II
Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora»
di Goffredo Augusto Bürger
Lettera semiseria di Grisostomo al suo
figliuolo
Figliuolo
carissimo,
M'ha fatto
maraviglia davvero che tu, convittore di un collegio, ti dessi a cercarmi con
desiderio cosí vivo una traduzione italiana di due componimenti poetici del
Bürger. Che posso io negare al figliuolo mio? Povero vecchio inesercitato, ho
penato assai a tradurli; ma pur finalmente ne sono venuto a capo.
In tanta
condiscendenza non altro mi stava a cuore che di farti conoscere il Bürger:
però non mi resse l'animo di alterare con colori troppo italiani i lineamenti
di quel tedesco; e la traduzione è in prosa. Tu vedi che anche col fatto io sto
saldo alle opinioni mie; e la veritá è che gli esempi altrui mi ribadiscono
ogni dí piú questo chiodo. Non è per altro ch'io intenda dire che tutto
tuttoquanto di poetico manda una lingua ad un'altra s'abbia da questa a
tradurre in prosa. Nemico giurato di qualunque sistema esclusivo, riderei di
chi proponesse una legge siffatta, come mi rido di Voltaire che voleva che i
versi fossero da tradursi sempre in versi. Le ragioni che devono muovere il
traduttore ad appigliarsi piú all'uno che all'altro partito stanno nel testo, e
variano a seconda della diversa indole e della diversa provenienza di quello.
Tutti i
popoli, che piú o meno hanno lettere, hanno poesia. Ma non tutti i popoli
posseggono un linguaggio poetico separato dal linguaggio prosaico. I termini
convenzionali per l'espressione del bello non sono da per tutto i medesimi.
Come la squisitezza nel modo di sentire, cosí anche l'ardimento nel modo di
dichiarare poeticamente le sensazioni è determinato presso di ciaschedun popolo
da accidenti dissimili. E quella spiegazione armoniosa di un concetto poetico,
che sará sublime a Londra od a Berlino, riescirá non di rado ridicola se ricantata
in Toscana.
Ché se tu mi
lasci il concetto straniero ma, per servire alle inclinazioni della poesia
della tua patria, me lo vesti di tutti panni italiani e troppo diversi da' suoi
nativi, chi potrá in coscienza salutarti come autore, chi ringraziarti come
traduttore?
Colla prosa
la faccenda è tutt'altra; da che allora il lettore non si dimentica un momento
mai che il libro ch'ei legge è una traduzione, e tutto perdona in grazia del
gusto ch'egli ha nel fare amicizia con genti ignote e nello squadrarle da capo
a piedi tal quali sono. Il lettore, quand'ha per le mani una traduzione in
verso, non sempre può conseguire intera una tale soddisfazione. La mente di
lui, divisa in due, ora si rivolge a raffigurare l'originalitá del testo, ora a
pesare quanta sia l'abilitá poetica del traduttore. Queste due attenzioni non
tirano innanzi molto cosí insieme; e la seconda per lo piú vince, perché
l'altra, come quella che è la meno direttamente adescata e la meno contentata,
illanguidisce. Ed è allora che chi legge si fa schizzinoso di piú; e come se
esaminasse versi originali italiani, ti crivella le frasi fino allo scrupolo.
Chi porrá
mente alle circostanze differenti che rendono differente il modo di concepire
le idee e verrá investigando le origini delle varie lingue e letterature,
troverá che i popoli, anche per questo lato, hanno tra di loro de' gradi
maggiori o minori di parentela. Da ciò deriverá al traduttore tanto lume che
basti per metter lui sulla buona via, ov'egli abbia intenzione conforme
all'obbligo che gli corre, quella cioè di darci a conoscere il testo, non di
regalarcene egli uno del suo.
Il signor
Bellotti imprese a tradurre Sofocle; e prima ancora che comparisse in luce
quell'esimio lavoro, chi sognò mai che egli si fosse ingannato nella scelta del
mezzo, per avere pigliato a condurre in versi la sua traduzione?
Per lo
contrario vedi ora, figliuolo mio, se io ti abbia vaticinato il falso quando ti
parlai tempo fa d'una traduzione del teatro di Shakespeare, prossima allora ad
uscire in Firenze. Il signor Leoni ha ingegno, anima, erudizione, acutezza di
critica, disinvoltura di lingua italiana, cognizione molta di lingua inglese,
tutti insomma i requisiti per essere un valente traduttore di Shakespeare. Ma
il signor Leoni l'ha sbagliata. I suoi versi sono buoni versi italiani. Ma che
vuoi? Shakespeare è svisato; e noi siamo tuttavia costretti ad invidiare ai
francesi il loro Letourneur. E sí che il signor Leoni bastava a smorzarcela
affatto questa invidia!
Di quanti
altri puntelli potrebbesi rinfiancare questo argomento, lo sa Dio. Ma perché
sbracciarmi a dimostrare che il fuoco scotta? Chi s'ostina a negarlo, buon pro
per lui!
E non occorre
dire che la lingua nostra non si pieghi ad una prosa robusta, elegante, snella,
tenera quanto la francese. La lingua italiana non la sapremo maneggiare con
bella maniera né io né tu, perché tu sei un ragazzotto ed io un vecchio dabbene
e nulla piú; ma fa' ch'ella trovi un artefice destro, ed è materia da cavarne
ogni costrutto. Ma questa materia non istá tutta negli scaffali delle
biblioteche. Ma non lá solamente la vanno spolverando que' pochi cervelli acuti
che non aspirano alla fama di messer lo Sonnifero.
In Italia
qualunque libro non triviale esca in pubblico incontra bensí qua e lá qualche
drappelletto minuto di scrutinapensieri, che pure non lo spaventano mai con
brutto viso, perché genti di lor natura savie e discrete. Ma poveretto! eccolo
poi dar nel mezzo ad un esercito di scrutinaparole, infinito, inevitabile e
sempre all'erta e prodigo sempre d'anatemi. Però io, non avuto riguardo per ora
alla fatica che costano i bei versi a tesserli, confesso che qui, tra noi, per
rispetto solamente alla lingua, chiunque si sgomenta de' latrati dei pedanti
piglia impresa meno scabra d'assai se scrive in versi e non in prosa. Confesso
che per rispetto solamente alla lingua e non ad altro, tanto nel tradurre come
nel comporre di getto originale, il montar su' trampoli e verseggiare costa
meno pericoli. Confesso che allo scrittore di prose bisogna studiare e libri e
uomini e usanze; perocché altro è lo stare ristretto a' confini determinati di
un linguaggio poetico, altro è lo spaziarsi per l'immenso mare di una lingua
tanto lussuriante ne' modi, e viva e parlata ed alla quale non si può chiudere
il vocabolario, se prima non le si fanno le esequie. Ma lo specifico vero per
salire in grido letterario è forse l'impigrire colle mani in mano, e
l'inchiodar se stessi sul vocabolario della Crusca, come il giudeo inchioda sul
travicello i suoi paperi perché ingrassino?
No no,
figliuolo mio, la penuria che oggidí noi abbiamo di belle prose non proviene,
grazie a Dio, da questo che la lingua nostra non sia lingua che da sonetti. Fa'
che il tuo padre spirituale ti legga la parabola dei talenti nell'evangelista;
e la santa parola con quel «serve male et piger» ti snebbierá questo
fenomeno morale.
Ora, per dire
di ciò che importa a te, sappi, o carissimo, che i lirici tedeschi piú
rinomati, parlo della scuola moderna, sono tre: il Goethe, lo Schiller e il
Bürger. Quest'ultimo, dotato di un sentire dilicato ma d'un'immaginazione
altresí arditissima, si piacque spesso di trattare il terribile. Egli scrisse
altre poesie sull'andare del Cacciatore feroce e della Eleonora;
ma queste due sono le piú famose. lo credo di doverle chiamare «romanzi»; e se
il vocabolo spiacerá ai dotti d'Italia, non farò per questo a scappellotti
colle Signorie Loro.
Poesie di
simil genere avevano i provenzali; bellissime piú di tutti e molte ne hanno gli
inglesi; ne hanno gli spagnuoli; altre e d'altri autori i tedeschi; i francesi
le coltivavano un tempo; gli italiani, ch'io sappia, non mai: se pure non si ha
a tener conto di leggende in versi congegnate non da' poeti letterati, ma dal
volgo, e cantate da lui; fra le quali quella della Samaritana
meriterebbe forse il primato per la fortuna di qualche strofetta. Non pretendo
con ciò di menomare d'un pelo la reputazione di alcuni «romanzi» in dialetti
municipali; perché, parlando di letteratura italiana, non posso aver la mira
che alla universale d'Italia1.
Il Bürger portava
opinione «che la sola vera poesia fosse la popolare». Quindi egli studiò di
derivare i suoi poemi quasi sempre da fonti conosciute e di proporzionarli poi
sempre con tutti i mezzi dell'arte alla concezione del popolo. Anche delle
composizioni che ti mando oggi tradotte, l'argomento della prima è ricavato da
una tradizione volgare, quello della seconda è inventato, imitando le
tradizioni comuni in Germania; il che vedremo in séguito piú distesamente.
Anche in entrambi questi componimenti v'ha una certa semplicitá di narrazione,
che manifesta nel poeta il proponimento di gradire alla moltitudine.
Forse il
Bürger, com'è destino talvolta degli uomini d'alto ingegno, trascorreva in
quella sua teoria agli estremi. Ma perché i soli uomini d'alto ingegno sanno
poi di per se stessi ritenersene giudiziosamente nella pratica, noi, leggendo i
versi del Bürger, confessiamo che neppure il dotto vi scapita, né ha ragione di
dolersi del poeta. L'opinione nondimeno che la poesia debba essere popolare non
albergò solamente presso del Bürger, ma a lei s'accostarono pur molto anche gli
altri poeti sommi d'una parte della Germania. Né io credo d'ingannarmi dicendo
ch'ella pende assai nel vero. E se, applicandola alla storia dell'arte e
pigliandola per codice nel far giudizio delle opere dei poeti che furono, ella
può sembrare troppo avventata (giacché al Petrarca, a modo d'esempio, ed al
Parini, benché rade volte popolari, bisogna pur fare di cappello), parmi che,
considerandola come consiglio a' poeti che sono ed ammettendola con
discrezione, ella sia santissima. E dico cosí, non per riverenza servile a'
tedeschi ed agli inglesi, ma per libero amore dell'arte e per desiderio che tu,
nascente poeta d'Italia, non abbia a dare nelle solite secche che da qualche
tempo in qua impediscono il corso agli intelletti e trasmutano la poesia in
matrona degli sbadigli.
Questa è la
precipua cagione per la quale ho determinato che tu smetta i libri del Blair,
del Villa e de' loro consorti, tosto che la barba sul mento dará indizio di
senno in te piú maturo. Allora avrai da me danaro per comperartene altri, come
a dire del Vico, del Burke, del Lessing, del Bouterweck, dello Schiller, del
Beccaria, di madama de Staël, dello Schlegel e d'altri che fin qui hanno
pensate e scritte cose appartenenti alla estetica: né il Platone in Italia
del consigliere Cuoco sará l'ultimo dei doni ch'io ti farò. Ma per ora non dir
nulla di questo co' maestri tuoi, che giá non t'intenderebbono.
Tuttavolta,
perché la massima della popolaritá della poesia mi preme troppo che la si
faccia carne e sangue in te, contentati ch'io m'ingegni fin d'ora di
dimostrartene la convenienza cosí appena di volo, e come meglio può un
vecchiarello che non fu mai in vita sua né poeta né filologo né filosofo.
Tutti gli
uomini, da Adamo in giú fino al calzolaio che ti fa i begli stivali, hanno nel
fondo dell'anima una tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in pochissimi è
attiva, negli altri non è che passiva, non è che una corda che risponde con
simpatiche oscillazioni al tocco della prima.
La natura,
versando a piene mani i suoi doni nell'animo di que' rari individui ai quali
ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di crearli
differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di qui le
antiche favole sulla quasi divina origine de' poeti, e gli antichi pregiudizi
sui miracoli loro, e l'«est deus in nobis». Di qui il piú vero dettato
di tutti i filosofi: che i poeti fanno classe a parte, e non sono cittadini di
una sola societá ma dell'intero universo. E per veritá chi misurasse la
sapienza delle nazioni dalla eccellenza de' loro poeti, parmi che non
iscandaglierebbe da savio. Né savio terrei chi nelle dispute letterarie
introducesse i rancori e le rivalitá nazionali. Omero, Shakespeare, il Calderon,
il Camoens, il Racine, lo Schiller per me sono italiani di patria tanto quanto
Dante, l'Ariosto e l'Alfieri. La repubblica delle lettere non è che una, e i
poeti ne sono concittadini tutti indistintamente. La predilezione con cui
ciascheduno di essi guarda quel tratto di terra ove nacque, quella lingua che
da fanciullo imparò, non nuoce mai alla energia dell'amore che il vero poeta
consacra per instituto dell'arte sua a tutta insieme la umana razza, né alla
intensa volontá per la quale egli studia colle opere sue di provvedere al
diletto ed alla educazione di tutta insieme l'umana razza. Però questo amore
universale, che governa l'intenzione de' poeti, mette universalmente nella
coscienza degli uomini l'obbligo della gratitudine e del rispetto; e nessuna occasione
politica può sciogliere noi da questo sacro dovere. Finanche l'ira della guerra
rispetta la tomba d'Omero e la casa di Pindaro.
Il poeta
dunque sbalza fuori delle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma
per quanto esimio egli sia, non arriverá mai a scuotere fortemente l'animo de'
lettori suoi, né mai potrá ritrarre alto e sentito applauso, se questi non sono
ricchi anch'essi della tendenza poetica passiva. Ora siffatta disposizione
degli animi umani, quantunque universale, non è in tutti gli uomini ugualmente
squisita.
Lo stupido
ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di sabbia
che la circondano, e s'addormenta. Esce de' suoi sonni, guarda in alto, vede un
cielo uniforme stendersegli sopra del capo, e s'addormenta. Avvolto
perpetuamente tra 'l fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non
ha altri oggetti dei quali domandare alla propria memoria l'immagine, pe' quali
il cuore gli batta di desiderio. Però alla inerzia della fantasia e del cuore
in lui tiene dietro di necessitá quella della tendenza poetica.
Per lo
contrario un parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran
capitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, è passato attraverso una
folta2 immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di
accidenti. Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo
esercizio. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per cosí dire);
gli effetti di esse non lo commovono piú, perché ripetuti le tante volte. E per
togliersi di dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni, giovandosi
della mente. Questa sua mente inquisitiva cresce di necessitá in vigoria, da
che l'anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri
destina alla fantasia ed al cuore; cresce in arguzia per gli sforzi frequenti
a' quali la meditazione la costringe. E il parigino di cui io parlo, anche
senza avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini o, per dirla a
modo del Vico, diventa filosofo.
Se la
stupiditá dell'ottentoto è nimica alla poesia, non è certo favorevole molto a
lei la somma civilizzazione del parigino. Nel primo la tendenza poetica è
sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non penetrano
nell'anima del primo, perché non trovano la via d'entrarvi. Nell'anima del
secondo appena appena discendono accompagnati da paragoni e da raziocini: la
fantasia ed il cuore non rispondono loro che come a reminiscenze lontane. E
siffatti canti, che sono l'espressione arditissima di tutto ciò che v'ha di piú
fervido nell'umano pensiero, potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che
maraviglia se, presso del parigino ingentilito, quel poeta sará piú bene
accolto che piú penderá all'epigrammatico?
Ma la
stupiditá dell'ottentoto è separata dalla leziosaggine del parigino fin ora
descritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione, che piú o meno
dispongono l'uomo alla poesia. E s'io dovessi indicare uomini che piú si trovino
oggidí in questa disposizione poetica, parmi che andrei a cercarli in una parte
della Germania.
A
consolazione non pertanto de' poeti, in ogni terra, ovunque è coltura
intellettuale, vi hanno uomini capaci di sentire poesia. Ve n'ha bensí in copia
ora maggiore, ora minore; ma tuttavia sufficiente sempre. Ma fa d'uopo
conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Ma il poeta non si accorgerá
mai della loro esistenza, se per rinvenirli visita le ultime casipole della
plebe affamata, e di lá salta a dirittura nelle botteghe da caffé, ne'
gabinetti delle Aspasie, nelle corti de' principi, e nulla piú. Ad ogni tratto
egli rischierá di cogliere in iscambio la sua patria, ora credendola il capo di
Buona speranza, ora il cortile del Palais-royal. E dell'indole dei suoi
concittadini egli non saprá mai un ette.
Ché s'egli
considera che la sua nazione non la compongono que' dugento che gli stanno
intorno nelle veglie e ne' conviti; se egli ha mente a questo: che mille e
mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le
passioni tutte, senza pure avere un nome ne' teatri; può essere che a lui si
schiarisca innanzi un altro orizzonte, può essere che egli venga accostumandosi
ad altri pensieri ed a piú vaste intenzioni.
L'annoverare
qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza poetica; il dire
minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa essere aumentata o
ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni civili, delle leggi
religiose e di altre circostanze politiche; non fa all'intendimento mio. Te ne
discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno, i libri ch'io ti presterò. Basti
a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d'Europa - l'italiana
anch'essa né piú né meno - sono formate da tre classi d'individui: l'una di
ottentoti, l'una di parigini e l'una, per ultimo, che comprende tutti gli altri
individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche
studiato ed esperimentato quant'altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni.
A questi tutti io do nome di «popolo».
Della prima
classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi, non occorre far parole. La
seconda, che racchiude in sé quei pochi i quali escono dalla comune in modo da
perdere ogni impronta nazionale, vuole bensí essere rispettata dal poeta, ma
non idolatrata, ma non temuta. Il giudizio, che i membri di questa classe fanno
delle moderne opere poetiche, non suole derivare dal suffragio immediato delle
sensazioni, ma da' confronti. Negli anni del fervore eglino hanno trovato il
bello presso tale e tal altro poeta; e ciò che non somiglia al bello sentito un
tempo, pare loro di doverlo ora ricusare. Le opinioni scolastiche, i precetti
bevuti pigramente un tempo come infallibili, reggono tuttavia il loro intelletto,
che non li mise mai ad esame, perché d'altro curante. Però l'orgoglio umano, a
cui è duro il dover discendere a discredere ciò che per molti anni s'è creduto,
il piú delle volte li fa tenaci delle massime inveterate. E il piú delle volte
eglino combattono per esse come per l'antemurale della loro riputazione. Allora
ogni arme, ogni scudo giova. E perché una serie di secoli non si brigò piú che
tanto di discutere l'importanza di quelle massime, eccoti in campo un bello
argomento di difesa nel silenzio delle generazioni. «Chi tace non parla»,
diciamo noi. Ma «chi tace approva», dicono essi, e il sopore dei secoli lo
vanno predicando come consenso assoluto di tuttaquanta la ragione umana alla
necessitá di certe regole chiamate, Dio sa perché, di «buon gusto»; e però via
via d'ugual passo sgozzano ad esse ogni tratto qualche vittima illustre.
La lode, che
al poeta viene da questa minima parte della sua nazione, non può davvero farlo
andare superbo; quindi anche il biasimo ch'ella sentenzia non ha a mettergli grande
spavento. La gente ch'egli cerca, i suoi veri lettori stanno a milioni nella
terza classe. E questa, cred'io, deve il poeta moderno aver di mira, da questa
deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere, s'egli bada al proprio
interesse ed all'interesse vero dell'arte. Ed ecco come la sola vera poesia sia la popolare: salve le
eccezioni sempre, come ho giá detto; e salva sempre la discrezione ragionevole,
con cui questa regola vuole essere interpretata.
Se i poeti
moderni d'una parte della Germania menano tanto romore di sé e in casa loro e
in tutte le contrade d'Europa, ciò è da ascriversi alla popolaritá della poesia loro. E questa salutare direzione
ch'eglino diedero all'arte fu suggerita loro dagli studi profondi fatti sul
cuore umano, sullo scopo dell'arte, sulla storia di lei e sulle opere ch'ella
in ogni secolo produsse: fu suggerita loro dalla divisione in «classica» e
«romantica» ch'eglino immaginarono nella poesia.
Però sappi,
tra parentesi, che tale divisione non è un capriccio di bizzarri intelletti,
come piace di borbottare a certi giudici che senza processare sentenziano; non
è sotterfugio per sottrarsi alle regole che ad ogni genere di poesia
convengono; da che uno de' poeti chiamati «romantici» è il Tasso. E fra le
accuse che si portano alla Gerusalemme, chi udí mai messa in campo
quella di trasgressione delle regole? Qual altro poema piú si conforma alle
speculazioni algebraiche degli aristotelici?
Né ti dare a
credere, figliuolo mio, che con quella divisione i tedeschi di cui parlo
pretendessero che d'un'arte, la quale è unica, indivisibile, si avesse a farne
due; perocché stolti non erano. Ma se le produzioni di quest'arte, seguendo
l'indole diversa dei secoli e delle civilizzazioni, hanno assunte facce
differenti, perché non potrò io distribuirle in tribú differenti? e se quelle
della seconda tribú hanno in sé qualche cosa che piú intimamente esprime
l'indole della presente civilizzazione europea, dovrò io rigettarle per questo
solo che non hanno volto simile al volto della prima tribú?
Di mano in
mano che le nazioni europee si riscuotevano dal sonno e dall'avvilimento, di
che le aveva tutte ingombrate la irruzione de' barbari dopo la caduta
dell'impero romano, poeti qua e lá emergevano a ringentilirle. Compagna
volontaria del pensiero e figlia ardente delle passioni, l'arte della poesia,
come la fenice, era risuscitata di per sé in Europa, e di per sé anche sarebbe
giunta al colmo della perfezione. I miracoli di Dio, le angosce e le fortune
dell'amore, la gioia de' conviti, le acerbe ire, gli splendidi fatti de'
cavalieri muovevano la potenza poetica nell'anima de' trovatori. E i trovatori,
né da Pindaro instruiti né da Orazio, correndo all'arpa prorompevano in canti
spontanei ed intimavano all'anima del popolo il sentimento del bello, gran
tempo ancora innanzi che l'invenzione della stampa e i fuggitivi di
Costantinopoli profondessero da per tutto i poemi de' greci e de' latini.
Avviata cosí nelle nazioni d'Europa la tendenza poetica, crebbe ne' poeti il
desiderio di lusingarla piú degnamente. Però industriaronsi per mille maniere
di trovare soccorsi; e giovandosi della occasione, si volsero anche allo studio
delle poesie antiche, in prima come ad un santuario misterioso accessibile ad
essi soli, poi come ad una sorgente pubblica di fantasie, a cui tutti i lettori
potevano attignere. Ma ad onta degli studi e della erudizione, i poeti, che dal
risorgimento delle lettere giú fino a' dí nostri illustrarono l'Europa e che
portano il nome comune di «moderni», tennero strade diverse. Alcuni, sperando
di riprodurre le bellezze ammirate ne' greci e ne' romani, ripeterono, e piú
spesso imitarono modificandoli, i costumi, le opinioni, le passioni, la
mitologia de' popoli antichi. Altri interrogarono direttamente la natura: e la
natura non dettò loro né pensieri né affetti antichi, ma sentimenti e massime
moderne. Interrogarono la credenza del popolo: e n'ebbero in risposta i misteri
della religione cristiana, la storia di un Dio rigeneratore, la certezza di una
vita avvenire, il timore di una eternitá di pene. Interrogarono l'animo umano
vivente: e quello non disse loro che cose sentite da loro stessi e da' loro
contemporanei; cose risultanti dalle usanze ora cavalleresche, ora religiose,
ora feroci, ma o praticate e presenti o conosciute generalmente; cose
risultanti dal complesso della civiltá del secolo in cui vivevano.
La poesia de'
primi è «classica», quella de' secondi è «romantica». Cosí le chiamarono i
dotti d'una parte della Germania, che dinanzi agli altri riconobbero la
diversitá delle vie battute dai poeti moderni. Chi trovasse a ridire a questi
vocaboli può cambiarli a posta sua. Però io stimo di poter nominare con tutta
ragione «poesia de' morti» la prima, e «poesia de' vivi» la seconda. Né temo di
ingannarmi dicendo che Omero, Pindaro, Sofocle, Euripide ecc. ecc., al tempo
loro, furono in certo modo romantici, perché non cantarono le cose degli egizi
o de' caldei, ma quelle dei loro greci; siccome il Milton non cantò le
superstizioni omeriche, ma le tradizioni cristiane. Chi volesse poi soggiungere
che, anche fra i poeti moderni seguaci del genere classico, quelli sono i
migliori che ritengono molta mescolanza del romantico e che giusto giusto allo
spirito romantico essi devono saper grado se le opere loro vanno salve
dall'obblio, parmi che non meriterebbe lo staffile. E la ragione non viene ella
forse in sussidio di siffatte sentenze, allorché gridando c'insegna che la
poesia vuole essere specchio di ciò che commuove maggiormente l'anima? Ora
l'anima è commossa al vivo dalle cose nostre che ci circondano tuttodí, non
dalle antiche altrui che a noi sono notificate per mezzo soltanto de' libri e
della storia.
Allorché tu
vedrai addentro in queste dottrine, e ciò non sará per via delle gazzette,
imparerai come i confini del bello poetico siano ampi del pari che quelli della
natura, e che la pietra di paragone, con cui giudicare di questo bello, è la
natura medesima e non un fascio di pergamene; imparerai come va rispettata
davvero la letteratura de' greci e de' latini, imparerai come davvero
giovartene. Ma sentirai altresí come la divisione proposta contribuisca
possentemente a sgabellarti del predominio sempre nocivo della autoritá. Non
giurerai piú nella parola di nessuno, quando trattasi di cose a cui basta il
tuo intelletto. Farai della poesia tua una imitazione della natura, non una
imitazione di imitazione. A dispetto de' tuoi maestri, la tua coscienza ti
libererá dall'obbligo di venerare ciecamente gli oracoli di un codice vecchio e
tarlato, per sottoporti a quello della ragione, perpetuo e lucidissimo. E
riderai de' tuoi maestri che colle lenti sul naso continueranno a frugare nel
codice vecchio e tarlato, e vi leggeranno fin quello che non v'è scritto.
Materia di
lungo discorso sarebbe il voler parlare all'Italia della divisione suaccennata;
ed importerebbe una anatomia lunghissima delle qualitá costituenti il genere
classico e di quelle che determinano il romantico. A me non concede la fortuna
né tempo né forze sufficienti per tentare una siffatta dissertazione, perocché
il ripetere quanto hanno detto in ciò i tedeschi non basterebbe. Avvezzi a
vedere ogni cosa complessivamente, eglino non di rado trascurano di segnare i
precisi confini de' loro sistemi; e la fiaccola, con cui illuminano i passi
altrui, manda talvolta una luce confusa. Ma poiché in Italia, a giudicare da
qualche cenno giá apparso, non v'ha difetto intero di buona filosofia, io prego
che un libro sia composto finalmente qui tra noi, il quale non tratti d'altro
che di questo argomento, e trovi modo di appianar tutto, di confermare nel
proposito i giá iniziati, di rincorare i timidi e di spuntare con cristiana
caritá le corna ai pedanti.
Ben è vero
che a que' pochi del mestiere, a' quali può giovare per le opere loro una idea
distinta del genere romantico, questa, io spero, sará giá entrata nel cervello
loro, mercé l'acume della propria lor mente. Ma perché voi altri giovinetti
siete esposti alla furia di tante contrarie sentenze, e la veritá non siete in
caso di snudarla da per voi, è bene che qualcuno metta in mano vostra ed in
mano del pubblico un libro che vi scampi dal peccato, pur sí frequente in
Italia, di bestemmiare ciò che s'ignora.
Intanto che
il voto mio va ricercando chi lo accolga e lo secondi; intanto che, irritati
dalla novitá del vocabolo «romantico», da Dan fino a Bersabea si levano a
fracasso i pedanti nostri, e fanno a rabbuffarsi l'un l'altro e a contumeliarsi
e a sagramentare e a non intendersi tra di loro, come a Babilonia; intanto che
la divisione per cui si arrovellano è per loro piú mistica della piú mistica
dottrina del Talmud; vediamo, figliuolo mio, quali effetti ottenessero i
poeti che la immaginarono.
Posti
frammezzo a un popolo non barbaro, non civilissimo, se se ne riguarda tutta la
massa degli abitanti e non la sola schiera degli studiosi, i poeti recenti
d'una parte della Germania dovevano superare in grido i loro confratelli
contemporanei sparsi nel restante d'Europa. Ma della fortuna della poesia loro
tutto il merito non è da darsi alla fortuna del loro nascimento. L'essersi
avveduti di questa propizia circostanza e l'aver saputo trarne partito, è
merito personale. E a ciò contribuí, del pari che l'arguzia dell'ingegno, la
santitá del cuore.
Sentirono
essi che la verissima delle muse è la filantropia, e che l'arte loro aveva un
fine ben piú sublime che il diletto momentaneo di pochi oziosi. Però, avidi di
richiamare l'arte a' di lei principi, indirizzandola al perfezionamento morale
del maggior numero de' loro compatrioti, eglino non gridarono, come Orazio:
Satis
est equitem nobis plaudere;
non mirarono a piaggiare un
Mecenate, a gratificarsi un Augusto, a procurarsi un seggio al banchetto dei
grandi; non ambirono i soli battimani d'un branco di scioperati raccolti
nell'anticamera del principe.
Oltrediché
non è da tacersi come insieme a questo pio sentimento congiurasse anche nelle
anime di que' poeti la sete della gloria, ardentissima sempre ne' sovrani
ingegni e sprone inevitabile al far bene. Eglino avevano letto che in Grecia la
corona del lauro non l'accordavano né principi né accademie, ma cento e cento
mila persone convenute d'ogni parte in Tebe e in Olimpia. Avevano letto che i
canti di Omero, di Pindaro, di Tirteo non erano misteri di letterati, ma
canzoni di popolo. Avevano letto che Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane non
si facevano belli della lode de' loro compagni di mestiere, ma anelavano al
plauso di trentamila spettatori e l'ottenevano. Quindi, agitati da castissima
invidia, vollero anch'essi quel plauso e quella corona. Ma e in che modo
conseguirla? Posero mente alle opere che ci rimangono de' poeti greci; e
quantunque s'innamorassero sulle prime della leggiadria di quei versi, dello
splendore di quella elocuzione, dell'artificio mirabile con cui le immagini
erano accoppiate e spiegate, pure non si diedero a credere che in ciò fosse
riposto tutto il talismano. E come crederlo, se in casa loro e fuori di casa
vedevano condannati all'untume del pizzicagnolo versi, a cui né sceltezza di
frasi mancava né armonia?
Lambiccarono
allora essi con piú fina critica quelle opere, onde scoprire di che malie
profittavansi in Grecia i poeti per guadagnarsi tanto suffragio dai loro
contemporanei. Videro che quelle malie erano i loro dèi, la loro religione, le
loro superstizioni, le loro leggi, i loro riti, i loro costumi, la storia loro,
le loro tradizioni volgari, la geografia loro, le loro opinioni, i loro
pregiudizi, le fogge loro, ecc. ecc. ecc. - E noi - dissero eglino, - noi
abbiamo altro Dio, altro culto; abbiamo anche noi le nostre superstizioni;
abbiamo altre leggi, altri costumi, altre inclinazioni piú ossequiose e piú
cortesi verso la beltá femminina. Caviamo di qui anche noi le malie nostre, e
il popolo c'intenderá. E i versi nostri non saranno per lui reminiscenze d'una
fredda erudizione scolastica, ma cose proprie e interessanti e sentite
nell'anima.
A rinforzarli
nella determinazione soccorse loro l'esempio altresí de' poeti che dal
risorgimento delle lettere in Europa fino a' dí nostri sono i piú famosi. E chi
negherá questi essere tanto piú venerati e cari, quanto di queste nuove malie
piú sparsero ne' loro versi?
Cosí i poeti
d'una parte della Germania, co' medesimi auspici, con l'arte medesima né piú né
meno, col medesimo intendimento de' greci, scesero nell'aringo, desiderarono la
palma e chiesero al popolo che la desse loro. E il popolo, non obbliato, non
vilipeso da' suoi poeti, ma carezzato, ma dilettato, ma istruito, non ricusò
d'accordarla.
A che miri la
parola mia, tu lo sai: però fanne senno, figliuolo mio, e non permettere che la
paterna caritá si sfoghi al vento. So che agli uomini piace talvolta di
onestare la loro inerzia con bei paroloni. Ma io non darò retta mai né a te né
a chiunque mi ritesserá le solite canzoni: e che l'Italia è un armento di venti
popoli divisi l'uno dall'altro, e ch'ella non ha una gran cittá capitale dove
ridursi a gareggiare gli ingegni, e che tutto vien meno ove non è una patria.
Lo sappiamo, lo sappiamo. Ma l'avevano questa unitá di patria e questo tumulto
d'una capitale unica i poeti dei quali ho parlato? E se noi non possediamo una
comune patria politica, come neppure essi la possedevano, chi ci vieta di
crearci intanto, com'essi, a conforto delle umane sciagure, una patria
letteraria comune? Forse che Dante, il Petrarca, l'Ariosto per fiorire
aspettarono che l'Italia fosse una? Forse che la latina è la piú splendida
delle letterature? e nondimeno qual piú vasta metropoli di Roma sotto Ottaviano
e sotto i Cesari?
- Voi -
gridava l'altro dí nella voce dell'ira sua il curato di Monte Atino, l'amico
mio dall'anima ardente, - voi, se siete caldi di vero amore per la vostra bella
Italia, levate l'orecchio, o generosi italiani. Udite come tuttaquanta l'Europa
ne rinfaccia d'ogni parte il presente decadimento delle nostre lettere. È egli
da credersi che tanta universalitá di disprezzo sia tutta opera della
malignitá? Ponetevi, in nome di Dio, ponetevi una mano al petto; interrogate la
coscienza vostra. E non la sentite anch'essa tremar di vergogna? Però perdonate
gli insulti villani, con che ne strapazzano oggi que' popoli stessi che un
tempo o ne lodavano o taciturni rodevansi d'invidia pe' nostri trionfi
letterari: alle calunnie, ché calunnie pur anche piovono addosso all'Italia,
non istate ad opporre altro che la dignitá del silenzio; e cadranno di per sé.
Ma de' consigli giovatevi: e la gloria della vostra terra ricuperatela col far
voi, non col citare le opere degli avi vostri. «Gloria nostra sit
testimonium conscientiae nostrae», diceva san Paolo a que' di Corinto.
Vincete l'avversitá collo studio, smettete una volta la boria di reputarvi i
soli europei che abbiano occhi in testa, smettete la petulanza con cui vi
sputate l'un l'altro in viso e per inezie da fanciulli, unitevi l'un l'altro
coi vincoli di amorosa concordia fraterna, senza della quale voi sarete nulli
in tutto e per tutto. E poiché perspicacia d'intelletto non ve ne manca, solo
che vogliate rifarvi delle male abitudini, lavorate, ve ne scongiuro, e
lavorate da senno. Ma prima di tutto spogliatevi della stolida divozione per un
solo idolo letterario. Leggete Omero, leggete Virgilio, che Dio ve ne benedica!
Ma tributate e vigilie e incenso anche a tutti gli altri begli altari che i
poeti in ogni tempo e in ogni luogo innalzarono alla natura. E quantunque a
rischio di lasciare qualche dí nella dimenticanza e i volumi dell'antichitá e i
volumi de' moderni, traetevi ad esaminare da vicino voi stessi la natura, e lei
imitate, lei sola davvero e niente altro. Rendetevi coevi al secolo vostro e
non ai secoli seppelliti; spacciatevi dalla nebbia che oggidí invocate sulla
vostra dizione; spacciatevi dagli arcani sibillini, dalle vetuste liturgie, da
tutte le Veneri e da tutte le loro turpitudini, cavoli giá putridi; non
rifriggeteli. Fate di piacere al popolo
vostro; investigate l'animo di lui; pascetelo di pensieri e non di
vento. Credete voi forse che i lettori italiani non gustino altro che il sapore
dell'idioma e il lusso della verbositá? Badate che leggono libri stranieri, che
s'accostumano a pensare e che dalle fatuitá vanno ogni dí piú divezzandosi.
Badate che i progressi intellettuali d'una parte di Europa finiranno col tirar
dietro a sé anche il restante. E voi con tutta la vostra albagia rimarrete lí
soli soli, a far voi da autori insieme e da lettori. Insomma siate uomini e non
cicale; e i vostri paesani vi benediranno, e lo straniero ripiglierá modestia e
parlerá di voi coll'antico rispetto. -
Nessuno de'
ricchi tra' tuoi terrazzani venga a morte fuori della tua giurisdizione
parrocchiale, o buon curato di Monte Atino, o anima italiana davvero! Chi non
ti perdonerebbe la declamazione in grazia dello zelo e del patriottismo che
spirano le tue ammonizioni?
Ora,
figliuolo mio, ti sia palese che tutto il discorso fatto sin qui, sebbene
paresse sviarsi dal soggetto, pure era necessario. Cosí mi sono preparata la
via alla soluzione de' due quesiti che tu mi hai fatti, ed ai quali posso ora
rispondere con maggiore brevitá. Eccoli entrambi, e in termini piú precisi de'
tuoi: 1. «La moderna Italia ammetterebbe ella poesie di questo genere (i
romanzi)?». 2. «Il Cacciatore feroce e l'Eleonora piaceranno in
Italia?».
Non fa
mestieri, cred'io, di molte lucubrazioni per trovare che alla prima
interrogazione vuolsi rispondere con un «sí» netto e stentoreo. Da quanto ho
detto sulla opportunitá di indirizzare la poesia non all'intelligenza di pochi
eruditi ma a quella del popolo, affine di propiziarselo e di guadagnarne
l'attenzione, tu avrai di per te stesso inferita questa sentenza: che i poeti
italiani possono del pari che gli stranieri dedurre materia pe' loro canti
dalle tradizioni e dalle opinioni volgari, e che anzi gioverebbe di presente
ch'eglino preferissero queste a tutto intero il libro di Natale de' Conti. Però
non voglio sprecar tempo in dimostrarti che, per tale rispetto, questo genere
di romanzi si conviene anche all'Italia; e per veritá non farei che ridire le
parole mie. Che poi questo modo di narrare liricamente una avventura offenderá
gli italiani, non credo3.
La poesia
d'Italia non è arte diversa dalla poesia degli altri popoli. I princípi e lo
scopo di lei sono perpetui ed universali. Ella, come vedemmo, è diretta a
migliorare i costumi degli uomini, a farne gentili gli animi, a contentarne i
bisogni della fantasia e del cuore; poiché la tendenza alla poesia, simigliante
ad ogni altro desiderio, suscita in noi veri bisogni morali. Per arrivare
all'intento suo la poesia si vale di quattro forme elementari: la lirica, la
didascalica, l'epica e la drammatica. Ma perché ella di sua natura abborre i
sistemi costrettivi e perché i bisogni che ella prende ad appagare possono
essere modificati in infinito, ha diritto anche ella di adoperare mezzi
modificati in infinito. Quindi a sua posta ella unisce e confonde insieme in
mille modi le quattro forme elementari, derivandone mille temperamenti.
Se la poesia
è l'espressione della natura viva, ella deve essere viva come l'oggetto ch'ella
esprime, libera come il pensiero che le dá moto, ardita come lo scopo a cui è
indirizzata. Le forme ch'ella assume non costituiscono la di lei essenza, ma
solo contribuiscono occasionalmente a dare effetto alle di lei intenzioni. Però
fino a tanto ch'ella non esce dell'instituto suo, non v'ha muso d'uomo che di
propria facoltá le abbia a dettare restrizioni su questo punto del tramischiare
le forme elementari.
Che i due
romanzi del Bürger spiaceranno agli italiani per l'argomento loro e per lo
stile, forse sará. Ma che l'Italia non patirebbe che i suoi poeti scrivessero
romanzi del genere di questi, perché forse schifa della mescolanza dell'epico col
lirico, non credo. Siffatte obbiezioni non suggeriscono che al cervello de'
pedanti, i quali parlano della poesia senza conoscerne la proprietá. Ma se il
presagio non mi falla, la tirannide dei pedanti sta per cadere in Italia. E il
popolo e i poeti si consiglieranno a vicenda senza paura delle Signorie Loro,
ed a vicenda si educheranno; e non andrá molto, spero.
La
meditazione della filosofia riuscirá bensì a determinare, a un di presso, di
quali materiali debbano i poeti giovarsi nell'esercizio dell'arte, di quali no,
e fin dove possano estendere l'ardimento della imitazione. E l'esperienza
dimostra che in questo l'arte della poesia soffre confini come tutte le di lei
sorelle. Ma quale filosofia potrá dire in coscienza al poeta: «Le modificazioni
delle forme sono queste, non altre»?
So che i
pedanti si stilleranno l'intelletto per rinvenire, a modo d'esempio, la
bandiera sotto cui far trottare le terzine del signor Torti sulla Passione
del Salvatore. So che, nel repertorio de' titoli disceso loro da padre in
figlio, non ne troveranno forse uno che torni a capello per quelle terzine.
Carme no, ode no, idillio no: eroide forse?... Ma intanto quella squisita
poesia, con buona pace delle Signorie Loro, è giá per le bocche di tutti. E
l'Italia, non badando a' frontispizi, scongiura il signor Torti a non lasciarla
lungamente desiderosa d'altri regali consimili. Lo stesso avverrá d'ogni altra
poesia futura, quando le modificazioni delle forme siano corrispondenti
all'argomento ed alla intenzione del poeta, e quando siffatta intenzione sia
conforme allo scopo dell'arte ed a' bisogni dell'uomo.
Il sentimento
della convenienza, che induce il poeta alla scelta di un metro piuttosto che di
un altro, è contemporaneo nella mente di lui alla concezione delle idee ch'egli
ha in animo di spiegare nel suo componimento ed al disegno che lo muove a
poetare. Le regole generali degli scrittori di Poetiche non montano gran
fatto, da che ogni caso vorrebbe regola a parte. Laonde è opinione mia che un
uomo dell'arte possa bensí assisterti ogni volta con un buon consiglio; ma che
se tu aspetti che te lo diano i trattatisti, non ne faremo nulla, figliuolo
mio. E a questo proposito mi piace di rallegrarti con un'altra scappata
declamatoria, in cui diede, non ha guari, il buon curato di Monte Atino,
l'amico mio dall'anima ardente.
Una persona,
che aveva aria d'uomo non dozzinale e non l'era davvero, parlava della poesia
«romantica» con Sua Reverenza. E Sua Reverenza l'udiva con volto pacato e con
segni d'approvazione, perché erano lodi alla poesia «romantica», la prediletta
dell'anima sua. Quando tutt'ad un tratto il panegirista uscí fuori con un voto,
perché alcuno in Italia pigliasse a scrivere una Poetica romantica. -
Che Poetiche di Dio! - gridò allora il buon curato di Monte Atino, dimenandosi
sul suo seggiolone come un energumeno, - che Poetiche di Dio! Se ai
giorni nostri vivesse Omero, vivesse Pindaro, vivesse Sofocle, dovrebbono essi
cambiare arte forse? No, in nome del cielo, no. Ma la differenza dei secoli
renderebbe differenti le cose che que' poeti imprenderebbono ora a trattare. E
la differenza delle cose indurrebbe di necessitá differenza nella mescolanza
delle forme e nell'accoppiamento delle immagini. E Omero, Pindaro, Sofocle
sarebbero poeti «romantici», volere o non volere. Ma l'arte loro sarebbe
tuttavia quella stessa de' classici antichi. Che importa a me se il Cellini
oggi mi cesella un vezzo per madama d'Étampes e domani un calice pel santo
padre? Egli è pur sempre Benvenuto, l'orefice fiorentino. Ma questo Proteo irrequieto
come l'amore, quest'arte della poesia, questa perpetua inventrice del bello,
chi l'insegna? Le Poetiche forse? Sono forse le Poetiche che hanno
sviluppate le menti a que' tre miracoli della Grecia? sono forse le Poetiche
che dissero come tener la penna in mano a Dante, all'Ariosto, a Shakespeare? Al
diavolo queste corbellerie! Mostratemi una Poetica anteriore alla
esistenza di un poeta. Mostratemi un vero poeta educato e formato dalle Poetiche.
Dov'è, dov'è? Io vi mostrerò de' poeti che colle opere loro hanno prestata
materia di che rimpinzare di regoluzze un libruzzo a trenta maestruzzi. Io vi
mostrerò trentamila pedanti, e tutti figli delle Poetiche, e tutti
misuratori di sillabe, e tutti sputasentenze, e tutti teste di legno. Al
diavolo colle Poetiche! Perché non t'incarni un'altra volta, o bella
anima di Omar, tanto appena che ti basti tempo per discendere in Italia a
metter fuoco a tutte le Poetiche, da quella di Aristotile fino a quella
del Menzini? -
E qui Sua
Reverenza mandò un lungo sospiro di desiderio. Poi tosto ammutí, guardò in alto
per un poco, e si fece tutto rosso in viso, vergognando, cred'io, d'avere unito
il nome d'Aristotile a quello di un guastamestiere. Poi, ripreso fiato, stese
la mano all'ospite e col sorriso della cortesia lo pregò perché proseguisse il
panegirico che tanto gli andava a sangue. Terminato il dire, l'ospite pigliò
licenza. Il povero curato lo accompagnò fino all'uscio; e lasciata scappare una
lagrima, gli strinse la mano e gli disse: - Domando mille scuse; ho gridato
fuori d'ogni creanza: ma sappia Vossignoria ch'io non l'aveva con lei. A lei io
ho data la mia stima. Capperi! Vossignoria ha detto pel primo in Italia cose
che non tutti sanno dire o che tutti qui s'ostinano a non voler dire. Da bravo!
Stia fermo, e non si lasci atterrire da chi senza entrare in ragionamenti le
abbaia dietro de' mali motteggi e delle insipide satire. Siamo cristiani e
sacerdoti entrambi; perdoniamo adunque di buona volontá agli insolenti. Dio
n'abbia anch'egli misericordia! Sono montato in furia contro le Poetiche,
perché la sento cosí e perché questo mio maledetto naturale è tutto stizza e
non lo so mai frenare. Ma i filosofi estetici io non li confondo cogli
scrittori di Poetiche. No, no, quelli li rispetto, e glielo giuro sull'onor
mio. E le giuro che qualche volta leggo con vera aviditá le cose del Burke e
del Lessing, come se fossero squarci della Cittá
di Dio del mio sant'Agostino. Ma Ella compatisca se in questo punto
delle Poetiche io sono di parere contrario a quello manifestato da lei:
compatisca e mi voglia bene. -
Interrogazione
seconda. «Il Cacciatore feroce e l'Eleonora piaceranno in
Italia?».
Questo è
quesito di non cosí facile scioglimento come il primo. Madama de Staël,
nell'ingegnosa ed arguta sua opera sull'Alemagna, ha analizzati entrambi
questi romanzi. E come è solito dei fervidi ed alti intelletti, che hanno
sortita fantasia vasta, l'aggiungere senza avvedersene qualche cosa sempre del
loro alle opere altrui delle quali s'innamorano, ella vi trovò bellezze forse
piú che non hanno e gli ammirò forse troppo. Nondimeno ella è di parere che
difficile e quasi impossibile sarebbe il far gustare que' romanzi in Francia; e
che ciò provenga dalla difficoltá del tradurli in versi, e da questo: che in
Francia «rien de bizarre n'est naturel». In quanto alla bizzarria ed
alla difficoltá di tradurre in versi, sta a' francesi ed a madama de Staël il
decidere. In quanto al poterne tentare una versione in prosa francese, io credo
di non errare pensando che, se madama de Staël avesse voluto piegarsi ella
stessa all'ufficio di traduttore, i francesi avrebbero accolta come eccellente
la traduzione di lei. E se mai il giudizio, che ella portò sulla
incompatibilitá del gusto francese colla bizzarria de' pensieri, fosse meno
esatto, la tanta poesia che vive in tutte le prose di madama si sarebbe
trasfusa di certo anche in questa, per modo che la mancanza del metro non
sarebbe stata sciagura deplorabile. L'armonia non è di cosí essenziale
importanza da dover dipendere totalmente da essa la fortuna di un componimento.
Per riguardo
all'Italia, io non saprei temere di un ostacolo dal semplice lato della
bizzarria, da che l'Ariosto è l'idolo delle fantasie italiane. Però, lasciato
stare il danno che a questi romanzi può venire dall'andar vestiti di una poco
bella traduzione per le contrade d'Italia, dico che a me sembra di ravvisare in
essi una cagione piú intrinseca, per la quale non saranno forse comunemente
gustati tra di noi.
Entrambi
questi romanzi sono fondati sul maraviglioso e sul terribile, due potentissime
occasioni di movimento per l'animo umano. Ma l'uomo che, per uscire del letargo
che gli è incomportabile, invoca anche scosse violenti all'anima sua e anela
sempre di afferrare siffatte occasioni, pure non se ne lascia vincere mai, se
non per via della credenza. E il terribile e il maraviglioso, quando non sono
creduti, riescono inoperosi e ridicoli, come la verga di Mosé in mano a un
misero levita.
L'effetto
dunque, che produrranno i due romanzi del Bürger, sará proporzionato sempre
alla fede che il lettore presterá agli argomenti di maraviglia e di terrore de'
quali essi riboccano. Ora, dipendendo da ciò principalmente l'esito della loro
emigrazione presso gli italiani, a me non dá il cuore di pronosticarla
fortunata.
Cominciamo
dal primo. Ecco la traduzione del Cacciatore feroce.
IL CACCIATORE FEROCE.
Il conte di
Rheingrafenstein4 diede fiato alla cornetta: - Olá olá, su su, in piedi
e in sella! -
Il Suo
cavallo mise nitriti, e via d'un salto si slanciò innanzi. E dietro a lui
precipitosa a fracasso tutta la salmeria; e un correre, uno squittire di cani
squinzagliati su e giú per mezzo a biade e prunaie, per mezzo a ginestreti ed a
stoppie.
Illuminata dal
raggio mattutino della domenica, biancheggiava da alto la cupola del duomo. Con
tocchi distinti, con un rombar grave, le campane festive chiamavano il popolo
alla messa cantata. Di lontano risonavano i cantici della turba divota de'
cristiani.
E via via
via, attraverso bivi e quadrivi veniva impetuosa la caccia: e da per tutto
erano gridi, «to to to, ciuee ciuee!».
Ed ecco a
destra, ecco a sinistra uscire un cavaliero di qui, un cavaliero di lá. Il
corridore del cavaliero a destra era nitido come argento; del color del fuoco
era quello che portava il cavaliero a sinistra.
Chi era mai
il cavaliero a destra, chi mai il cavaliero a sinistra? Ben me lo presagisce il
cuore, ma chi sieno non so.
Il cavaliero
a destra comparve in candido vestimento e con un volto soave come la primavera.
Il cavaliero a sinistra, orrendo e vestito d'un fosco giallo, vibrava folgori
dall'occhio come la tempesta.
- In tempo,
in tempo giungeste! Ben venga ognuno di voi alla nobile caccia! Né qui in
terra, né su in cielo vi ha spasso piú caro di questo. -
Egli cosí
esclamò; e lieto fe' scoppiar la palma sull'anca; e toltosi di testa il
cappello, l'agitò su per l'aria.
- Mal si
accorda il suono della tua cornetta alla squilla festiva ed a' cantici del
coro, - disse con placido animo il cavaliero a destra. - Torna, torna in
dietro: la tua caccia è mal augurata quest'oggi. Cedi al consiglio dell'angelo
buono, e non ti lasciar traviare dal cattivo.
- Innanzi,
innanzi, séguita su, séguita la tua caccia, o mio nobil signore! - interruppe
violento il cavaliero a sinistra.
- Che ronzo
di squilla? che clamore di coro? Ben piú vi fará allegri la gioia della caccia.
Io v'insegnerò quali trastulli si convengano a' principi. Non istate a dar, no,
retta al costui spauracchio.
- Ah sí, ben
parli, o cavaliero a sinistra! Tu sei un eroe secondo il cuor mio. Chi rifugge
l'uscire a caccia, vada in malora a snocciolar paternostri. A tuo dispetto,
bacchettone scimunito, a tuo dispetto voglio cavarmi la mia brama. -
E via via
via, fuor d'un campo, dentro un altro, su pel poggio, giú per la china, sempre
sempre gli venivano cavalcando stretti a' fianchi il cavaliero a destra e il
cavaliero a sinistra. Quand'ecco a un tratto smacchiar di lontano un bianco
cervo con corna di sedici palchi.
Il conte
raddoppiò il fiato alla cornetta, e piú veloci accorsero d'ogni parte cavalieri
e pedoni. Ed ecco, or di dietro or dinanzi, or l'uno or l'altro de' seguaci
stramazzare tramortito sul terreno per la gran furia.
- Stramazza
pure, stramazza, al diavolo! Non per questo deve andar guasto lo spasso de'
principi. -
La belva si
accoscia in un campo di spighe e vi spera rifugio. Ecco un povero contadino
trarre innanzi umilmente e metter gemiti e lagrime:
- Pietá,
signor mio, pietá! Abbiate riguardo agli stenti, al sudore del poverello. -
Il cavaliero
a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontá ammonisce il conte. Ma il
cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all'oltraggio maligno. Il conte
schernisce le ammonizioni del cavaliero a destra e si lascia traviare dal
cavaliero a sinistra.
- Via di qua,
miserabile! - grida sbuffando terribile il conte al povero aratore - o ch'io,
per Satanasso! su te, su te dirizzo la caccia. Olá, compagni! addosso addosso! dálli
dálli! In segno che ho giurato il vero, fategli fischiar le fruste sugli
orecchi. -
Detto fatto,
il conte si scagliò furibondo al disopra la siepe; e dietro a lui un bisbiglio,
un rimbombo, e tutto quanto il traino con cani e cavalli e pedoni. E cani e
pedoni e cavalli pestavano i fusti del grano, sicché la campagna tutta era un
polverio.
All'avvicinarsi
di quello schiamazzo, spaventata, la belva, via via, fuor d'un campo, dentro un
altro, su pel poggio, giú per la china, messa in fuga, inseguita, ma non
arrivata, guadagna i piani del pascolo comunale; e astuta si frammette alle
mansuete mandre onde salvarsi.
Ma di qua, di
lá, per campagne e per boschi; di su, di giú, per boschi e per campagne, i
veltri la perseguitano e n'hanno tosto fiutata la traccia.
Il
mandriano5, pieno d'angoscia pel suo armento, si butta a' piedi del
conte.
- Pietá,
signore, pietá! Fate di lasciare in pace queste mie povere bestie mansuete.
Ponete mente, signor mio, che qui pascolano le vacche di tante povere vedove,
che non hanno altra sostanza. Abbiate pietá de' poveri. Misericordia, signor
mio, misericordia! -
Il cavaliero
a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontá ammonisce il conte. Ma il
cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all'oltraggio maligno. Il conte
schernisce le ammonizioni del cavaliero a destra e si lascia traviare dal
cavaliero a sinistra.
- Ribaldo,
temerario, che a me contrasti! Ah perché non sei tu incarnato tu stesso nella
migliore delle tue vacche, e in lei non è incarnata altresí ognuna di quelle
sgualdrine? Che gioia sarebbe allora pel cuor mio lo incalzarvi tutti insieme a
dirittura fino all'altro mondo!
Olá,
compagni! addosso addosso, dálli dálli! To to, qui qui, ciuee ciuee ciuee! -
E ciascuno
de' cani s'avventò aizzato sul primo oggetto che gli si parò innanzi.
Insanguinato cadde a terra il mandriano, insanguinate caddero l'una dopo
l'altra le vacche.
A stento la
belva si sottrae a quel macello, con sempre minor lena di corso. Spruzzata di
sangue, intrisa di bava, eccola prendere il cupo della foresta e ripararvisi.
Addentro addentro ella si inselva, e viene a trovar nascondiglio nella cappella
di un eremita.
Via via,
senza posa mai. - To to, ciuee ciuee, to to to! - Allo scoppiar delle fruste,
all'abbaiare de' veltri, allo squillare dei corni la schiera feroce anche colá
si precipita.
Il santo
eremita uscí della cappelletta e si fece incontro con mite scongiuro.
- Rimanti,
rimanti, abbandona la traccia. Non profanare l'asilo di Dio.
La creatura
manda gemiti al cielo e implora da Dio il gastigo tuo. Lasciati per l'ultima
volta ammonire, o la tua empietá ti trarrá in perdizione. -
Sollecito il
cavaliero a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontá ammonisce il conte.
Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all'oltraggio maligno. E,
oh Dio! ad onta delle ammonizioni del cavaliero a destra, egli si lascia
traviare dal cavaliero a sinistra.
- Che
empietá, che perdizione parli tu mai? Forse - grida egli, - forse che la mi spaventa
gran fatto? Questa mia caccia, dovessi io anche vederla spinta fino al terzo
cielo, che rileva, che monta a me? Sí, per Dio! vo' proseguirla, voglio
sbramarmi. E sia pure a dispetto di te, o scimunito, e a dispetto di Dio. -
Egli mena
vibrata la frusta, dá fiato alla cornetta. - Olá, compagni, addosso addosso!
dálli dálli! -
Oh Dio! Ecco
in un tratto spariscono innanzi a lui ed eremita e cappelletta; spariscono
dietro a lui e cavalli e pedoni. E in un batter d'occhio, e fracassi e suoni ed
urli di caccia, tutto tutto ingoia un silenzio di morte.
Atterrito il
conte gira lo sguardo; dá fiato alla cornetta, e la cornetta non rende suono;
mette un grido, e non ha piú sentore della propria voce; vibra la frusta, e la
frusta non fischia; sprona l'un fianco e l'altro al destriero, né può cavalcare
innanzi o retrocedere.
E subito
intorno a lui un buio, e piú e piú sempre un buio, come di sepolcro; ed un
mugghiare, come di marina lontana. Su alto per l'aria, al di sopra del suo
capo, una voce di tuono grida tremenda con furor di burrasca questa sentenza:
- O tiranno,
o indole d'inferno, che insolentisci contro Dio, contro gli uomini, contro ogni
cosa! Il singulto, il gemito della creatura e la tua iniquitá ti hanno citato a
gran voce innanzi al tribunale, lá su dove arde la fiaccola della vendetta.
Fuggi, empio,
fuggi. E sia tu da qui innanzi per tutta l'eternitá perseguitato tu stesso in
caccia dall'inferno e dal demonio. E sia spavento, questo, de' principi d'ogni
secolo che, a saziare le loro voglie scellerate, non perdonano né a Creatore né
a creatura. -
A queste
parole un bagliore giallo come zolfo guizza intorno alle frondi della foresta.
Via via per l'ossa e per le midolle discorre al conte l'angoscia. Una vampa gli
opprime il respiro. Stordisce e non ode piú nulla. Innanzi, tutto gli soffia
sul viso gelo e terrore; e alla nuca lo insiegue il fischio della bufera.
Cresce il
soffio del terrore, cresce il fischio della bufera; e su dalla terra, oh
spavento! ecco un pugno negro emergere, giganteggiare. Apresi, stringe gli
artigli; ahi! ahi! giá lo abbranca pel ciuffo; ahi! ahi! travolta in un attimo
la faccia del conte, sovrasta alle spalle di lui.
Intorno
intorno a lui un corruscar di faville e di fiamme verdi, brune e sanguigne. Un
mar di fuoco presso presso gli ondeggia d'ogni lato; e dentro vi brulica la
ciurma infernale. In un subito mille veltri infernali prorompono aizzati a
fracasso su dalla voragine.
Via
precipitoso egli si scaglia attraverso i boschi, attraverso la campagna; e
fugge mettendo lai e ululati. - Ahi, me misero! misero! -
Ma per tutto
l'ampio mondo lo perseguita il latrar dell'inferno, di giorno giú per le
caverne della terra, a mezzanotte su in alto per l'aria.
La faccia di
lui sovrasta perpetuamente alle spalle, ond'egli abbia perpetuamente la veduta
de' mostri che lo inseguono. E per quanto rapida la fuga lo strascini innanzi,
incitato dagli urli dello spirito cattivo, gli bisogna mirare perpetuamente il
digrignar dei denti e lo spalancarsi delle fauci ringhiose che gli stanno sopra
per azzannarlo.
Tale è la
caccia della ciurma feroce; e dura e durerá fino al dí del giudizio. Spesso
nella notte ella passa innanzi al vagabondo a spaventarlo e inorridirlo. E
testimonianza ne potrebbe far tuttavia la lingua d'assai cacciatori, se per
altre ragioni non convenisse a loro il silenzio6.
La favola di
questo romanzo è tratta da una tradizione popolare in Germania; però è un
soggetto bello ed opportuno per un poeta tedesco. Ivi il popolo la crede vera;
e da questa opinione acquistandosi fede il poeta, ha potuto a suo talento far
piangere e tremar di terrore i suoi lettori. I costumi, ch'egli ha dipinti,
sono o costumi de' suoi tempi, o costumi moderni e notissimi al popolo: quindi
sempre maggiore l'interesse, e sempre piú aumentata la fede.
Ma noi,
lettori italiani, non abbiamo come i tedeschi quella tradizione. E, a volere
reputar vera o verisimile la catastrofe del Cacciatore feroce, ci
bisognerebbe uno sforzo d'immaginosa superstizione. Ora, che che ne dicano gli
stranieri, siamo, noi italiani, dotati di tanta superstizione? La religione
nostra ben ci farebbe tenere come racconto verisimile che Dio avesse castigata
severamente la ferocia del cacciatore. Ma il castigo strano ed incessante su
questa terra piuttosto che nell'inferno, noi non lo crederemmo, perché non
abbiamo esempi consimili da paragonargli. Ben è vero che nella novella ottava
della Giornata quinta del Decamerone noi leggiamo di una pena
sull'andare di questa, benché per colpa tutt'altra. Ma quella storia non è
creduta piú in Italia, e forse non era tradizione indigena qui neppure a' tempi
del Boccaccio, che probabilmente la tolse ad imprestito dal monaco francese
Elinando, scrittore del 1200, e di suo capriccio la traspiantò nella pineta di
Ravenna.
Oltrediché
noi non viviamo sulla sponda del Reno. La ingiustizia feudale e l'insultante
privilegio delle cacce riservate ai nobili sono mali che noi ora non proviamo.
La narrazione di sciagure contemporanee, alle quali noi non partecipiamo, non
sará davvero udita con indifferenza; ma non ci commoverá tanto quanto i
tedeschi. L'uomo non può pensare all'uomo lontano e posto in circostanze
diverse dalle sue con quell'interesse medesimo, con cui egli pensa a se stesso
ed a' vicini. Le lagrime del povero contadino, l'angoscia del mandriano, la
pace dell'eremita profanata ci faranno pietá. Ma questa pietá, paragonata con
quella de' tedeschi, sará minore d'assai; come il batticuore di noi europei
mediterranei è minore di quello degli onesti fra gli abitanti delle colonie al rammentare
la compassionevole tratta dei negri. Discendendo giú per questa scala di
compassioni decrescenti, si giunge fino a quel grado di affanno leggiero
leggiero, con cui noi viventi del secolo decimonono ascoltiamo le sventure
degli Atridi, de' Tiestei e de' Priamidi.
Cessate anche
in Germania parte delle prepotenze feudali, variate anche alcune costumanze,
mille memorie nondimeno di luogo e di nomi, mille affinitá di patria e di
famiglie richiameranno la storia di quelle alla mente de' tedeschi, e per
lunghissimi secoli. Cosí, e per le stesse ragioni, le sciagure che afflissero
anticamente i padri nostri in Italia, quantunque non piú le medesime che
proviamo noi, pure percuoteranno l'animo nostro con bastante vigore,
ricordandole poeticamente. E come le iniquitá, a modo d'esempio, de' nostri
Visconti non sarebbero mai sentite tanto fortemente da' lettori tedeschi quanto
dagli italiani, cosí la storia del Cacciatore feroce non lo sará, temo,
da noi quanto da loro.
Non so
indurmi a dar l'ultimo addio al Cacciatore feroce, se prima non fo
qualche cosa a onore e gloria de' commentatori e della consuetudine loro. Sappi
dunque, o figliuolo, d'un pezzo di poesia italiana che ha qualche sorta di
cognazione con questo del Bürger.
Erasmo di
Valvasone, verso la fine del canto terzo del suo poema La caccia,
raccomanda a' cacciatori di non uscire mai alla campagna sprovveduti di una
messa sentita e dell'aiuto invocato di tutti i santi. E per ispaventare gli
scapestrati, reca in mezzo la mala ventura di un certo Terone, ch'egli stesso,
il poeta, dice d'aver conosciuto. Terone, mentre viveva giovinetto lungo la
riva del nativo Tagliamento, era gran cacciatore e persona divota; e Dio
l'aveva scampato sempre d'ogni pericolo. Fatto adulto, viaggiò tutta la
Germania e v'imparò altri costumi. Tornò a casa, e non usò piú né a messe né a
chiese. Un cignale orribile metteva a guasto ed a spavento la campagna
d'Aquilea: però una caccia generale fu bandita per tal domenica. Infinite genti
v'intervennero, e Terone anch'egli, come il feritore piú certo. La comitiva si
recò sull'alba al tempio e non n'uscí che benedetta dal sacerdote. Terone solo
si rimase, schernendo il rito. La caccia ha principio: la belva si appiatta in
un pantano; è scoperta; i cacciatori le sono addosso. Ma impaurito si arretra
ognuno. Solo a Terone il cuore non batte di paura. Egli bestemmia la viltá de'
compagni, bestemmia la lor divozione, bestemmia Dio; e si avventa alla fiera.
Quella, come mossa dalla divina vendetta, sdegna ogni altro nemico e si scaglia
su Terone, né lo lascia che dopo di avergli tolto e ardimento e vita. Dismessa
poi la ferocia, anch'essa, la fiera, viene ad offrirsi da sé a' colpi de'
cacciatori, e cade morta. E il poeta, che sente oramai stracco il suo
colascione, dá fine al canto con un paio di versi, tutti novitá di pensiero,
tutti eleganza di modi:
Imparate giustizia, o genti umane,
e non spregiar le deitá sovrane.
Virgilio
glieli perdoni. E tu perdona a me se ti ho fatto ingozzare tutto questo
episodio. Quel poema della Caccia so che non lo hai letto mai, né lo
leggerai forse, benché stampato fra i Classici italiani; del che non
vorrò biasimarti. Ma a' discendenti di quegli eruditi che, zelanti della loro
Italia, seppero trovare l'origine italiana del Paradiso perduto del
Milton, io regalo questo bel pezzo del museo Valvasoni, insieme alla novella
ottava della Giornata quinta del Decamerone, affinché ne compongano un
solo manicaretto, e ne estraggano la quintessenza, e se la bevano; poi, con una
predica scritta sugosamente, sul fare, per esempio, delle orazioni di
monsignore Della Casa, escano a ridomandare le sostanze che sono di nostro
diritto, mostrando come in Italia v'abbia la semenza di tutto e come, in fine
del conto, gli stranieri non si facciano pavoni che con le penne nostre.
Quella
novella, per altro, del Boccaccio, a dirla tra di noi, è una grande infamia.
Volere che la giustizia di Dio punisca di ripetute morti acerbissime una donna,
perché costantemente ricusò di amare! E che diritto aveva Guido degli Anastagi,
che diritto hanno gli uomini qualunque sul cuore femminino? È forse uno de'
comandamenti per la femmina il cedere alle voglie di chi la prega d'amore? Se
Guido degli Anastagi s'era ammazzato, peggio per lui! L'amore è una passione
spontanea che vive di libertá. E la donna, che si ostina a dirmi di no, mi fará
infelice; ma della mia infelicitá ella non può essere né accusata né condannata
da legge veruna. La massima che le donne sieno in obbligo di riamare chi le
ama, è uno de' sofismi usati da' seduttori. Limitandola anche al caso di amore
onesto, cioè accompagnato dall'intenzione di strigner nozze, è una massima che
fa a pugni colla dottrina de' cristiani; attesoché ella reputa stato di
perfezione la castitá del celibato. E per chi scriveva egli, il Boccaccio, se non
per gente cattolica?
Pedanti e non
pedanti hanno biasimato il Sannazaro, perché, non contento egli di avere giá
sparso bastantemente di erudizioni mitologiche antiche tuttoquanto il suo poema
sulla nascita di Gesú Cristo, De partu Virginis, abbia poi voluto
introdurvi anche, come enti contemporanei ed operanti, le naiadi e le driadi.
Ma l'errore del Sannazaro non è egli forse meno grave di cotesto del Boccaccio?
Non è egli peggio forse il falsare la morale della religione che uno introduce
nel suo componimento, di quello non sia l'unirvi alcune invenzioni eterogenee,
col solo, innocente e manifesto proposito di sbizzarrirsi in fantasie poetiche?
Basterebbe
che questa infame novella della pineta di Ravenna venisse creduta vera a' dí
nostri e lodata in Italia, perché fosse data vinta la causa a quegli stranieri
che ci mandano titolo di vendicativi, di feroci, di superstiziosi e di poco
religiosi nel cuore. Ma come è vero che noi non siamo cosí tristi, nessuno in
Italia vorrebbe oggi avere scritto egli quel vituperio della pineta. E Dio lo
tolga dalla memoria fino de' bibliotecari!
Leggi ora,
figliuolo mio, la traduzione della Eleonora.
ELEONORA.
Sul far del
mattino Eleonora sbalzò su, agitata da sogni affannosi: - Sei tu infedele, o
Guglielmo, o sei tu morto? E fino a quando indugerai? -
Egli era
uscito coll'esercito del re Federigo alla battaglia di Praga, e non aveva
scritto mai se ne fosse scampato.
Stanchi delle
lunghe ire, il re e l'imperatrice ammollirono le feroci anime, e finalmente
fecero pace. Ed ogni schiera, preceduta da inni, da cantici, dal fragore de'
timpani, da suoni e da sinfonie, adornata di verdi rami, si riduceva alle
proprie case.
E da per
tutto, da per tutto, sulle strade, sui sentieri, giovani e vecchi traevano
incontro ai «viva» d'allegrezza de' vegnenti. - Sia lode al cielo! -
esclamavano fanciulli e mogli. - Ben venga! - esclamavano assai spose contente.
Ma, oh Dio!
per Eleonora non v'era né saluto né bacio.
Ella di qua,
di lá cercò tutto l'esercito, dimandò tutti i nomi. Ma fra tanti reduci non uno
v'era che le desse ragguaglio. Oltrepassate che furono da ultimo tuttequante le
schiere, ella si stracciò la nera chioma7, e furibonda si buttò sul
terreno.
Accorse precipitosa
la madre. - O Dio, misericordia! Che hai, che t'avvenne, figlia mia cara? - E
se la serrò fra le braccia.
- O madre,
madre! È perduto, è morto. Or vada in rovina il mondo, e tutto vada in rovina!
Non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!
- O Dio, ne
assisti! Misericordia, o Signore! Di', figlia mia, di' un paternostro. Quello
che è fatto da Dio è ben fatto. Egli sí, Iddio è pietoso di noi.
- O madre,
madre! Tutte illusioni. Nulla di bene ha fatto per me il Signore! nulla. Che
giovarono, che giovarono le mie orazioni? Oramai non n'è piú bisogno.
- O Dio, ne
assisti! Chi in Dio riconosce il nostro padre sa ch'egli soccorre a' figliuoli.
Il santissimo Sacramento metterá calma al tuo affanno.
- O madre,
madre! Questo incendio che m'arde non v'ha Sacramento che me lo calmi. Non v'ha
Sacramento che restituisca a' morti la vita.
- Ascoltami,
o cara; e se quell'uom falso, lá lontano nell'Ungheria, avesse rinnegata la
fede per isposarsi ad altra donna? No, cara, non pensar piú a quel suo cuore. E
neppure egli se ne troverá contento. Quando un giorno l'anima verrá a separarsi
dal corpo, lui trarrá nelle fiamme il suo spergiuro.
- O madre,
madre! Non è piú, non è piú; egli è perduto, perduto per sempre. La morte!
altro non mi resta che la morte! Oh! non fossi io nata mai! Spegniti, luce mia,
spegniti in perpetuo. Muori, muori sepolta nella notte e nell'orrore! No, non
ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!
- O Dio, ne
assisti! Non voler, no, entrare, o Dio, in giudizio contra la povera tua
creatura. Ella non sa quel che la sua lingua si dica: non tener conto de'
peccati di lei. Dimentica, figliuola mia, dimentica la tua afflizione terrena;
pensa al Signore, pensa alla beatitudine eterna; e t'assicura che non verrá
meno lo sposo all'anima tua.
- E che è
mai, o madre, la beatitudine eterna? che mai, o madre, è l'inferno? Con lui,
con lui è beatitudine eterna; e senza di Guglielmo non v'ha che inferno.
Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo: muori, muori sepolta nella notte e
nell'orrore! Senza di lui, né sulla terra né fuori della terra posso aver pace
io mai. -
Cosí a lei
nella mente e nelle vene infuriava la disperazione. Piú e piú continuò
temeraria ad accusare la provvidenza di Dio; si percosse il seno, si storse le
mani, fino al tramonto del sole, fino all'apparire delle stelle auree per la
vòlta del cielo.
Quand'ecco,
trap trap trap, un calpestio al di fuori come una zampa di destriero; e
strepitante nell'armadura smontare agli scalini del verone un cavaliere. E tin
tin tin, ecco sfrenarsi pian piano la campanella dell'uscio; e da traverso
l'uscio venire queste distinte parole:
- Su su!
Apri, o mia cara, apri. Dormi tu, amor mio, o sei desta? Che intenzioni sono
ancora le tue verso di me? Piangi o sei lieta?
- Oh cielo!
Tu, Guglielmo? Tu... di notte.., cosí tardi?.. Ho pianto, ho vegliato. Ahi
misera! un grande affanno ho sostenuto... E donde vieni tu cosí a cavallo?
- Noi non
mettiamo sella che a mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a questa volta, fino
dalla Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e voglio condurti meco.
- Ah
Guglielmo! Entra prima qua dentro un istante. Su presto! Il vento fischia ne'
roveti. Entra, vieni, cuor mio carissimo, a riscaldarti fra le mie braccia.
- Lascia pure
che il vento fischi fra i roveti: lascialo fischiare, anima mia, lascialo
fischiare. Il mio cavallo morello raspa; il mio sprone suona. In questo luogo
non m'è concesso alloggiare. Vieni, succingiti, spicca un salto e géttati in
groppa al mio morello. Ben cento miglia mi restano a correre teco quest'oggi
per arrivare al letto nuziale.
- Oh cielo! E
tu vorresti in questo sol giorno trasportarmi per cento miglia fino al letto
nuziale? Odi come romba tuttavia la campana: le undici sono giá battute.
- Gira, gira lo
sguardo. Vedi, fa un bel chiaro di luna. Noi e i morti cavalchiamo in furia.
Oggi, sí quest'oggi, scommetto ch'io ti porto nel letto nuziale.
- E dov'è,
dimmi, dov'è la cameretta? E dove, e che letticciuolo nuziale è il tuo?
- Lontano,
lontano di qui..., in mezzo al silenzio..., alla frescura..., angusto... Sei
assi... e due assicelle...
- V'ha spazio
per me?
- Per te e
per me. Vieni, succingiti, spicca un salto e géttati in groppa. I convitati
alle nozze aspettano; la camera è giá schiusa per noi. -
La vezzosa
donzelletta innamorata si succinse, spiccò un salto, snella si gittò in groppa
al cavallo, e con le candide mani tutta si ristrinse all'amato cavaliere. E
arri arri arri! salta salta salta; e l'aria sibilava rotta dal gran galoppare.
Sbuffavano cavallo e cavaliere, e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
A destra e a
sinistra, deh, come fuggivano loro innanzi allo sguardo e pascoli e lande e
paesi! come sotto la pesta rintronavano i ponti!
- E tu hai
paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri! I morti cavalcano in
furia. E tu, mia cara, hai paura de' morti?
- Ah no! Ma
lasciali in pace i morti. -
Da colaggiú
qual canto, qual suono mai rimbombò? che svolazzare fu quello de' corvi?... Odi
suono di squille, odi canto di morte! «Seppelliamo il cadavere».
Ed ecco
avvicinarsi una comitiva funebre, e recar la cassa e la bara de' morti. E
l'inno somigliava al gracidar dei rospi negli stagni.
- Passata la
mezzanotte, seppellirete il cadavere con suoni e cantici e compianti. Ora io
accompagno a casa la giovinetta mia sposa. Entrate meco, entrate al convito
nuziale. Vieni, o sagrestano, vieni col coro e precedimi intuonando il cantico
delle nozze. Vieni, o sacerdote, vieni a darci la benedizione, prima che ci
mettiamo a giacere. -
Tace il
suono, tace il canto; la bara sparí. E obbedienti alla chiamata, quelli
correvano veloci, arri arri arri! lí lí sulle peste del morello. E va e va e
va; salta salta salta; e l'aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano
cavallo e cavaliere, e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
Deh, come
fuggivano a destra, come a sinistra fuggivano, e montagne e piante e siepi!
Come fuggivano a sinistra, a destra, e ville e cittá e borghi!
- E tu hai
paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri arri! I morti cavalcano
in furia. E tu, mia cara, hai paura de' morti?
- Ahi misera!
Lasciali in pace i morti. -
Ecco ecco; lá
sul patibolo, al lume incerto della luna, una ciurma di larve balla intorno al
perno della ruota8!.
- Qua qua, o
larve. Venite, seguitemi. Ballateci la giga degli sposi quando saliremo in
letto. -
E via via
via, le larve gli stormivano dietro a' passi, come turbine che in una selvetta
di nocciuoli stride frammezzo all'arida frasca. E va e va e va, salta salta salta;
e l'aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere, e
sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
Ogni cosa che
la luna illuminava d'intorno, deh, come ratto fuggiva alla lontana! Come
fuggivano e cieli e stelle al disopra di lui!
- E tu hai
paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri arri! I morti cavalcano
in furia. Ed hai tuttavia paura de' morti, o mia cara?
- Ahi me
misera! Lasciali in pace i morti.
- Su su, o morello! Parmi che il
gallo giá canti. Fra poco il sabbione sará omai tutto trascorso. Su, morello,
morello! Al fiuto sento giá l'aria del mattino... Di qua, o morello, caracolla
di qua... Finito, finito abbiamo di correre. Eccolo che s'apre il letto
nuziale. I morti cavalcano in furia. Eccola, eccola la mèta. -
Impetetuoso9
s'avventò a briglia sciolta contra un cancello di ferro. Ad uno sferzar di
scudiscio toppa e chiavistello gli si spezzarono innanzi, e le ferree imposte
cigolando si spalancarono. Il destriero drizzò la foga su per le sepolture. E
al chiaror della luna tutto biancheggiava di monumenti.
Ed ecco, ecco
in un subito, portento, ahi, spaventoso! Di dosso al cavaliere ecco a brandelli
a brandelli cascar l'armatura, com'esca logorata dagli anni! In teschio senza
ciocche e senza ciuffo, in teschio ignudo ignudo gli si convertí il capo, e la
persona in ischeletro armato di ronca e d'oriuolo.
Alto
s'impennò e inferocí sbuffando il morello, e schizzò scintille di fuoco. E via
eccolo sparito e sprofondato disotto alla fanciulla; e strida e strida su per
l'aere; e venir dal fondo della fossa un ululato!... A gran palpiti tremava il
cuore d'Eleonora e combatteva tra la morte e la vita.
Allora sí,
allora sotto il raggio della luna danzarono a tondo a tondo le larve; ed
intrecciando il ballo della catena, con feroci urli ripetevano questa nenia: -
Abbi pazienza, pazienza, s'anche il cuore ti scoppia. Con Dio no, con Dio non
venir a contesa. Eccoti sciolta dal corpo... Iddio usi all'anima misericordia!
-
A differenza
della prima, la favola di questo secondo romanzo, a quel ch'io sappia, è tutta
invenzione del poeta. Parrebbe dunque che, non sostenuta da una tradizione,
l'Eleonora non dovesse trovare né fede né applausi neppure in Germania. E
nondimeno è noto come ella sia colá la lodatissima delle poesie del Bürger. A
che ascriveremo noi questo?
I popoli
colti d'una parte della Germania, pe' quali il Bürger cantava, sono inclinati
all'entusiasmo. Avidi essi di emozioni, non aspettano che quelle vengano di per
sé; ma per ottenerne, si aiutano fin anche del meditare. Il bisogno fortissimo
di emozioni nasce in loro, se mal non veggo, per la mancanza di una continua
varietá di oggetti esteriori che possa occuparli e muoverne gli animi
piacevolmente. E questa mancanza è prodotta dalle circostanze politiche, da
quelle del clima, della geografia loro e della loro vita sociale. Ma le
circostanze medesime, se per un riguardo gli offendono, servono per un altro a
rinforzare notabilmente la loro riflessione, allorché la noia gli obbliga a
concentrarsi in se stessi, a ripiegarsi nell'animo proprio, onde provarne il
moto che li faccia accorti dell'esistenza. Educati cosí alla meditazione, non
di rado giungono essi a scoprire qualche lato importante e patetico nelle cose,
in cui sguardo superficiale nol vede. Tosto che l'hanno adocchiato, eglino vi
si affezionano e s'infervorano; e l'amore di una parte tira seco l'amore del
tutto.
Con ciò viene
a spiegarsi per noi da che provenga l'affettazione di certo «sentimentalismo»
che governa spesso il discorso de' romanzieri del nord, e che male è imitato
da' romanzieri di Francia, e mal sarebbe da que' d'Italia; perché posa su
pensieri ed affetti che non sono sentiti in Francia e in Italia né da chi
scrive né da chi legge. Quante volte l'uomo del nord, viaggiando in Italia, non
fa egli strabiliare gli ospiti suoi, parlando ogni tratto di sensazioni
domestiche, di piaceri segreti dell'animo, di simpatie recondite, di
compassioni prodigalizzate a un fiorellino del campo, di lagrime sparse per
pietá di un asinello defunto, di memorie lugubri suscitate in lui dalla menoma
novitá di nugoloni colorati! Pare a noi che egli allora monti sull'ippogrifo.
Eppure chi sa che per lunga assuefazione egli non abbia il cuore, troppo piú
che noi non ci figuriamo, pronto a palpitare per tante fantasie?
A quelle
docili immaginazioni bastò quindi pensare che la finzione dell'Eleonora era
omogenea ed analoga alle tradizioni popolari, perché a lei anche estendessero
il vero di opinione che quelle hanno. La stravaganza del tutto non nocque allora
piú all'effetto delle parti. E siccome le parti sono bellissime, l'approvazione
e l'ammirazione vennero di per sé.
Noi popoli
piú meridionali, circondati dalla pompa della natura e dalla perpetua
successione delle sue infinite lusinghe, non abbiamo mestieri di andare in
traccia di emozioni per sentire la vita. Noi aspettiamo che quelle ci
riscuotano come a viva forza; ma non ci curiamo di promuoverle noi col nostro
entusiasmo. Di qui, piú che lettori appassionati, noi riesciamo critici freddi.
E prima di dare una lagrima alle sventure di Eleonora, noi metteremo sul
bilancino i gradi di verisimiglianza che ha la storia della fanciulla, e non li
pagheremo della nostra credenza che grano per grano.
Forse, e bada
bene che tiro a indovinare e non altro, forse gli abitanti d'una parte della
Germania, de' quali ho parlato fin qui, hanno, o nel fondo del cuore o dentro
la mente, piú religione che noi non abbiamo10. Forse, avvezzati essi
dalle sètte e dalla necessitá delle controversie a meditare i dogmi della
religione, come noi a prestarle fede senza meditazioni, hanno talmente
inclinati i pensieri a lei, che tuttoquanto partecipa dello spirito del
cristianesimo essi lo sentono di primo tratto, qualunque sia l'oggetto che gli
occupi, qualunque sia lo stato dell'animo loro. Quindi è forse che il tedesco,
leggendo il romanzo dell'Eleonora, lascia bensí che il cuore di lui si
pieghi a compassione delle sventure della fanciulla; ma immediatamente corre
colla idea all'enormitá del peccato commesso da lei nel rinnegare la
provvidenza di Dio. Associata a quella idea eccoti subito l'altra: che ogni
vendetta di Dio, per quanto fiera ella sembri a umano intendimento, non può mai
aggiungere a tanto da pareggiare l'immensitá del delitto di cui si fa reo chi
offende Dio di qualsivoglia maniera. Mesci ora insieme il sussidio delle idee
religiose alla somiglianza che la favola della Eleonora dicemmo avere
colle tradizioni popolari in Germania; e vedi come il tedesco s'induca ad
essere liberale di credenza verso la catastrofe del romanzo. Nell'animo di lui
direi quasi che il sentimento massimo sará quello dell'enormitá del peccato e
della maestá di Dio irritata, e che la compassione per gli affanni amorosi
della fanciulla non sará che un sentimento concomitante.
Se l'Italia
leggente fosse composta di uomini tutti profondamente studiosi della loro
religione, forse l'Eleonora, scendendo tra di noi, non verrebbe a
capitare in terra straniera affatto. Ma quantunque in Italia v'abbiano teologi
eruditissimi, io temo che il piú degli italiani, ancorché cattolici di buona
fede, non si siano addimesticati tanto coi dogmi della loro religione da
salvare per questi una costante reminiscenza in tutte le loro sensazioni. Il
lettore teologo, anche in mezzo alle seduzioni della poesia, anche sbattuto dai
palpiti ch'ella produce, stará fermo alle dottrine da lui conosciute e
professate, e stabilirá tosto relazioni tra quelle e ciò ch'ei legge. Un lato
della sua mente egli lo tiene vergine sempre di tutt'altri pensieri, salvo i
religiosi. Però egli sentirá il maraviglioso e il terribile del romanzo dell'Eleonora;
e l'idea della divinitá oltraggiata e della severitá onnipossente, che procede
dalla giustizia di Dio, gli ingombrerá tanto l'anima, da lasciargliene una
parte ben poca in preda ad altre riflessioni e ad altri affetti. Pieno di
spavento, egli chinerá il capo innanzi a Dio; ripeterá anch'egli la nenia delle
larve, e finirá esclamando: - Salvami, o Signore, salvami dall'offenderti! -
Ma avremo,
noi, lettori teologi molti? O io m'inganno, o tra di noi sará maggiore il
numero di quelli che, facili a scusare negli altri le passioni perché le
vorrebbono scusate a se medesimi, si lasceranno andare alla pietá, come al
sentimento piú repentino per essi. Cedendo all'impeto delle prime impressioni cagionate
dalle miserie d'Eleonora, e non interrogando gran fatto il sentimento
religioso, che in essi, a differenza de' tedeschi, riescirá il meno forte,
eglino, parmi, diranno cosí: - Una povera vergine innamorata, disperante della
vita del suo sposo futuro, inasprita dal peso della disgrazia e della
importunitá dei consigli di una vecchia assiderata, perché nell'impeto del
dolore (e che dolore!) si lasciò fuggire di bocca la rinnegazione della
provvidenza, meritava ella di essere sepolta viva? meritava che il ministro
dell'ira di Dio fosse quello stesso amante per cui ella aveva spasimato tanto?
meritava che questi alla gelata indifferenza dovesse anche aggiungere la
crudeltá della ironia, e continuarla fino all'ultimo della vita? Se dopo lunghe
macchinazioni, ella fredda fredda avesse per avarizia piantato un coltello nel
petto al padre e strozzata la madre, le starebbe bene questo ed ogni altro
rigore di pena; ma nel delirio dell'amore... per una parola inconsiderata...
tanto supplizio! No, non può essere. Il Dio nostro è il Dio della misericordia.
Tratto a doverci visitare nell'ira sua, egli guarda pur sempre all'intenzione
del peccatore, e distingue il delirio d'una passione innocente dalla gelida,
ostinata empietá. Eleonora ha peccato. Ma qual proporzione qui tra 'l peccato e
la pena? No no, la storia d'Eleonora non è credibile. È una invenzione nera
nera che mette ribrezzo; è una favola da nutrici che non è raccomandata da
verisimiglianza veruna, e che non meritava neppure una sola delle nostre lagrime.
-
Davvero io
non torrei a difendere innanzi al Santo offizio l'ortodossia di chi ragionasse
cosí. Davvero sono persuaso che qualunque persona trascorresse a discorsi
siffatti, dopo piú mature considerazioni, se ne disdirebbe. Ma fattili una
volta, e rovinato con ciò l'effetto primo di questa poesia, come trovarla bella
dappoi? come gradir bene dappoi ciò che sulle prime n'è venuto in fastidio? E
che a molti si aggireranno pel capo pensieri consimili a questi ch'io portai
qui sopra, oserei scommetterlo. Non mi dorrebbe di rimanere perdente; anzi 'l
desidero.
Ad ogni modo
in entrambi questi romanzi, e piú nel secondo, v'ha qualche cosa di magico che
non si lascia definire. Ed io conosco uomini in Italia che, capaci quant'altri
di esercitare la critica, pure fu loro necessitá metterla in silenzio, perché
sentivansi l'anima strascinata dalla prepotenza del terribile, intenerita dal
patetico che regna in questi componimenti. E la monotonia stessa, che qua e lá
il poeta vi sparse, rendeva piú profonda e piú perseverante la commozione. Dopo
un esperimento siffatto, io credo di potere rispondere a te che in Italia altri
rideranno freddamente di questi due romanzi; altri diranno essere un peccato
l'avere arricchito di tanta poesia argomenti da non trattarsi; ed altri si
trasporteranno alle circostanze del popolo per cui furono scritti, ed
assumendone le opinioni e l'entusiasmo, divideranno con lui la pietá, la
maraviglia e il terrore. Parmi che gli ultimi, comeché pochi forse, mostreranno
indole più poetica.
In quanto a
te, se mai ti nascesse voglia di scrivere romanzi in Italia sul fare di questi,
va' cauto e fa' di non lasciarti traviare in soggetti non verisimili, quando
essi siano tolti di peso dalla fantasia tua. Ché se l'argomento ti viene
prestato da una storia scritta o da una tradizione che dica: - Il tal fatto è
accaduto così, - e tu senti che comunemente è creduto così, allora non istare
ad angariarti il cervello per timore d'inverisimiglianze, da che tu hai le
spalle al muro. Però nella scelta siati raccomandato d'attenerti piú volentieri
ai soggetti ricavati dalla storia che non agli ideali. Né ti fidare molto a
quelle tradizioni che non escirono mai del ricinto d'un sol municipio, perché
la fama tua non sarebbe che municipale: del che non ti vorrei contento.
Finalmente,
se i due componimenti del Bürger che ti stanno ora innanzi, e che furono
immaginati per la Germania e proporzionati a que' lettori, non piaceranno
universalmente in Italia, bada bene a non inferire da questo che la letteratura
tedesca sia tutta incompatibile col gusto nostro. Vi hanno in Germania
componimenti moltissimi fondati su maniere e su geni comuni a' tedeschi, a noi
ed al resto dell'Europa colta. E il dire che un po' piú un po' meno di
lucidezza di sole renda affatto opposte tra di loro le menti umane, ed
inaccordabili onninamente le operazioni intellettuali di chi vive tre mesi fra
le nebbie con quelle di chi ne vive sei, è puerilitá tanto piú ripetuta quanto
ella è piú facile a dar vita ad un meschino epigramma. Se ne' greci e ne' latini
troviamo cose ripugnanti al genio della poesia italiana e le confessiamo,
perché infastidirci se ne' francesi, negli spagnuoli, negli inglesi e ne'
tedeschi ne scopriamo parimenti che vogliono da noi rifiutarsi? O legger nulla
o legger tutto fa d'uopo. Però io, portando opinione che il secondo partito sia
da scegliersi, credo che anche lo studio del Cacciatore feroce e della Eleonora
sará utile in Italia, perché mostra da quali fonti i valenti poeti d'una parte
della Germania derivino la poesia applaudita nel loro paese. Cercarono essi con
somma cura di prevalersi di tutte le passioni, di tutte le opinioni, di tutti i
sentimenti de' loro compatriotti, e trovarono cosí argomenti che vincono
l'animo universalmente.
Facciamo lo stesso
anche noi. E la poesia italiana si arricchirá di nuove bellezze, talvolta
originali molto, e sempre caratteristiche del secolo in cui viviamo. Cosí
vedremo moltiplicarsi i soggetti moderni e riescir belli e graditi quanto il Filippo,
il Mattino, la Basvilliana e l'Ortis. E forse anche noi
conseguiremo scrittori di romanzi in prosa, tanto quanto i francesi, gli
inglesi e i tedeschi.
Figliuolo
carissimo, se tu hai ingegno, com'io spero, ti sarai pure accorto che fin qui
la lettera mia non fu che uno scherzo. La gravitá, con cui in questa tiritera
di commento ho affastellate tante stramberie, è una gravitá tolta a nolo; e la
costanza della ironia sbalza agli occhi di per sé. Ho voluto spassarmi a spese
de' novatori. Ma con te, figliuolo, con te la coscienza di padre mi grida ch'io
lasci le baie e mi metta finalmente sul serio.
Sappi dunque
che fuori d'Italia gli uomini vanno carpone in materia di letteratura. Sappi
che se tu, tralignando da' maestri tuoi, metterai naso ne' libri oltramontani,
finirai anche tu col muso al pavimento. Questo voler dividere i lavori della
poesia in due battaglioni, «classico» e «romantico», sa dell'eretico; ed è
appunto un trovato d'eretici; e non è, e non può essere, cosa buona, da che la Crusca
non ne fa menzione e neppure registra il vocabolo «romantico».
Tutti sanno
che in Inghilterra e in Germania non si coltiva da letterato veruno né la
lingua greca né la latina, e che non si ha contezza ivi degli scrittori di
Atene e di Roma se non per mezzo di traduzioni italiane. Separati cosí quasi
affatto dalla conoscenza de' capi d'opera dell'antichitá, come potevano quegli
infelici far poesie e non dare in ciampanelle? Poi vollero giustificare i loro
strafalcioni; e congiurarono co' loro fratelli filosofi, e tentarono la metafisica
e la logica e dettarono sistemi. Ma tutti insieme i congiurati diedero in nuove
ciampanelle, perché la metafisica e la logica sono piante che non allignano che
in Italia.
Figúrati che
arrivarono fino a dire quasi: che la religione cristiana ha resa piú malinconica
e piú meditativa la mente dell'uomo; ch'ella gli ha insegnato delle speranze e
de' timori ignoti in prima; che le passioni de' cristiani, quantunque rivolte a
oggetti esteriori, hanno pure una perpetua mischianza con qualche cosa di piú
intimo che non avevano quelle de' pagani; che in noi è frequente il contrasto
tra 'l desiderio e 'l dovere, tra l'intolleranza delle sventure e la
sommessione ai decreti del cielo; che i poeti nostri, per non riescire plagiari
gelati, bisogna che pongano mente a quelle tinte e dipingano oggi le passioni
con tratti diversi dagli antichi; e che e che, e cento altri «che» di tal
fatta, e miserabilissimi tutti. E davvero, a volere stramazzare quegli atleti,
basterebbe, a modo d'esempio, instituire, come noi lo possiamo far bene e non
essi, un paragone analitico tra Anacreonte e Tibullo da una parte, e 'l
Petrarca dall'altra, e dimostrare come i patimenti dei due primi innamorati
siano gli stessi stessissimi patimenti che travagliavano l'animo al Petrarca. E
chi non sente infatti che que' tre amori, per somiglianza tra di loro, sono
proprio tre gocciole d'acqua?
Alcuni
cervellini d'Italia che non sanno né di latino né di greco, lingue per essi
troppo ardue, vorrebbero menar superbia dell'avere imparate le lingue del nord,
che ognuno impara in due settimane, tanto sono facili. Però fanno eco a tutte
queste fandonie estetiche, che in fine non valgono né le pianelle pure di
Longino, non che il suo libro Del sublime, che è la maraviglia
dell'umano sapere. Il quale umano sapere non è mica progressivo e perfettibile,
come i fatti pertinacemente attestano; ma è sempre stato immobile, e non può di
sua natura patire incremento mai, per la gran ragione che «nil sub sole
novum». E questi cervellini battono poi le mani ad ogni frascheria che
viene di lontano, e corrono dietro a Shakespeare ed allo Schiller, come i
bamboli alle prime farfalle in cui si abbattono, perché non sanno che ve n'ha
di piú occhiute e di piú vaghe.
Ma viva Dio!
quello Shakespeare è un matto senza freno; traduce sul teatro gli uomini tal
quali sono, la vita umana tal quale è; lascia ch'entri in dialogo l'eroe col
becchino, il principe col sicario; cose che non sono permesse che agli eroi da
vero e non da scena. E invece di mandarti a fiamme l'anima con belle dissertazioni
politiche, con argomenti pro e contra, a modo de' nostri avvocati, egli ti pone
sott'occhio le virtú ed i vizi in azione: il che ti scema l'interesse e ti fa
tepido. Quello Schiller poi, se 'l paragoni, non dico con altri, ma col solo
Seneca, ti spira miseria.
A buon conto
gli stessi novatori, mentre si aguzzano alla disperata onde predicarne le lodi,
sono costretti dal coltello alla gola a confessare che le opere di Shakespeare
e dello Schiller, quantunque, come essi dicono, maravigliose in totale, non
vanno scevre di magagne, se si guarda separatamente alle parti. E s'ha a dire
bel libro di poesia quello che non può vantarsi incontaminato d'ogni menomo
peccato veniale? I grandi poeti dell'antichitá sono invece fiocchi sempre di
tutta neve immacolata.
Ed è poco
misfatto rispettare l'unitá d'azione, che è la meno importante, per dare un
calcio poi alle unitá di tempo e di luogo, che formano il cardine della nostra
fede drammatica, fuori della quale non v'ha salute? E noi dovremmo sorgere
ammiratori di ribaldi tanto sfrontati, noi pronepoti d'Orazio, del Vida e del
Menzini?
Era aforisma
che nel giro di ventiquattro ore, e nulla piú, dovesse andare ristretta
l'azione di un dramma. I meno puristi hanno spinta ora la tolleranza fino a
concederne altre dodici, purché ciò non passasse in esempio di nuove larghezze;
e basta cosí. L'uomo per virtú della illusione teatrale può arrivare a tanto
ch'egli persuada a se stesso d'essere vissuto trentasei ore, quando non ne ha
vissute che le poche tre per le quali dura lo spettacolo. Ma a un minuto di piú
la povera mente umana non regge colla sua immaginativa. L'esattezza del computo
non è da porsi in dubbio, poiché il Buon gusto egli medesimo, armato di gesso,
sedeva alla lavagna, disegnando: 36 = 3·
E la
illusione teatrale noi sappiamo essere la illusione di tutte le illusioni, la
magia per eccellenza; da che come due e due fanno quattro, cosí anche, ad onta
della veritá, è provato che dallo alzarsi fino al calar del sipario lo
spettatore si dimentica affatto di ogni sua occorrenza domestica, non sa piú
d'esser in teatro, giura ch'egli manda occhiate proprio nel Ceramico e nel
Partenone, e crede vere proprio le coltellate che si dánno gli eroi sul palco e
vero sangue quello che gronda dalle loro ferite.
Quanta sia
poi l'importanza della unitá di luogo, è da vedersi in quelle tante pagine che
in favore di lei avrebbe dovuto scrivere Aristotile. E il ribellarsi da
Aristotile, parlante o tacente ch'egli sia, sarebbe infamia.
Per decreto
de' «romantici» la mitologia antica vada tutta in perdizione. Ma pe' gorghi
Strimoni! questo ostracismo lascia egli sperare briciolo di ragionevolezza in
chi l'invoca? Perché rapirci ciò che ne tocca piú da vicino? E come prestar
venustá alla lirica, come vestire di veritá i concetti, di splendore le
immagini, senza Minerve, senza Giunoni, senza Mercuri, che pur sentiamo
apparire ogni notte, in ogni sogno, ad ogni fedel cristiano? come parlar di
guerre senza far sedere Bellona a cassetta d'un qualche coupé, senza
metterle in mano la briglia d'un paio di morellotti d'Andaluzia? E non è noto
forse, per deposizione di tutti i soldati reduci, com'anche a Waterloo quella
dea sia stata veduta correre su e giú pel campo, vestita di velluto nero, con
due pistole nere in cintura e con in testa un cappelletto nero all'inglese?
«Ut
pictura poësis». E ciò che concedete alla pittura lo avete a concedere
anche alla poesia, a dispetto della persuasione e delle dimostrazioni
irrefragabili del Lessing. E sapete perché? Perché lo ha detto chi poteva
dirlo, chi poteva con piena potestá comandarlo, chi aveva rubata al papa
l'infallibilitá, prima che il papa nascesse, Orazio
insomma. E zitti per caritá.
Non è
maraviglia poi se genti farnetiche, le quali mischiano psicologia fino nel
parlar di canzoni, vestono oggi il sacco del missionario, ed esclamano: - Voi,
italiani, avete un bel suolo, un bel cielo, una bella lingua; ma dei tesori
intellettuali, di cui va ricca oggimai tutta insieme l'Europa, voi non ne
possedete quanto certi altri popoli. Voi ci foste maestri un tempo; adesso non
piú. Alcuni tra voi coltivano bene le scienze fisiche e matematiche; ma di
buone lettere e di scienze morali voi di presente patite penuria, avendo troppo
poche persone eccellenti in questi generi. -
Noi dunque
penuriamo? Bravi davvero! Lasciamo stare che tutto quel poco che si sa fuori
d'Italia è tutto dono nostro. Lasciamo stare che noi potremmo comperare mezzo
il Mogol, se voi, stranieri, ci pagaste solamente un baiocco per ogni sonetto
stampato da venti anni in qua in Italia, e che noi per un baiocco l'uno
acconsentiremmo di vendervi. Lasciamo stare che da venti anni in qua noi
abbiamo immaginato libri tali di letteratura, da potere squadernarli sul viso a
qualunque detrattore, allorché ci risolveremo a comporli ed a svergognare il resto
d'Europa. Lasciamo stare che in Firenze e fuori di Firenze vi hanno giornali
che vegliano dí e notte alla vendetta, e che con brevi ma calzanti argomenti
rovinano i paralogismi e mandano scornata l'arroganza di chi ne minaccia
assalto; e quel che è proprio edificante, usando rispetto verso le persone,
decenza nei modi e galanteria fiorita coi rivali di sesso gentile: arti tutte
non praticate che in Italia, perché il Galateo è nato qui. Lasciamo
stare che le ingiurie de' nostri nimici, non appena scorsi diciannove anni da
che sono stampate, cosí calde calde noi le confutiamo: tanto è vero che in
Italia non si dorme! Lasciamo stare che da qui ad altri diciannove anni saremo
pronti a ripetere le osservazioni in lode dell'Italia che trovansi stampate ne'
libri di quegli stessi nemici e non leggonsi ne' libri nostri. Lasciamo stare,
dico, tutto questo. Sia pur vero l'ozio letterario di che ne si vuole
rimproverati. Ma che potete voi dire di piú lusinghiero per noi? Questo nostro
far nulla per le lettere non è egli il documento piú autentico della ricchezza
che n'abbiamo? Chi non ha rinomanza, stenti la sua vita per guadagnarsela. Chi
non ereditò patrimonio, sudi la vita sua a ragunarne uno. La letteratura
d'Italia è un pingue fedecommesso. Bella e fatta l'hanno trasmessa a noi i
padri nostri. Né ci stringe altro obbligo che di gridare ogni dí trenta volte i
nomi e la memoria de' fondatori del fedecommesso e di tramandarlo poi tal quale
a' figli nostri, perché ne godano l'usufrutto e il titolo in santa pace.
Però non ti
dia scandalo, figliuolo mio, se certi lilliputti nostrali, non trovando altro
modo a scuotersi giú dalle spalle l'oscuritá, si dánno a parteggiare nel seno
della cara patria, e ripetono per le contrade della cara patria la sentenza
universale d'Europa contro la cara patria nostra.
Oltrediché
questi degeneri figli dell'Italia oseranno anche susurrarti altre bestemmie
all'orecchio: come a dire, che la confessione de' propri difetti è indizio di
generositá d'animo; che il nasconderli quando sono giá palesi a tutti è viltá
ridicola; che il primo passo al far bene è il conoscere di aver fatto male; che
questa conoscenza valse a' francesi il secolo di Luigi decimoquarto, alla
Germania il secolo diciottesimo; e che in fine poi anche Dante, anche il
Petrarca e l'Ariosto e 'l Machiavello e l'Alfieri stimarono lecito lo scagliare
invettive amare contro l'Italia. Oibò! non è vero. Que' brutti passi11
furono malignamente inseriti nelle opere loro dagli editori oltramontani; e la
trufferia è manifesta. È egli credibile che gente italiana per la vita cadesse
in tanta empietá? Chiunque ama davvero la patria sua non cerca di migliorarne
la condizione. Chi tasta nel polso al fratello suo la febbre mortale, se ama
lui davvero, gliela tace; non gli consiglia farmaco mai né letto, e lo lascia
andar diritto al Creatore.
E tu,
allorché uscirai di collegio, preparati a dichiararti nemico d'ogni novitá; o
il mio viso non lo vedrai sereno unquanco. «Unquanco» dico; e questo solo
avverbio ti faccia fede che il vocabolario della Crusca io lo rispetto; comeché io, conciossiaché di piccola levatura uomo
io mi sia, a otta a otta mal mio grado pe' triboli fuorviato avere, e per tal
convenente io lui, avegna Dio che niente ne fosse, in non calere mettere parere
disconsentire non ardisca.
Per l'onor
tuo intanto e pel mio e per quello della patria nostra, ti scongiuro ad usar
bene del tempo. Però bell'e finito mandami presto quell'idillio in cui
introduci Menalca e Melibeo a cantare tuttaquanta, alla distesa, la genealogia
di Agamennone miceneo. La via della gloria ti sta aperta. Addio.
Il
tuo Grisostomo.
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