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Pierangelo Baratono Ombre di Lanterna IntraText CT - Lettura del testo |
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Gli amici dello scopone
In una vecchia casa di Genova, abbattuta adesso dal piccone civilizzatore e sostituita da uno di quegli edifici multicolori e architettonicamente ibridi, che ha creati il progresso fondendo insieme lo stile chinese ed il transwaaliano o boero che dir si voglia, esisteva, or è qualche anno, un'osteria di infimo ordine, che apriva le porte del suo piccolo e ignorato paradiso ai pochi coraggiosi arrischiantisi a salire le scale strette e rovinate dell'edificio. Erano due stanzacce sporche, ammobiliate con qualche tavolo, su cui parecchie generazioni di temperini e di coltelli avevano esercitato la loro pazienza e il loro taglio, e con poche seggiole sventrate. Un profumo acre di frittura, sapientemente mescolato con l'odore forte del vino, accoglieva il visitatore audace e lo faceva cadere di peso sulla sedia più vicina. Ma subito il viso di costui si rischiarava e la sua anima s'apriva fiduciosa alle seduzioni di quell'eden primitivo dinanzi allo schietto sorriso ed al gesto cordiale del panciuto signore del luogo. Lo spettacolo intimo di un tenero idillio fra la nipote dell'oste e un silenzioso rappresentante del sesso mascolino terminava di mettere in pace il cuore del nuovo venuto e di disporlo alla benevolenza. In una di quelle stanze, isolate dal resto della civiltà e frequentate da pochi paria in cerca di conforti alcoolici e spirituali, si raccoglieva di solito intorno a un tavolo, coperto da un tappeto un tempo verde, ma a quell'epoca ingiallito dai dispiaceri, e intorno a un mastodontico fiasco di vino. la compagnia più bizzarra, che un onesto sguardo di oste abbia mai potuto contemplare. Essa era formata generalmente dei soliti quattro individui, ai quali però, talvolta, altri s'aggiungevano a completare il gruppo un po' fantastico. C'era topolino bianco, un giovanotto sui ventiquattro anni, rubicondo e muscoloso. Il suo volto era largo e tagliato piuttosto rozzamente: ma la dolcezza degli occhi di un grigio chiaro e l'espressione fanciullesca, che ben rivelava l'ingenuità timida della sua anima, lo rendevano simpatico a prima vista. Per gli amici egli era il «topolino bianco», cioè una creatura eccezionale, spostata nella civiltà contemporanea, dalla bontà profonda, dall'inesauribile indulgenza. Parlava poco; ma nelle passeggiate, ch'egli soleva fare con qualche intimo lungo la riva del mare, aveva un silenzio denso di significato, nel quale s'udiva a volte palpitare l'anima di un dio generoso, smarrito sulla terra. A completare la sua originalità s'aggiungeva l'invincibile paura della donna, che lo teneva lontano da un sesso giudicato da lui troppo pericoloso per chi vuol serbare i sensi tranquilli e i pensieri puri. Il secondo elemento della comitiva era un dentista, anch'esso natura generosa, ma in opposizione assoluta, nel resto, con topolino bianco. Lo vedo ancora col suo corpo magro e nervoso in continuo movimento, il viso affilato, gli occhi irrequieti. Chi l'avesse scorto per istrada, di notte, camminare dondolandosi, con le mani dietro la schiena e il sigaro nell'angolo delle labbra, l'espressione del volto audace e sicura, si sarebbe forse affrettato con un moto incosciente ad abbottonare la giacca od a svoltare da un'altra via. Tanto ingannano le apparenze! Sotto l'esteriore spavaldo, sotto lo scoppiettio delle frasi argute e il fuoco di fila delle proposte audacissime, palpitava un cuore aperto ad ogni stimolo buono, si celava una strana sensibilità femminile. Giammai la risata ha nascosto così bene in alcun uomo il pianto sottile dell'anima! Aggiungo che le donne lo adoravano, i conoscenti ne diffidavano e gli amici eran pronti a batter moneta falsa per lui. Il terzo campione era un poeta. Sissignori! Un poeta vero, un'anima di fanciullo sotto la corteccia dello spostato. Se il suo temperamento, avido di novità e sprezzante dei ceppi della vita sociale, lo avesse consentito, egli avrebbe potuto pretendere ad uno dei primi posti nelle file dei poeti contemporanei. Buon amico, la tua ombra lunghissima, proiettata sul suolo nelle serene notti lunari, che tu tanto amavi, ben sapeva il segreto del tuo pensiero, nel quale le immagini esterne si trasformavano in armonie quasi divine e in sensazioni delicate e tenui come le fantasmagorie, che quei quieti raggi disegnavano sui piani della tua Lunigiana! Egli amava di sentir svolgersi nelle profondità del suo cuore i ritmi più dolci; talvolta le sue labbra li proferivano, urlandoli agli uomini. E gli sciocchi ridevano, intorno; gli altri, pochi, silenziosi ammiravano. Il quarto amico era precisamente chi scrive queste memorie, personaggio di cui è meglio tacere che.... dir troppo. Tenevamo le nostre riunioni nell'osteria con la scusa di giuocare a scopone e di vedere il fondo al fiasco, ma realmente perchè sentivamo il bisogno di stringerci l'uno all'altro in una comunanza di affetti non ostacolata dalle divergenze esteriori. Tuttavia quel benedetto scopone aveva assunte le proporzioni e l'importanza di un affare di stato. Lo vivevamo come si può vivere un dramma, inframezzandolo di discussioni letterarie e politiche, ma non perdendo mai di vista le carte. Ricorderò sempre le smanie e i versacci del poeta innanzi a un sette di quadri, che s'involava ai suoi occhi, e i suoi formidabili calci, sotto il tavolo, al compagno di giuoco, allorchè il sette sopra menzionato si trovava fra le sue mani. Badiamo: i calci eran dati senza malizia, poichè tutti se ne accorgevano, tranne, qualche volta, colui al quale erano indirizzati. Inoltre era cosa stabilita che il fiasco fosse pagato da chi, vincitore o perdente, possedesse i soldi necessari. E bisogna confessare che in certe sere il problema si presentava irto di difficoltà. Questo non ci impediva di mettere nel giuoco tutti i nostri sentimenti. Chi rimaneva sbalordito era l'oste, il quale ci vedeva agitarci come indemoniati e ci udiva gittar grida or stridenti or gioiose. Soltanto topolino bianco rimaneva impassibile o al più arrossiva per il rimprovero del compagno ad un giuoco sbagliato. Una sera, però, montò in furia anche lui e precisamente a causa del poeta, che l'aveva coperto di contumelie per vendicarsi di una disfatta. No, no, una simile ingiustizia la sua anima leale non aveva potuto tollerarla e le sue labbra s'erano vendicate urlando in faccia al poeta sbigottito: — Lo sai chi paga, questa sera? Proprio io, che ho vinto! Il domani erano di nuovo amici. Qualche volta gli intermezzi assumevano il carattere di vere battaglie. Ma c'entrava lo zampino di quel benedetto dentista! Oh, non aveva il coraggio di storpiare il nome del poeta, chiamandolo «Ciffarelli»? Una sera, mentre giocavamo, capitò un fattorino con un telegramma, indirizzato al poeta. L'amico ebbe un colpo al cuore, diede uno sguardo trionfante a noi, che, umilmente, contemplavamo il rettangolo di carta gialla, frugò nelle tasche, ne cavò quattro soldi, gli unici, che regalò con un gesto grandioso al fattorino; poi ruppe nervosamente l'involucro. Eterni Dei! Dentro, veniva pregato di prender parte ad una sottoscrizione per comprare qualche dente, compreso quello del giudizio, al grande scrittore Ciffarelli. Avvenne una scena spaventevole; ma il dentista, autore dello scherzo, se la cavò col rimborsare i quattro soldi. Qualche volta costui si divertiva a contraddire il poeta in questioni letterarie. — Oh, esclamava con aria estasiata; com'è simpatico quel... (e qui un nome di autore notissimo quanto idiota). Si chinava, poi, verso di me per chiedermi: — Aiutami! Citami qualche altro! E, dietro mio suggerimento, continuava: — E la... (altro nome, ma.... d'autrice), Ecco una poetessa! Il poeta digrignava i denti, girava gli occhi ferocemente, poi scoppiava, moralmente, s'intende. E non aveva torto. Una sera, egli parlava con entusiasmo di Shelley. — Già! Scelerì!, borbottò il dentista dandosi un aspetto indifferente. — Shelley!, corresse il poeta. — Sì, Sì, Scellì, l'autore del «Manuale del perfetto cuoco»! Temetti, in quel momento, di vedermi morire il poeta fra le braccia. Per vendicarsi, costui aveva fabbricata una specie di breve cantilèna, che ad ogni insinuazione burlesca del dentista gli cantava sul muso. L'uno diceva: «Ohè, poeta! Hai letto il Ça ira? Ma già, che vuoi aver letto, se non sai neanche... scrivere!» L'altro dava un balzo felino, ma subito si ricomponeva e sogghignando cominciava a salmodiare
Il dentista, vita trista, tutto il dì fa gran battaglia con le pinze e la tenaglia!
Ebbene, a dispetto di simili nubi e dissapori, non c'era compagnia, che andasse più d'accordo della nostra.
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Ho detto che qualche volta s'univano altri elementi, rappresentati da amici comuni, ai quali le circostanze della vita non permettevano di trovarsi al fianco nostro ogni sera. Veniva, a volte, un altro poeta dal faccione simpatico malgrado l'espressione un po' sarcastica dei lineamenti e la piega beffarda delle labbra: buontempone anche lui, a dispetto di certi occhiali, fermati dietro le orecchie, i quali gli davano un'aria grave e pedantesca; ironista, anzi umorista geniale e argutissimo, nemico acerrimo d'ogni mediocrità ipocrita o spavalda e d'ogni malignità volgare. A me sopratutto era carissimo; poichè avevo potuto conoscere nell'intimità le sue rare doti d'ingegno e di cuore. Povero Baudelaire! Non eri, certo, tu, che lo trovavi simpatico! Oh, non pigli un granchio il lettore, per carità! Non si trattava del poeta dei Fiori del male, ma di un onesto cartolaio, al quale avevamo affibbiato quel nome per certe rassomiglianze fisiche col geniale laudator di Francesca. Ma quanta maggior rassomiglianza, anzi affinità spirituale aveva con questo il mio amico. La stessa torturante ricerca della perfezione, la stessa originalità profonda del concetto, la medesima ripugnanza per ogni sfoggio ciarlatanesco d'ingegno, per ogni stravaganza studiata, si nascondeva nel cervello del mio amico. Per completare l'affinità aggiungo che anch'egli possedeva in grado supremo un bizzarro spirito di mistificazione. Una delle sue vittime fu appunto Baudelaire, il cartolaio. Costui aveva una botteguccia in una via frequentatissima di Genova e si teneva di continuo dietro il suo banco, guardando con aria annoiata i passanti. Il mio amico ed io cominciammo a fargli una corte assidua, soffermandoci a contemplarlo almeno una volta ogni giorno, non so dire se con maggiore meraviglia sua o nostro piacere. L'avremmo baciato volentieri per quella somiglianza fisica e cercavamo ogni mezzo per farglielo capire. Ma lui, duro! Forse non aveva mai letto i Poemetti in prosa. A poco a poco quell'uomo divenne il nostro incubo, un'ossessione, sebbene l'ossessionato, in apparenza, fosse lui. A forza di almanaccare riuscimmo a convincerci che l'anima del geniale poeta s'era rifugiata, per vivere un po' tranquilla, nel corpo dell'umile bottegaio. Ma perchè non rispondeva alle nostre chiamate, ai nostri gesti amichevoli? Perchè quell'uomo ci spalancava in faccia i suoi occhi, che assumevano di giorno in giorno un'espressione sempre più inquieta e turbata, invece di aprirci cordialmente le braccia e di concederci un amplesso fraterno? — È la miseria, che lo rende timido; diceva il mio amico. Non vedi com'è sempre triste, pover'uomo? Egli si vergogna di sè stesso. Un giorno decidemmo di aiutarlo con le nostre poche forze pecuniarie e di recargli un conforto dimostrandogli la nostra simpatia con un atto materiale. Un'elemosina nostra non avrebbe potuto offenderlo! E poi, bisognava ben ricompensarlo per le gioie, che ci procurava rievocando ai nostri occhi un idolo della nostra gioventù entusiasta. Frugammo nelle tasche, ma dopo laboriose ricerche riuscimmo a raccogliere soltanto due soldi, che dividemmo fraternamente. Poi, l'un dietro l'altro, passammo dinanzi a Baudelaire deponendo sul suo banco la nostra offerta modesta, accompagnata da un gesto devoto e da uno sguardo d'intesa. La sera stessa andammo a battere all'uscio degli amici più ricchi per raccogliere un più degno dono. Ma, che volete?, le tentazioni sono tante in questo basso mondo, e il gruzzolo raccolto era così meschino! In conclusione, il domani eravamo possessori di due centesimi. Tuttavia la tenuità dell'offerta non ci scoraggiò. Egli saprà comprendere la nostra intenzione, ci dicemmo. E ripetemmo la scena del giorno prima, ma ancor più gravi e raccolti. Il cartolaio, vedendoci passare e deporre la nostra monetina, tentò di alzarsi, forse per ringraziarci; ma la commozione glielo impedì. Ci diede uno sguardo stralunato e fece udire un debole gemito. Poco dopo, ripassando da quella strada, trovammo chiusa la cartoleria. Un vicino di bottega ci disse che aveva visto il proprietario uscirne barcollando con un'espressione sconfortata sul viso, poi chiuderla a chiave risolutamente e allontanarsi a passi precipitosi. Non vedemmo mai più il nostro Baudelaire.
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A volte, quando nell'osteria veniva qualche altro elemento a ingrossare le file della solita comitiva, si iniziava e conduceva rapidamente a termine qualche processo. Di consueto il presidente era un bel tipo di napoletano, professore d'università, buon chitarrista, ottimo compagnone, pieno d'allegria e d'intelligenza. Ma, per scarsità di numero, molto spesso eravamo costretti a cumulare la qualità di giudice con quella d'imputato. Naturalmente, cercavamo di dare uno scopo alla seduta, obbligando il condannato a pagare... il fiasco. Da ciò risulta chiaro ch'esso era sempre rappresentato dall'individuo supposto possessore, in quella determinata sera, dei soldi necessari per soddisfare la sentenza. Le colpe variavano a seconda del capriccio; si poteva essere accusati tanto di aver rubato la luna come d'aver detto male di Leopardi. Ed anche le prove e le testimonianze erano svariatissime; ma, in fondo, avevano poca importanza, poichè la condanna era decretata, in precedenza, dei giudici. Tant'è vero che una sera venne accusato qualcuno d'essere un asino. L'infelice tentò invano di confutare il pubblico ministero mettendo a nudo il proprio piede, fornito di cinque dita anzichè d'una, com'è abitudine dei filosofi orecchiuti. Non gli valse la prova; poichè dovette battere in ritirata dinanzi alle conclusioni del magistrato, il quale trovò una prova luminosa della di lui asinità nel fatto stesso d'aver creduto imparziale il tribunale.
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In seguito ho incontrato, nel corso della mia esistenza, altre compagnie, ho giuocati altri scoponi. Ma nessuno mi ha fatto dimenticare quelli vinti o persi in un'osteria popolare, al fianco dei miei amici di un tempo. Fosse, perchè una volta sola, nella vita, è concesso a un'anima d'intendere le parole misteriose, che illuminano altre anime come tenui fiammelle, gelosamente custodite sotto l'involucro della carne e le volgarità dell'umano consorzio. |
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