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Pierangelo Baratono
Ombre di Lanterna

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  • La mosca e il ragno
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La mosca e il ragno

 

Una sera, in teatro, essi attirarono i miei sguardi. Li indovinai subito sposi da poco tempo. Lui era un omaccione apoplettico con due occhietti grigi e senza espressione, il naso grosso e i baffi lunghi, spioventi sulle labbra. Lei, il rovescio della medaglia. Una figurina delicata dalla pelle bianca e fine di madonna preraffaelitica. Aveva i capelli di un biondo chiaro e gli occhi azzurri limpidissimi. Un tipo russo, come io immagino le donne russe dell'aristocrazia. Il mio pensiero rimase subito dolorosamente colpito dal contrasto di quei due esseri. Nella noia del solito spettacolo e anche per un mio irresistibile bisogno di costruire castelli in aria sopra avvenimenti e oggetti pur di poca importanza, cominciai a far lavorare la fantasia nella creazione di un romanzo. Pensai ch'egli fosse molto ricco, un negoziante probabilmente. Aveva trovata quella ragazza in qualche povera famiglia decaduta, si era incapricciato e l'aveva fatta sua con la forza del denaro.

Immaginavo l'angoscia della fragile creaturina, che si sapeva venduta come una qualsiasi mercanzia ad un uomo così volgarmente grossolano. Li vedevo entrambi nella loro prima notte di nozze, lei piangente, spaurita come una bambina, lui brutale, avido di godere quella verginità deliziosa, di stringere sul suo petto in un abbraccio feroce quel corpicino di santa. Mi sembrava che le braccia pelose dell'uomo, in quel momento, avessero dovuto somigliare alle zampe lunghe e irte di peli di un enorme ragno. Quale tela è pìù vischiosa e più tenace del denaro?

Egli, il bruto ricco, con la sua pancia lucida e gonfia, aveva attesa la preda pazientemente, l'aveva sentita dar di capo nella sua trama, dibattersi disperatamente nei fili argentei, ed era accorso subito, con la bocca bavosa, a coprire con le sue membra ributtanti quelle delicate e bianche della povera mosca. E in seguito? Uno strazio per il contatto continuo, l'impossibilità di sfuggire alla disaggradevole comunanza di vita, di scansare le parole lubricamente dolci, mormorate in letto dalle labbra ingombre dai baffi, di sottrarsi a quei baci forti e golosi, che dovevano produrle l'effetto di ventose avide di sangue. Tutto ciò io pensavo con orrore e ricordavo la frase di un'altra mosca, da me conosciuta qualche tempo prima, che mi aveva confessato ogni amplesso del marito sembrarle uno stupro. Che il mondo dovesse continuare così per un pazzo? La lussuria grossolana da una parte, dall'altra la timidezza della donna, sottoposta da secoli alla schiavitù sessuale. E su tutti l'enorme rete dell'oro, la trappola alla vergine, la caccia spietata fatta dai grossi cani ringhiosi o dai piccoli buldog ripugnanti. La società mi pareva divisa in due campi: da un lato le vittime, dall'altro i ragni, fossero questi vecchi rammolliti o giovani idioti. Come spettatori e, talvolta, a raccogliere le briciole della tavola, i poveri, i bisognosi, impiegati, poeti e miserabili.

Un odore di carne fresca, dovunque, e di sangue sparso, un'acre ventata di lussuria, che fa allargare le narici ai vagabondi sotto le finestre chiuse e illuminate dei ricchi. Questo, soltanto questo! Avrei urlato di dolore, avrei pianto di rabbia, mi sarei gettato addosso a quell'omaccione, a batterlo in un impeto di ribellione, di difesa impossibile e pazza di una donna, che non mi aveva chiamato in suo aiuto.

Dovetti abbandonare il teatro per non cedere alla tentazione. Di fuori, l'incubo continuò. Mi passavano innanzi coppie, che passeggiavano a braccetto, in apparenza affettuose, l'uomo brutto, vestito con lusso, il più delle volte col cranio calvo e il collo grosso e corto, la donna pallida, delicata, gli occhi dolci e rassegnati. E passavano anche donnette sole, belle malgrado l'artificio della pittura, che precedevano di pochi passi qualche vecchio impomatato, ripugnante compare dal volto gonfio e bitorzoluto e dall'espressione ipocritamente libidinosa. Una grande pietà mi stringeva la gola e anche una stizza prepotente contro quelle creature, che, in fondo, accettavano umilmente la loro parte di carne venduta senza un desiderio di rivolta, pazienti come pecore sotto il coltello del beccaio.

 

*

*   *

 

Più volte rividi la mia coppia del teatro. Una sera, non ricordo più come, venni posto in relazione con essa. I miei castelli in aria prendevano forma: avevo intuito esattamente la condizione di quei due esseri. L'uomo era un ricco negoziante e aveva sposata lei, povera e di famiglia nobile. Il loro viaggio di nozze li aveva condotti nella città, ov'io dimoravo. La sposina se n'era incapricciata ed aveva facilmente ottenuto il permesso dal marito di soggiornarvi un po' a lungo.

Nel conversare con i due sposi, dovetti presto accorgermi che in qualche parte le mie induzioni erano sbagliate. Infatti, l'uomo mi appariva sempre più bonariamente simpatico, non troppo cortese, ma in compenso franco e dotato di molta generosità e di molta intelligenza. Quanto a lei, era piuttosto sventata e superba. Comandava il marito come un generale i soldati; assumeva spesso un accento autoritario, spesso anche appariva puerilmente cattiva nei suoi capricci. Inoltre, era molto orgogliosa della sua bellezza e della ricchezza di lui.

Finì col divenire la mia amante. Mi si gettò nelle braccia in un giorno di noia. Le sue carezze mi apparvero subito improntate a una sfrenata libidine. Essa si lagnava della freddezza del marito, un po' trascurato, secondo i desideri di lei, nei coniugali doveri. «È un vecchio!», diceva sorridendo. Rideva alle sue spalle con certe risate squillanti e lunghe, che, in altre occasioni, mi sarebbero sembrate deliziose. Ma in quei momenti suonava male per me quell'ilarità, provocata dalla bontà di un uomo, che la contentava in tutto e non s'accorgeva di nulla. Lo aveva ingannato prima del matrimonio e anche subito dopo. Confessandomi questo, essa batteva le mani rosee, mostrando i dentini bianchi e fitti. Poi saltava sulle mie ginocchia e mi copriva il viso di baci.

La trovavo anche avida di denaro, al contrario del marito, piuttosto generoso. Osservava le spese più minute, pronta a buttar via mille lire in un gioiello come a rimbrottare lui per una cravatta. Era, infine, la vera donna, capricciosa, crudele e buona a scatti, mai sincera, sempre schiava dell'impressione momentanea e sempre avida di piaceri.

Un giorno, fra un bacio e l'altro, mi confessò che avea posto in opera ogni mezzo per accalappiare quel marito ricco. Dapprima, egli non voleva saperne. Ad ogni sua protesta di simpatia, quell'uomo nobile e leale obiettava la differenza d'età e d'educazione. Diceva che il denaro non poteva colmare un tale distacco e che l'amore, se pur era quello il sentimento ch'essa provava per lui, non avrebbe resistito a lungo al continuo contatto di due esseri così dissimili per natura e per costumanze. Infine, la donna aveva trionfato e si era fatta sposare.

E quel demonietto aggiungeva, ridendo e rovesciando la testolina graziosa, ch'era stata lei, proprio lei, che aveva conquistato il grosso marito, e giurava che la prima notte di matrimonio lei stessa aveva dovuto incoraggiarlo: tanto egli si mostrava timido e impacciato!

Povera mosca! Ma chi era, dunque, il ragno fra i due?




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