elastica, penetrandomi nel naso a rischio di provocare un rumoroso starnuto, facendomi lacrimare gli occhi e producendo nella mia gola un prurito disaggradevole. Il momento era solenne. Tentai l'ultimo mezzo; raccolsi il fiato nei polmoni, quindi soffiai con forza innanzi a me, ma alla sordina. Il fumo formò dapprima un vortice, poi si lacerò in due nubi, dividendosi dall'alto al basso. A traverso l'apertura scorsi un uomo, che non dimenticherò mai, un essere piccolo e magro, che gestiva come una scimmia. Aveva il volto di gufo con due occhietti stralunati e il naso curvo e a punta. La sua bocca sottile era in quel momento allargata in una risata sarcastica. Il fumo, ormai, si era innalzato sino alla volta della sala. La taverna era piena di uomini e di donne, che sghignazzavano guardandomi. «Ah! Ah! mio giovane amico!», squittì lo strano personaggio; «voi volevate burlarvi di questo bravo Bob, che russa come se la cosa non lo riguardasse?». Cercai di scusarmi. Ma quello mi prese per un braccio con le sue dita magre e appuntite e mi obbligò a sedermi di nuovo. Quanti si trovavano nella sala si accalcarono intorno a noi. I volti eran divenuti seri: ma gli occhi, lucenti e interrogatori, avevano una fissità terrorizzante. Erano tutti degli esseri bizzarri dai visi mostruosamente comici o malati di melanconia. Fra gli altri ne distinsi due: un uomo con un testone coperto di capelli rossicci e arruffati, le mascelle sporgenti e gli occhi tondi e grossi, e una fanciulla bellissima, ma dotata di una strana rigidezza di forme, con il volto roseo e gli occhi imbambolati da statua di cera. In ciascuno c'era un'espressione vibrante di vita e nello stesso tempo una certa aria spettrale, che mi riempiva l'anima di paura. Tentai di svegliare Bob, affinchè mi confortasse. Ma quell'ipocrita continuava a russare nel modo meno dignitoso e corretto.

—Volevi, dunque, andartene, continuò il mio interlocutore sedendosi al mio fianco e passandomi famigliarmente una mano sotto il mento. No, mio giovane amico; non si abbandona in tal modo un buon compagno di viaggio, che è anche, un po', mio parente.

Volli rispondergli timidamente ch'io ignoravo la parentela e che, se l'avessi saputa, non mi sarei permesso un simile scherzo. Ma quello mi interruppe bruscamente e, cacciando indietro con un moto nervoso della mano i capelli lunghi e scuri, che gli spiovevano sulla fronte, ricominciò a parlare con voce stridula e a scatti:

— Sai tu, mio giovane amico, che se hai per compagno nella vita il solo Bob, il quale è un buon diavolaccio, devi ringraziarne il cielo e la tua giovinezza? Più tardi, quando avrai la mia età, dovrai subire una compagnia ben più numerosa, come questa (e gettò intorno a sè uno sguardo terrorizzato), che mi seguita ovunque come una dannazione d'inferno.

Tacque un istante, poi riprese a parlare con animazione febbrile, gettando occhiate torve per la sala e scuotendo il piccolo corpo con gesti grotteschi:

— Tu non conosci ancora i tormenti dell'immaginazione. Non sai che ogni essere, creato dalla tua fantasia d'indemoniato, popola la tua solitudine con un nuovo incubo, con una nuova ombra, che non si stacca più dal tuo corpo.

L'uomo dai capelli rossi si abbassò su di lui e gli mormorò qualche parola all'orecchio.

— Bravo, Devrient!, sghignazzò lo strano individuo; un'ottima punizione, che ti insegnerà a burlarti dei nostri parenti, mio giovane amico. Ti faremo sposare Coppelia e vedremo quanti piccoli Bob produrrà il tuo imeneo!

Quanti mi attorniavano fecero eco alle sue parole e cominciarono ad agitarsi intorno a me salmodiando:

— Piccoli Bob! Tanti piccoli Bob!

Venni trascinato innanzi alla fanciulla dal volto di cera e dagli occhi imbambolati, che mi stese una mano ghiacciata. Mi obbligarono a inginocchiarmi con lei innanzi a un individuo bizzarro e scalmanato, che brandiva con la mano un archetto di violino. Me lo battè sulle spalle, mentre, scuotendo i lunghi capelli e stralunando gli occhi, cantava a piena voce il Requiem di Mozart. Poi, si allontanarono tutti, formando un largo circolo intorno a noi. Udii la mia nuova sposa mormorare con una vocina stridente delle parole d'amore; sentii il suo corpo appoggiarsi sul mio, le sue braccia rigide avvinghiarmi, producendo uno scricchiolio, come di ruote, che si muovano. A un tratto, mentre io stavo per svenire di paura, a traverso il suo petto udii suonare distintamente sei colpi squillanti. Nello stesso tempo una mano mi battè bruscamente sovra una spalla.

— Che fa, lei, in questa sala?

Tutto era svanito. Mi trovai sul divano, solo, cioè no, con Bob, ch'io sentivo ghignare dentro di me e sbadigliare rumorosamente. Innanzi a me stava un omaccione in maniche di camicia, Mi ripetè la domanda. Compresi che in quella notte ero stato dimenticato e chiuso nella taverna.

— Ma infine, chiesi, che luogo è questo e chi erano i fantasmi, che mi hanno perseguitato?

Diede in una risata.

— Fantasmi! In tutto Charlottenstrasse e in specie nella cantina di Lutero non si son mai visti che i fantasmi, procreati dai fumi della birra, caro signore.

— La cantina di Lutero?, chiesi.

— Si, Signore; una cantina tradizionale, nella quale, or è un secolo, veniva, il nostro grande romanziere, Teodoro Hoffmann.

 

*

*   *

 

M'avviai pensoso verso l'uscita. Bob, dentro di me, continuava a ghignare.




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