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Pierangelo Baratono
Ombre di Lanterna

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  • I figli delle tenebre
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I figli delle tenebre

 

Chi non conobbe qualcuno di questi figli delle tenebre, eterni pellegrini che passano attraverso la vita portando sulle spalle il fardello del proprio mistero e nel cuore un odio invincibile per ogni luce, che non sia artificiale? Gli adoratori della notte riempiono le ombre con la loro esistenza fittizia, compiacendosi in un sogno anti-sociale, che li isola dal mondo e dalla lotta e li invade di una curiosità morbosa e possente per tutto ciò, che appartiene al regno del terrore e del mistero.

Nei loro occhi, avezzi all'oscurità delle notti senza luna, c'è un disgusto profondo per ogni vana immagine di vita attiva e febbrile; nell'anima, desiderosa di incubi e di visioni, c'è una tendenza a sfuggire ogni numeroso consorzio umano e ogni rude contatto. Sognatori perversi, essi si abbeverano alla fonte del silenzio e in quelle oscure acque ricercano, mai dissetati, il sottile incanto di passioni nascoste e terribili. Non sono uomini di azione; pur tuttavia, nelle lunghe notti invernali, si costruiscono un avvenire di delitti e di sangue, seguendo col pensiero una bizzarra successione di perversità, o si lasciano indurre da una piacevole fantasticheria a ideare, per gli anni venturi, un'esistenza di trionfi e di gloria. Puerili e spaventosi perseguitori dei più mostruosi sogni, essi si sperdono per le dense ombre della vita, ignorati dalla società, sorvegliati con sguardo inquieto e curioso dagli onesti borghesi, che rincasano tardi, benevolmente accolti dai gufi e dagli straccioni, loro fratelli di idea. Hanno segni bizzarri, che li fanno riconoscere tra loro, come fossero affiliati ad una vasta setta; ma, a differenza dei poeti nottambuli o gufi che dir si vogliano e dei vagabondi poveri, difficilmente si uniscono in gruppo: la solitudine e la pace li attirano; null'altro desiderano, se non di potersi abbandonare liberamente ai propri pensieri. Selvaggi e misantropi, pur talvolta si avventurano nei ritrovi notturni, compiacenti protettori di ogni spostato che, tra il fumo e lo schiamazzo, può inseguire e raggiungere un breve momento di felicità al riparo dagli sguardi sprezzanti della società incasellata.

Fu appunto in uno di quei ritrovi ch'io vidi entrare, una notte, un figlio delle tenebre. Il suo primo gesto, nel porre piede nella taverna, fu di disgusto, il suo primo sguardo lampeggiò d'odio. Pur si fece innanzi, un po' goffamente, e venne a sedere, a capo chino, al mio fianco. Lo osservai a lungo, prima di rivolgergli la parola. Attraverso il fitto nebbione di fumo, che ci avvolgeva, il suo volto sembrava quello di un vecchio, benchè fossero neri i capelli e la breve barba a punta, che gli copriva il mento. Aveva la fronte e le guance solcate di rughe e negli occhi qualcosa di torbido e minaccioso, che ispirava curiosità e timore ad un tempo. A poco a poco il mio vicino si era rinfrancato ed aveva cominciato a volgere intorno lo sguardo su quella strana riunione di bevitori. Mi accorsi che le sue mani tremavano e che il suo corpo aveva brividi come di febbre.

— Vi sentite male?, chiesi dolcemente.

Si scosse e mi guardò con un'espressione d'inquietudine e di paura. Dovette leggere sul mio volto la simpatia e la benevolenza, poichè si rassicurò subito e mi rispose, con una voce un po' rauca: Oh, sì; soffro molto! Ma passerà anche questa!

Chinò il capo e si immerse in una profonda meditazione. Qual dolore era penetrato nell'anima di quell'uomo e da qual solitudine l'aveva cacciata in un ambiente, che, certo, non era il suo? Per qualche minuto non osai interrompere il suo doloroso fantasticare. Infine, mi decisi a parlargli di nuovo.

— Volete bere?, dissi, tendendogli la bottiglia dell'acquavite. Senza rispondere, egli la prese e se ne versò un bicchiere da vino. La bizzarria dei suoi modi non mi meravigliò; ero abituato a quella franchezza di gesto, a quelle rapide amicizie, offerte e accettate con pari simpatia, che distinguono gli innamorati della notte dai tranquilli e diffidenti lavoratori della vita diurna.

Il mio vicino beveva macchinalmente, trangugiando il liquido corrosivo senza battere ciglio. Di quando in quando mi guardava con curiosità, quasi volesse interrogare il segreto del mio pensiero. Terminata l'acquavite, volle ordinare e offrirmi del cognac, poi dell'absinthe. Pareva avesse riacquistata un po' di energia, poichè, adesso, non si abbandonava più al suo chiuso dolore, ma accettava una conversazione frammentaria e piena di reticenze, apportandovi il contributo della sua mobile fantasia e della parola agitata e febbrile. In due ore di dialogo seppi tutte le gioie dei figli delle tenebre ed imparai a scandagliare i profondi abissi del loro pensiero e della loro perversione incosciente. In poche frasi, impregnate di odio e di scoraggiamento, il mio vicino mi spiegò tutta la forza distruggitrice della sua immaginazione e tutta la debolezza della sua volontà. Raccapricciando intesi il palpito di quell'anima misteriosa e terribile, sentii ventare quella smisurata passione per quanto vi è di malvagio nel mondo. Eppure, colui che pronunciava parole dense di minaccia era un sognatore, un fanciullo perverso, come si definiva da sè stesso, incapace di alzare un dito in danno degli uomini.

 

*

*   *

 

Uscimmo insieme da quel luogo. La mia nuova conoscenza sembrava in preda a una lotta interna. Mi prese per un braccio e mi trascinò con sè per le strade meno illuminate della città. Infine, si lasciò cadere sovra una panchina, immersa nelle tenebre di un viale.

— Sapete?, mormorò; come me ce ne sono molti, nel mondo.

Tacque un istante, poi riprese a parlare con voce concitata:

— Ma non tutti finiranno come me! Io porto ben altro nel mio corpo, io porto l'anima di un assassino. Sì, diverrò assassino, fra breve. È già cosa decisa.

Perchè, invece di rabbrividire, io sentii uno spasimo di pietà? C'era tanta disperazione in quella voce di ubriaco!

L'uomo continuò:

—Voi, che scrivete, ascoltatemi questa notte. Forse domani dovrete venire a udirmi in prigione. Vi racconterò una storia, oh, una cosa allegra e bizzarra. Ne farete una novella, se vi piacerà.

Diede in una risata lugubre. Mi chinai a osservarlo; ma non potei distinguere che i suoi occhi luccicanti.

Sono andato, un giorno, in un paese della Riviera. Per quale strana combinazione avevo rinnegata la mia vita notturna? Non ricordo. So vagamente ch'ero stato incaricato di una impresa commerciale da un amico di qui. Nei primi giorni soffrii molto. La luce continua, il movimento, che vedevo intorno a me, mi agitavano e m'esasperavano. Poi, mi calmai. Mi trovavo in casa di un possidente di quelle parti, che viveva con sua figlia, una bella ragazza. Era una creatura simpatica, sapete?, piena di sogni anche lei e con un'anima capricciosa e indipendente. Mi vide melanconico e volle chiedermi la cagione della mia tristezza. Ed io la confessai, senza reticenze. Maledizione! Le parlai della mia vita notturna, delle mie passeggiate solitarie, delle visioni perverse, che fino ad allora erano state la mia sola gioia. Perchè, perchè ho esposta così la mia esistenza ai colpi della sventura? Perchè ho infuso tanto calore nelle mie parole ed ho osato svelare i misteri del mio cuore ad una fanciulla inesperta e avida di novità? Essa mi ascoltò, mi comprese, permise al suo pensiero fiducioso di seguire il mio nelle fantasticherie più morbose. Poi, quando le ebbi detto ogni cosa, pose le sue piccole mani nelle mie con atto di sorella e mi disse ingenuamente: Anch'io ho sognato spesso una vita così. Che debbo aggiungere? Essa usciva di nascosto, nella notte, con me. Ci dilungavamo per i sentieri della campagna dimentichi di tutto, confondendo insieme le aspirazioni ed i sogni. La ho sempre rispettata, vi giuro, come una sorella. Allorchè dovetti partire, fu uno strazio. Pure, io leggevo nei suoi occhi una risoluzione, che non osavo indovinare. Due giorni dopo, essa venne a bussare alla mia porta, qui, a Genova, tranquillamente. Era fuggita di casa, senza pensare a suo padre, abbandonando la famiglia senza rimpianti. Nascondemmo la nostra esistenza in una piccola città del Piemonte. Oh, passai notti deliziose, passeggiando con la mia compagna. Vi giuro, vi giuro, anche allora la ho sempre rispettata. Non osavo parlarle di amore poichè sapevo d'essere il solo colpevole. Essa mi aveva reso buono, aveva scacciate le nubi d'odio e di rancore, che m'ingombravano l'animo; e trascorreva la sue ore con me, semplicemente, senza mai accennare al passato. Eravamo felici, vi dico. Io mi sentivo trasformato al suo fianco: ero puro come un bambino. Senza mai parlarne, sentivamo l'amore ingigantire nelle nostre due anime. Certo saremmo giunti a spiegarci anche su questo punto. Ma ad un tratto si scoprì il nostro rifugio. Suo padre venne a riprenderla, all'improvviso, me la tolse prima ch'io potessi salutarla, la riportò nella sua casa in riviera. Da allora, le scrissi tre volte, inutilmente. Non ne seppi più nulla, non osai più chiederne nuove per un lungo anno, un anno di spaventose sofferenze. Il ricordo di quella creatura mi sconvolgeva, mi torturava senza tregua. Ero ancora buono, poichè speravo. Sì, credevo che la vita nostra, in due, sarebbe presto ricominciata.

La voce di quell'uomo usciva soffocata dalla sua gola; il petto gli ansava spaventosamente nelle tenebre. Sentii una sua mano posarsi sulla mia spalla.

— Oggi, riprese a dire precipitoso, ho ricevuta una lettera di lei. Sapete cosa mi scrive?

Le sue dita si contrassero sulla mia carne. Ebbi, per un istante, paura.

— Mi scrive che sono uno sciocco e che ha dimenticato ogni cosa. Parla di doveri da compiere, di una vita da rifare. Oh, sciagura a me! Si sposa, capite?

Abbandonò la mia spalla e si alzò, di scatto.

— Ucciderò la prima donna, nella quale mi farà imbattere il destino; ve lo giuro!

La frase terminò in un rantolo. Lo vidi allontanarsi senza una parola di addio nell'incerto chiarore dell'alba, che cominciava a imbiancare il cielo.




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