VI
Sulla «Storia della poesia e dell'eloquenza»
del Bouterweck17
I
Fra le molte
opere filosofiche e letterarie del signor Federigo Bouterweck18 non ci
pare la meno importante questa che annunziamo. L'autore ne mandò alle stampe il
primo volume l'anno 1801, e cosí via via gli altri fino al decimo, che uscí in
luce lo scorso anno e che ce ne promette per lo meno un altro ancora.
Quest'opera,
che contiene l'analisi di tutta la letteratura moderna dal risorgimento de'
buoni studi fino pressoché ai giorni presenti, meriterebbe una traduzione
italiana, specialmente per ciò che si riferisce a' popoli non italiani.
Le
letterature straniere non sono comunemente troppo conosciute in Italia, quantunque
pur tanto qui se ne parli da taluni o per lodarle o per biasimarle, secondo che
la moda od altri impulsi meno innocenti comandano. E l'opera di un filosofo,
che, netto d'ogni pregiudizio nazionale od individuale, consacra la propria
mente alla limpida contemplazione della veritá per solo amore di essa, e parla
del bello e del brutto che trovasi nelle varie letterature, investigandone
finamente le ragioni e spargendo ne' propri scritti gran copia de' lumi del suo
secolo, riescirebbe forse di non poco vantaggio all'Italia ed opportunissima
alla tendenza attuale della nostra civilizzazione.
Ne' tempi
addietro coloro, che in Italia conoscevano alcun poco la letteratura de' greci
e quella de' latini e la nostra, reputavansi dottissimi. Quindi que' dottissimi,
riposando tranquilli col sentimento della gloria giá facilmente ottenuta, non
pensavano mai a rivolgere i loro studi alle letterature moderne degli
oltramontani. O se taluno pur si degnava di concedere ad esse qualche ora di
ozio, lo faceva con sí tenue serietá, che piú che uno studiare era uno
scartabellare inconcludente. I pedanti avevano d'uopo di un uditorio che
tenesse alquanto del sempliciotto; e però andavano pascendo i padri nostri di
fandonie pastorali, di leziosaggini amorose vòte d'ogni senso d'amore, di
dicerie semierudite, e d'altre tali quisquiglie. E mentre proponevano
superbamente siffatte miserie o proprie o d'altrui siccome gran belle cose, ed
incitavano gl'italiani perché ne scrivessero di continuo, appena appena con una
sterile lode, messa loro sul labbro non dal sentimento ma dalla tradizione,
nominavano qualche volta le opere di Dante e del Machiavelli; e la sterilitá di
siffatte lodi, piú che ad altro, serviva ad allontanare da que' sublimi libri
gl'italiani. Poi gridavano e persuadevano che fuori di questa nostra
avventurata penisola la sapienza era poca, e poco il buon gusto a paragone del
tanto che regnava tra noi, e che inutil cosa era il por mente alle lettere
straniere. E gl'italiani, poco meno che tutti, stavano contenti al detto de'
pedanti, dal quale era magistralmente lusingata l'inerzia. Persuasione fatale
che di presente ancora esercita un resto del suo impero, mantenendo negli animi
d'alcuni un'ignoranza senza rimorsi, una cieca avversione a tutto ciò che sanno
non esser frutto del suolo d'Italia.
L'amore della
patria, questo carissimo affetto, che pure è figliuolo sempre della virtú, fu
per maligna destrezza de' pedanti spogliato del bel candore della sua innocenza
ed accoppiato all'odio d'altrui, turpissimo de' vizi sociali. Confuse per tal
maniera le ragioni delle cose presso il popolo, che non sa far distinzioni ogni
tratto, e presso coloro che per interesse privato non le vogliono fare,
l'Italia rimase gran pezza come separata dal resto de' viventi. E que' pochi
che osavano far parola della comoditá di allargare i confini della nostra
dottrina, rinforzando gli studi patri colla conoscenza degli studi
stranieri19, erano accusati come nemici dell'onore italiano, o per lo
meno derisi e respinti nel silenzio della lor solitudine.
Ma i pedanti
hanno un bel fare: lo spirito umano cammina sempre, e ad essi manca la forza
per rattenerlo. Nell'ultima metá del secolo scorso il regno di quelle signorie
cominciò anche tra noi a dare un crollo e ad inclinarsi verso la sua fiera
catastrofe. Gli studi pigliarono voga maggiore per molte cagioni che non
occorre di annoverare, ma specialmente per questa: che, a misura che veniva
cadendo di mano a' frati l'istruzione della gioventú, il perpetuare ne' popoli
l'insipienza, e con essa la timida subordinazione, cessava d'essere il fine
unico a cui mirassero le intenzioni de' precettori. Quelle tra le opere de'
greci e de' latini, che sono ricche di bellezze permanenti, furono gustate
assai piú, perché spiegate con intelligenza meno superficiale. Per lo contrario
i pedissequi imitatori di esse vennero perdendo sempre piú di credito, secondo
che piú s'imparava a separare l'opportunitá dell'ammirazione dall'opportunitá
dell'imitazione. Alle arcadiche fanciullaggini sottentrarono l'entusiasmo per
Dante e per l'Ariosto e la ricerca di libri che inducessero a meditazione.
Alcuni barlumi di una filosofia psicologico-letteraria fecero sospettare che vi
avesse un tipo perpetuo ed universale del bello poetico, indipendentemente
dalle opinioni municipali e dalle leggi e tradizioni scolastiche,
indipendentemente dai soli fiori della locuzione. Si sentí la necessitá
d'investigare l'essenza di questo tipo perpetuo; ma lo spirito analitico non
era ancora lo spirito de' tempi. Però intanto si cercò di guadagnar cognizioni.
E la mente degli italiani, irrequieta tra l'ignoranza e la volontá di sapere,
si volse ovunque per ottenerle. Allora gli stranieri principiarono a diventar
meno stranieri per noi; e vari de' nostri, smettendo la ruggine antica, si
affratellarono qualche poco con essi anche a viso scoperto. Cosí, secondando la
nuova inclinazione degl'italiani, vedemmo comparire in Italia frequenti
traduzioni di poesie e prose oltramontane; e vedemmo ben anche alcuni dei
nostri dotti pubblicare storie, dissertazioni, discorsi intorno alle
letterature delle diverse nazioni d'Europa.
Senz'animo di
voler detrarre un minimo iota alla gratitudine che possano meritare tali
fatiche, massimamente le tante e sí lunghe dell'Andrés20, noi portiamo opinione
che all'Italia manchi tuttavia un libro d'autore italiano sufficiente a darle
un'idea compita dell'origine, de' progressi e dello stato presente delle
lettere presso l'una o l'altra delle nazioni straniere, e che, per averne
qualche esatta contezza, le bisogni cercarla fuori di casa. Gli scrittori
nostri, che fino a questi ultimi anni ne parlarono, ci sembrano non abbastanza
provveduti d'idee estetiche elementari: quindi non abbastanza franchi e
risoluti nella scelta del bello, e spesse volte piú encomiatori imprudenti che
critici pacati; o, se a quando a quando censori, uomini pressoché sempre di
corta veduta. D'altronde lo studio dell'uomo e di tutte le sue relazioni col
passato e col futuro non era ancora, a quel che pare, lo studio favorito per essi.
La strettezza de' vincoli che congiungono sempre le lettere alle opinioni
politiche, religiose e morali, a tutta insomma la civilizzazione dei popoli,
era tuttavia un mistero in Italia. E però eglino consideravano i libri de'
poeti e de' prosatori piú come semplici azioni individuali che come espressioni
della qualitá de' secoli, piú come un lusso lodevole delle nazioni che come un
bisogno perpetuo dell'uomo sociale; bisogno che rinascerebbe pur sempre di per
sé, se anche venissero meno ad un tratto tutti gli esempi della preesistenza di
esso ne' popoli antichi. Quegli scritori, partendo sempre da princípi derivati
da una critica o municipale o provinciale o tutto al piú nazionale, credettero
di poter sottoporre ad esame l'Europa intera. Ed eglino pure, a simiglianza de'
loro antenati, andarono rintracciando il bello quasi sempre negli accidenti
esteriori della spiegazione de' concetti e della dizione, fermandosi, per cosí
dire, sul limitare di un edificio a dar giudizio intero di tutto il complesso della
sua bontá.
Non possiamo
negare che in fatto di letterature moderne straniere il Cesarotti vide talvolta
piú addentro d'ogni altro suo contemporaneo italiano. Nato piú per esser
filosofo che per esser poeta e libero di molti pregiudizi, il Cesarotti avrebbe
potuto riformare assai tra di noi l'arte critica, se si fosse dato a studi piú
profondi. Ma quella sua facile coscienza, che tratto tratto lo faceva andar
pago di cognizioni superficiali e che gli guastò il capo per modo da non
lasciargli intendere il vero spirito di Omero, lo riscaldò alcuna volta come di
un furore d'ammirazione, inopportuno alla filosofia, da farlo parere ne' suoi
giudizi persona avventata e parziale. Ad ogni modo, dovendo noi per amore di
brevitá tacere qui molti nomi di scrittori italiani, credemmo di dover fare
questa breve menzione separata del Cesarotti, onde apparisca che, quantunque
non troppo fautori del suo ingegno poetico, noi riconosciamo in lui,
comparativamente a' tempi, un ingegno filosofico non comune.
Ma se
null'altro di bene avessero procurato all'Italia tutti insieme gli scrittori
de' quali parliamo, di questo certamente vogliono essere lodati: che furono i
primi a fiaccare l'odio italiano verso le letterature straniere e prepararono
qui la via a trionfi maggiori della ragione.
E infatti i
progressi generali del sapere umano e le recenti vicende politiche insegnarono
finalmente anche al maggior numero degli italiani che i popoli attuali d'Europa
non formano oggimai altro che una sola famiglia di tutti fratelli; insegnarono
che l'essere questi talvolta aizzati gli uni contra gli altri non è opera del
loro vero interesse generale, ma sí bene della preponderanza di passioni
individuali, e che la ferocia delle ire tra nazione e nazione, per produrre la
contentezza di un tre o quattro uomini, bisogna che ne rovini un tre o quattro
milioni, rinforzata l'idea giá detta da secoli che, se i popoli riescono
alquanto diversi tra di essi per ragione di lievi accidenti, sono nondimeno
fratelli davvero per ragione di origine e per l'uniformitá de' loro diritti e
de' loro bisogni massimi; insegnarono quali sieno i nostri diritti e quali i
nostri bisogni presenti; insegnarono che l'odiarsi a vicenda de' popoli è uno
dei difetti piú deplorabili dell'umanitá. Difetto che parve perdere alquanto
della sua turpitudine agli occhi di taluni, perché lo videro scendere a noi per
via di scolastica tradizione insieme ad alcune altre venerate ribalderie degli
antichi. Le mire a cui tendono i popoli attuali d'Europa sono in tutti le
medesime, e ciascuno di essi può conseguire i propri desidèri senza nuocere a'
desidèri dell'altro. Perché dunque con ributtante fierezza sdegnare di
consigliarsi a vicenda? L'amore della patria è santissimo ora come lo fu
sempre. Ma esso consiste nel desiderare operosamente la felicitá, non nella
ostentazione di riti meramente verbali. E i mezzi di conseguire tale felicitá
variano col variare delle circostanze. Ai romani, illusi dall'orgoglio e
dall'avarizia, una via di felicitá parve lo sprezzar gli altri popoli e il conquistarli.
L'esperienza ha mostrato purtroppo che la smania delle conquiste ne' popoli
moderni è una fonte tremenda di sciagure non solo pei conquistati ma ben anche
sovente pe' conquistatori, e che da tutt'altri principi dipende ora la bella o
la trista fortuna de' popoli.
Noi non
pretendiamo di dire che la letteratura sia l'unica guida che possa condurre i
popoli alla prosperitá. Persuasi nondimeno ch'essa vi contribuisca non poco,
crediamo fermamente d'altronde di dovere in essa ravvisare la spia piú veridica
del grado di civilizzazione ne' popoli, e quindi il termometro della loro
maggiore o minore prossimitá alla perfezione del vivere sociale. E siccome a
noi italiani importa assai di sapere a quanti passi sieno verso una tale
perfezione i nostri confratelli europei, onde precorrerli nella carriera che
tutti battono o per lo meno non rimanere gli ultimi, cosí dobbiamo confortarci
l'un l'altro allo studio delle letterature straniere, non tanto, se cosí
vuolsi, per necessitá estetica quanto per necessitá politica.
Il signor
Bouterweck, siccome filosofo ch'egli è, considera la poesia, e con essa anche
la eloquenza, siccome cose inerentissime sempre alla vita umana. Quindi non
solamente va investigando nelle vicissitudini politiche e morali le cagioni
fortuite dell'incremento e della decadenza degli studi; ma di un sol guardo
contempla tutto il complesso della civilizzazione de' secoli; e, conosciutone
lo spirito, si volge ad analizzare lo spirito delle loro letterature, e ti fa
scoprire con evidenza lucidissima tutte le affinitá che corrono tra l'uno
spirito e l'altro.
Le opinioni
letterarie che l'illustre autore manifesta in quest'opera, massimamente ne'
discorsi premessi alle varie letterature ed alle varie epoche di esse, ci
sembrano quasi sempre derivate da quella franca persuasione che è frutto
dell'intima conoscenza delle cose. Egli ci pare accostarsi assai a quel grado
di robustezza intellettuale che la crescente sapienza de' tempi vuole in un
critico. Da tutto insieme il suo libro si viene a raccogliere con quanta
finezza d'accorgimento il signor Bouterweck studiasse la natura dell'uomo,
tutte le relazioni di esso coll'universo, poi la storia non tanto delle
famiglie dei principi quanto della gran famiglia europea, poi tutti gli
accidenti intellettuali che moderano l'umana sensibilitáa,
tutte le modificazioni del gusto, tutte le teorie del bello d'imitazione e del
bello ideale, tutte fin anche le regole de' retori e dei trattatisti poetici,
sieno o no giovevoli all'estetica perfezione.
Nessuno, per
altro, tema di rinvenire in quest'opera del signor Bouterweck alcun tratto di
quella filosofia che or chiamasi «trascendentale», e che colla sua oscuritá
reca fastidio ad ogni lettore che non sia metafisico consumato nelle piú
astratte speculazioni germaniche. Egli stesso l'autore rinunziò spontaneamente
ad alcune poche idee trascendentali che avrebbero potuto essergli utili,
affinché nel suo libro non campeggiasse che quella filosofia che è piana per
tutti coloro che non sono affatto inezie ambulanti ed articolanti la voce.
Ad onta di
tutto questo, noi saremmo poco pratichi del nostro paese se non prevedessimo
che, ove la storia che annunziamo venisse tradotta in italiano, a certe poche
persone sembrerebbero nuove troppo alcune delle opinioni letterarie del signor
Bouterweck, e per ciò solo meritevole di disprezzo tutto il suo libro. Lo
sperar tolleranza in animi irrigiditi da un'antiquata presunzione forse è uno
sperar ciriegie il gennaio: tuttavolta a certe poche persone noi crediamo di
dover gittare questa parola di propiziazione: - Usate tolleranza, o signori; e
se non vi spiace, imparatela da noi medesimi. Noi crediamo che la storia
letteraria del signor Bouterweck sia in totale un libro buono davvero. E
nondimeno protestiamo noi stessi che a quando a quando trovammo in esso alcune
coserelle che non ci andarono a genio interamente. Alcune distinzioni ci
riescirono non troppo chiare e precise; alcune applicazioni delle teorie a'
fatti non forse esattissimamente concordi a' princípi generali professati
dall'autore. Ma perché il buono di quel libro è sí esuberante, e i libri
vogliono essere giudicati in totale, noi stiamo fermi alle lodi ed alla
tolleranza di poche minuzie meno lodevoli. Ed in questa tolleranza ci rinfranca
il pensare a' limiti della mente umana, alla vastitá dell'impresa del signor
Bouterweck, ed a questo: che, nel poco dissentire che noi facciamo
dall'illustre autore, potrebbe anche essere che il torto stesse con noi e non
con lui. E però anche voi, o signori, che assai ottime dottrine troverete di certo
nel libro di che parliamo e, se non fosse altro, vi sentirete lusingati dalle
molte lodi che l'autore tributa a' poeti d'Italia, ricordatevi della tolleranza
nostra od almeno dell'«ubi plura nitent» ecc. di Orazio. Ed a questa
sentenza aggiungete un'altra considerazione che non è dettata da Orazio, ma che
non è per questo men vera; ed eccola. Molte e molte cose, che a voi sembreranno
novitá, hanno pur giá molto del vecchio presso la maggior parte dei dotti di
Europa.
II
Un'opera di
tanta vastitá quanta ne comprende quella del signor Bouterweck aveva bisogno di
venir divisa in vari scompartimenti, onde non riescire un caos da sconfortare
l'attenzione de' lettori. Il voler tentare di ridurre in un sol quadro storico
i sincroni andamenti dello spirito estetico, ossia del gusto, di tutta la
moderna Europa, pigliando a considerarlo unicamente per ordine di tempo e non
per ordine di lingue, sarebbe stato un intendimento piú pomposo che
profittevole. E però l'autore preferí di procacciar de' riposi alla mente de'
suoi lettori, e di parlare separatamente di ciascuna delle letterature moderne,
continuando di ciascuna separatamente la storia da' primordi di essa fino agli
anni piú vicini a noi. Tenendo questo metodo, egli mostra per altro di non
dimenticarsi mai del complesso della storia europea, e di giovarsi spesso di
quelle idee che possono opportunamente venir suggerite dalla conoscenza delle
relazioni che esistono tra la storia parziale di un popolo e la generale degli
uomini d'Europa.
Egli
incomincia la sua rivista dalla letteratura italiana, poi trapassa alla
spagnuola ed alla portoghese, poi alla francese, poi all'inglese e finalmente
alla tedesca. Cosí veniamo ad avere un tutto abbastanza connesso, ed in certa
qual maniera disposto con successione cronologica; da che sa ognuno che le
epoche piú belle e piú memorabili delle nuove letterature tengono dietro l'una
all'altra, per ragione di tempo, coll'ordine pressoché sempre medesimo con cui
l'autore dispone nella sua rivista le nazioni letterate delle quali va
parlando.
Per non
allargare di troppo il nostro lavoro su quest'opera del signor Bouterweck, noi
per ora non intendiamo di far parola che de' soli due primi volumi contenenti
la storia della letteratura d'Italia. Ma siccome ci par conveniente che tu
abbia in prima, o lettore, un qualche indizio del modo di pensare del nostro
autore, cosí abbiamo creduto di dover tenere per un terzo articolo (e per ora
sará l'ultimo) quei due volumi, e di darti qui alcun cenno del discorso ch'egli
fa precedere come introduzione generale a tutta la letteratura moderna. Per
veritá avremmo amato di riportar per intero una traduzione di quel discorso;
ma, comparativamente alla poca pazienza d'un lettor di giornale, lo credemmo
troppo lungo. Lo strignerlo in un esatto compendio era impossibile, perché,
pieno zeppo com'è d'idee importanti, ha giá per se stesso un andamento
rapidissimo. E però contèntati, o lettore, di quel che faremo. E vaglia a
raccomandarti la lettura di questo secondo articolo il sapere che nel cenno presente
non abbiamo mischiata alcuna idea nostra a quelle del signor Bouterweck. Sta'
dunque attento a lui e non a noi.
Allorché lo
spirito umano - cosí principia il discorso suddetto - si risvegliò in Europa
all'epoca dalla quale incomincia la storia moderna21, ed assunse nuova
attitudine operosa, non rimaneva piú che una traccia oscura della
civilizzazione greca e romana. Tutte le circostanze erano cambiate. Nuovi
uomini adoravano nuove divinitá. Con nuove regole i potenti regnavano, i
sudditi obbedivano. Nuove lingue, nuove opinioni, nuovi costumi; nuovo insomma
il mondo morale e tutto diverso da quel di prima.
Tale novitá
d'ogni cosa doveva necessariamente dare una nuova impronta, un nuovo carattere
alle opere del genio moderno.
Qui il signor
Bouterweck viene dimostrando come questo nuovo carattere, piú che nelle altre
arti, dovesse scorgersi manifestamente in quelle che per loro mezzo di
rappresentazione servonsi della parola. E detto come le opere de' poeti e de'
prosatori sieno in certa qual maniera l'ultimo risultato del carattere
nazionale, della coltura intellettuale e del modo di pensare di tutto quel
popolo, nella lingua del quale lo scrittore rivela i propri pensieri,
stabilisce il principio fondamentale della sua critica colle seguenti parole:
«Per potere esattamente apprezzare il merito dei moderni per rispetto alle
lettere, fa d'uopo richiamarci prima alla memoria tutte le circostanze
religiose, civili e letterarie, per le quali i tempi che vennero dopo il
risorgimento delle arti riescono tanto differenti dalla classica antichitá.
Intendendo in tutta la sua estensione lo spirito dei nuovi tempi, e pigliando
da questo punto di vista a contemplare le qualitá caratteristiche della
letteratura moderna, si corre meno rischio di sagrificare il vero merito a'
capricci di una critica ostinatamente vana».
Procede
quindi il discorso ad analizzare le differenze massime che corrono tra la nuova
civilizzazione e l'antica, considerandole unicamente nelle loro relazioni colle
arti, ed in ispecial modo colla poesia.
I. - E prima
di tutto l'autore parla del cristianesimo e del paganesimo e confronta l'una
con l'altra le due religioni, esaminando in che la nuova riuscisse di vantaggio
a' poeti, in che svantaggiosa. Il cristianesimo angustiò sommamente la libertá
fantastica de' poeti a paragone della religione dei gentili, che non aveva un
fondatore, non dogmi scritti, non regole di fede, ma, figlia tutta della
immaginazione e del caso, lasciava a' greci la facoltá di adornarla tratto
tratto di nuove storie e di nuove fantasie. Quella religione, a ben
considerarla, era una continua poesia; e la poesia de' greci era pressoché
sempre l'espressione d'un sentimento religioso.
Ma allorché
il paganesimo cessò d'essere la religione dei popoli d'Europa, ed i poeti
pensarono di temperare nelle loro opere l'austeritá della religione cristiana
coll'introdurre in esse l'antica mitologia, scomparve l'incantesimo di quel
sentimento religioso che le dava vita ne' canti dei greci; e le immagini
mitologiche ne' canti de' moderni non divennero altro che fredde allegorie,
prive d'ogni spontanea inspirazione. Cosí Amore, terribile dio a cui i greci
con sinceritá di cuore mandavano voti e preghiere, nelle poesie de' moderni
diventò un fantastico garzoncello, freddo emblema d'un sentimento; e cosí tutti
gli dèi dell'Olimpo non riuscirono altro che figure poetiche. Né solamente
scomparve il sentimento religioso, ma cessò ben anche la illusione poetica.
Quando Pindaro nelle sue odi invoca Giove ed Ercole, la sua espressione è per
se stessa naturale e piena di seria maestá. Ma quando un lirico moderno rivolge
l'apostrofe a un nume greco, egli può vestirla quanto piú vuole di parole
serie, può renderla patetica quanto piú sa, la sua invocazione è sempre una
invocazione da burla e non da senno. Noi lettori supponiamo, è vero, e troviamo
conveniente che il poeta lirico alla pittura de' propri sentimenti venga
mischiando quella altresí delle illusioni ch'egli scientemente fa a se stesso.
Ma ch'egli abbia potuto farsi tanta illusione da credere sul serio, comunque
momentaneamente, negli dèi che viene invocando, noi nol pensiamo mai, da che
istoricamente siamo persuasi in contrario. Se dunque il poeta moderno invoca
sul serio gli dèi antichi, egli offende la veritá poetica e guasta l'effetto
delle sue pitture medesime.
Dopo
d'essersi spaziato alquanto intorno a siffatto argomento, dimostrando quanto la
mitologia degli antichi, come religione viva, fosse opportuna alla poesia e
quanto i poeti moderni perdessero di sussidio colla perdita di essa, che piú
altro non parve che una fredda erudizione, il signor Bouterweck passa a dire
come e perché l'uso delle immagini mitologiche rimanesse pur tuttavia
conveniente a' pittori ed agli scultori. Poi, tornando al paragone tra le due
religioni per riguardo alla poesia, viene a dire quanto questa
coll'introduzione del cristianesimo guadagnasse dal lato del sublime; e come
acquistasse di poi un nuovo maraviglioso, assumendo le tradizioni favolose
delle magie, delle fate, dei giganti, ecc. ecc., che i crociati riportarono in
Europa dall'Oriente e gli spagnuoli acquistarono dagli arabi, e che per lunghi
secoli divennero tra gli europei oggetto di superstiziosa credenza, per la
facilitá con cui i popoli potevano confonderli cogli angeli e co' demòni, ecc.
ecc. Investigate le ragioni per le quali questo nuovo maraviglioso riescí piú
conforme allo spirito de' tempi di quello non fosse l'altro derivato dalle
favole greche, rinforza i propri raziocini coll'esempio dell'Ariosto e del
Tasso, i poemi de' quali non sarebbero forse che languide copie delle Metamorfosi
d'Ovidio e della Tebaide, ove quegli autori avessero derivata dal mondo
favoloso degli antichi la loro poesia.
II. -
Dall'analisi della religione l'autore procede a quella della vita sociale; e
parla, piú che d'altro, dello spirito cavalleresco per la tanta influenza
ch'ebbe sulla poesia moderna. In quanto al coraggio ed al valore, i cavalieri
somigliano agli eroi dell'antichitá. La propensione al cercare avventure neppur
essa mancava agli eroi della Grecia. La spedizione degli argonauti e piú ancora
quella contro de' troiani furono «avventure», pigliando anche il vocabolo in
tutta l'estensione del suo significato. Medea ed Elena, l'una sciogliendo,
l'altra intricando il nodo degli accidenti, sono da paragonarsi in certa qual
maniera alle dame de' poemi cavallereschi. Ma ciò che costituisce un'immensa
differenza tra gli eroi antichi ed i cavalieri è l'importanza che gli ultimi
attribuirono alle donne; importanza che, sconosciuta affatto a' greci ed a'
latini per ragione de' loro costumi nazionali, è appunto il movente
caratteristico della poesia moderna.
Qui l'autore
crede di avere ragioni sufficienti per potere distruggere l'opinione di coloro
che fanno derivare dall'Oriente il costume, ne' paladini e ne' nuovi popoli europei,
di divinizzare le donne e di ridurre a culto i voti dell'amore. Nelle fredde
foreste, dic'egli, dell'antica Germania, e non nei deserti dell'Arabia, dove un
sole cocentissimo converte in concupiscenza ogni desiderio, noi dobbiamo
cercare l'origine prima della mistica idea dell'amore casto dell'uomo verso la
donna. Gran tempo ancora prima che vi s'introducesse il cristianesimo, le donne
erano nella Germania sommamente onorate; e intanto che gli altri popoli rozzi
consideravanle come enti inferiori all'uomo, il ruvido germano vedeva in esse
qualche cosa di santo, ecc. ecc.22.
Né presso i
greci né presso i latini troviamo indizio alcuno di tanto ossequio alle donne.
Ben è vero che né i greci né i latini le trattavano col vilipendio con cui le trattano
i sultani. Le madri di famiglia erano onorate dentro le mura domestiche; vi
avevano vergini consacrate al culto di caste divinitá; alle pubbliche feste
intervenivano anche le matrone. Ma ne' costumi di Grecia e di Roma non appare
la menoma orma di alcun omaggio particolare, tributato dall'uomo alla donna
siccome obbligo della condizione virile; non la menoma idea esagerata e
fantastica della innata eccellenza del sesso femminino.
Siffatte idee
vennero primamente da' germani, che occuparono quella parte dell'impero romano
dove in appresso si sviluppò lo spirito cavalleresco. La religione cristiana
contribuí fors'anche a mantenerle, favorendo in tutta l'Europa l'emancipazione
civile delle donne. Molti secoli, a dir vero, corsero in mezzo tra tale emancipazione
e l'epoca in cui surse lo spirito cavalleresco. Ma se la condizione delle donne
non avesse incontrato questo mutamento civile e questa miglior fortuna nella
opinione degli uomini, noi non avremmo poesia cavalleresca; ed in generale la
poesia de' moderni non avrebbe conseguito quella tinta che piú la rende
originale.
Pieno il
cuore umano della nuova venerazione verso il bel sesso, diede vita a nuove
immagini ed a nuovi sentimenti coi canti d'amore. E cosí via via perpetuandosi ne'
popoli le idee delle nuove relazioni morali tra' due sessi, venne perpetuandosi
infino a noi nella poesia una cert'aura di gentilezza cavalleresca, che invano
ricercasi nelle poesie de' greci e de' romani, perché non potevano averla.
La poesia
moderna può dirsi figlia dell'amore, da che, piú che dalle tradizioni religiose
ed istoriche, emerse dal nuovo sentimento amoroso. Un entusiasmo, ignoto a'
greci, trasformò il rispetto col quale i germani giá da gran tempo nelle lor
selve onoravano le donne, in una estetica deificazione della beltá femminina.
Non solamente l'avere in riverenza le donne amate, ma il servire ad esse
siccome ad enti superiori, l'ammirarle nell'estasi dell'amore siccome angeli,
il cedere ad esse ovunque la precedenza in confronto degli uomini,
l'innamorarsi non meno delle loro virtú che delle loro leggiadrie,
l'inginocchiarsi innanzi ad esse e 'l giurar loro fedeltá come il vassallo la
giurava al suo signore, il riporre l'amante tutta la sua fortuna nelle mani
dell'amata, l'obbedire ad essa ciecamente, il correre ad un cenno di lei colla
gioia del trionfo incontro a pericoli mortali, ecc. ecc.; ecco lo spirito
cavalleresco, diverso assai dallo spirito eroico degli antichi; ed ecco piú o
meno lo spirito della poesia moderna, che è quanto dire della moderna
civilizzazione per rispetto alle donne.
Un
ghiribizzo, una chimera mostruosa parrebbe forse ad un greco redivivo questo
culto, questo omaggio de' moderni per le donne. Né mancherebbe forse a' di
nostri un qualche riformatore pedante che s'accosterebbe alla sentenza del
redivivo. Il signor Bouterweck per altro con validissime ragioni viene
difendendo la devozione de' moderni per le donne, siccome consentanea alla
nobiltá e dignitá dell'anima umana. Poi, adducendo gli esempi de' trovatori di
Francia, di Spagna e d'Italia, dimostra come la passione dell'amore,
ringentilita di tanto presso i nuovi popoli, fosse la prima inspirazione de'
poeti. L'amore infiammò l'anima di Dante, e la presenza e la memoria della sua
Beatrice furono gli eccitamenti del suo ingegno. Lo stesso avvenne al Petrarca
colla sua Laura. Il Boiardo, il Pulci, l'Ariosto, il Tasso, ecc. ecc., quanto
non si compiacquero tutti de' nuovi sentimenti amorosi! E cosí di mano in mano
questa passione, modificata di tutt'altra maniera che nell'anime degli antichi,
prevalse in tutti i poeti d'Europa e svegliò un interesse nuovo, che divenne il
predominante nelle dilettazioni poetiche. Per tal modo la totale rivoluzione
del gusto operata dalla poesia cavalleresca si mantenne tuttavia giú fino a' dí
nostri, ad onta degli studi fatti sulle opere antiche; e par verisimile che
durerá perpetua. Come non è da credersi che i nostri discendenti tornino mai ad
adorare gli dèi dell'Olimpo, cosí non lo è pure che il gusto dominante si
diparta mai da questa idea nobilitata dell'amore, se prima gli uomini non
ricadono in una rozzezza generale.
Insieme a
questa idea nobilitata dell'amore emerse pe' poeti moderni, specialmente di
Francia, d'Inghilterra e di Germania, una nuova luce; da che i nuovi popoli,
vantaggiando piú e piú sempre nella cognizione del cuore umano, poterono
chiamare in soccorso della poesia mille e mille veritá psicologiche, intorno
alle quali nel mondo antico appena alcuni pochi filosofi s'erano occupati. Cosí
le passioni umane analizzate piú profondamente somministrarono nuove
modificazioni d'accidenti e tinte piú risentite a' poeti; e l'Europa ebbe
Shakespeare.
L'amore
delicato e casto si associò facilmente coi sentimenti religiosi. Quanto ad un
greco non sembrerebbe, anche per questo lato, incomprensibile il nuovo gusto!
Eppure illustri filosofi hanno osservato che nel naturale entusiasmo dell'amore
v'ha qualche cosa di religioso. Bastava dunque che i sentimenti amorosi
venissero ad incontrarsi co' religiosi, perché da questi misteri del cuore la
fantasia poetica derivasse assai novitá. Negli amori di Dante per Beatrice, in
quei del Petrarca per Laura, noi vediamo un misto perpetuo di raffinamenti, di
galanterie, di pensieri religiosi, di timori, di speranze, di rimorsi, che
formano un complesso caratteristico della nuova passione.
III. - Il
terzo contrassegno originale della poesia moderna è una certa quale tintura,
piú o meno appariscente, di vera o falsa erudizione.
Lo scopo
immediato della poesia non è giá l'interesse scientifico, bensi l'interesse
estetico. L'erudizione, siccome non forma il poeta, cosí non può essere per se
stessa argomento immediato di poesia. Giova l'erudizione al poeta per
ampliargli la potenza intellettuale e rendergli piú franca e piú ardita la
concezione delle immagini. Ma s'egli veste a dirittura la propria erudizione di
forme poetiche, declina interamente dal fine dell'arte sua.
I trovatori,
i quali furono anteriori di tempo ai poeti propriamente moderni, per buona
fortuna non furono eruditi. A simiglianza de' rapsodi della Grecia, eglino non
servirono ad altro che al bisogno d'una poesia nazionale. La quantitá delle
loro idee era pressoché uguale a quella delle idee de' loro contemporanei, cioè
a dire angusta. L'erudizione rimase per molto tempo ignota al popolo, e,
confinata nelle biblioteche de' chiostri, ivi pure, insieme ad ogni scienza,
quasi onninamente dormiva. Ma allorché nel mille e trecento i popoli cercarono
una piú ampia sfera d'idee, ed ebbero voga le sottigliezze teologiche, e si
scopersero i libri d'Aristotile, e la filosofia scolastica fu la moda de'
tempi, i poeti si volsero anch'essi a coltivare le cognizioni scientifiche che
scaturivano dalle cattedre e dalle biblioteche, ed i loro canti cominciarono a
pigliare un certo qual sentore di lucerna, e lo ritennero per alcuni secoli
successivi.
Al
principiare del mille e cinquecento il buon senso sbandí dalla poesia la
filosofia scolastica; ma la educazione de' poeti serbò la sua tendenza erudita
e di scolastica diventò pedantesca, ed ebbe, come tale, influenza sull'opere
loro. Lo studio delle lingue morte e de' libri antichi modellò l'intelletto de'
poeti in gran parte secondo lo spirito della antica civilizzazione. Arricchiti
di ricordanze erudite, eglino si lasciarono sedurre dalla vanagloria che
suggeriva loro di far pompa degli studi fatti; e secondo che quelle ricordanze
piú venivano mischiandosi col naturale sentimento poetico, i componimenti loro
diventarono uno screzio di cento colori. Per quanto nuovo e tutto patrio fosse
il soggetto delle loro poesie, eglino non si fecero scrupolo d'innestarvi la
mitologia antica, e sovente uomini d'altissimo ingegno si compiacquero d'un
miscuglio sí strano come di una rara bellezza. Durò lungo tempo e dura ancor
tuttavia in Italia, in Ispagna ed in Francia una moda siffatta.
Oltrediché,
in tutta la storia della poesia moderna scorgesi manifestissimo l'impero
assoluto della critica. Aristotile divenne il legislatore de' poeti, siccome lo
era de' filosofi e de' teologi. E come se per mala ventura quel sovrano
intelletto, che forse da altro filosofo mai non fu superato, fosse proprio
predestinato ad essere il seminator di zizanie ed a travolger le menti ch'egli
intendeva d'illuminare, anche il suo bel libro della Poetica represse la
libertá intellettuale de' poeti e guastò il gusto; nella guisa medesima che la
sua Logica e la sua Metafisica protrassero di tanto il sonno
d'ogni vero sapere. Per potere intendere Aristotile, bisogna aver prima intese
di per se stessi le vere bellezze intime de' poeti greci, allo spirito delle
quali si riferiscono tutte le regole aristoteliche. Ma a questo non si pose
mente. E tutti si attennero secondo la lettera alla Poetica
d'Aristotile, commentandone ed interpretandone le osservazioni estetiche
siccome leggi del codice di Giustiniano. E non vi fu pur uno che domandasse al
proprio ingegno: - Questo medesimo Aristotile, risuscitando ora, continuerebbe
cosí, o piuttosto non iscriverebbe egli per le nazioni moderne tutt'altra
poetica? -.
Assuefattisi
nelle scuole i poeti a compiacersi nelle erudizioni, e a derivare le loro
immagini piú dalla lettura de' libri che dall'esame della vita e de' costumi
de' loro contemporanei, ecco riescire piú e piú sempre oscuri i loro
componimenti all'universale de' lettori, ecco il bisogno d'illustrarli di
lunghe note, mettendo a profitto una mezza biblioteca, ed ecco nuove occasioni
predilette di sfoggiare erudizione: intendimento che non ebbero mai i poeti
greci, perché, mirando allo scopo massimo dell'arte, cantavano cose note al
popolo, e volevano esser poeti e non altro.
III
Noi abbiamo
in Italia storie della nostra letteratura quante ne vogliamo. Il Crescimbeni,
il Quadrio, il Fontanini ed altri ci furono prodighi di notizie biografiche e
bibliografiche intorno ai sommi, ai mediocri, agli infimi scrittori italiani,
sicché non vi ha curiositá che vinca la lor profusione. Ma se pei padri nostri
potevano bastare quelle congerie di notizie pressoché nude d'ogni filosofia,
non bastano ora piú per noi: da che i progressi dello spirito umano non ci
permettono piú di regalare la nostra attenzione alla sola pazientissima flemma
d'un raccoglitor di memorie; e studi piú importanti hanno svegliato ora in noi
una tendenza filosofica, costantemente operosa, la quale ci fa vogliosi di
conoscere, piú che le cose, le cagioni di esse. Non vuolsi per altro far troppo
delitto a' padri nostri della facile loro contentatura. La colpa era non di
essi ma de' tempi, diversi assai, come giá dicemmo, per mille ragioni politiche
da' presenti, nella stessa guisa che diversi da' presenti saranno i futuri per
quella necessitá di moto che agita perpetuamente il mondo morale.
Il Muratori
qualche poca volta sollevossi ad una sfera d'idee superiore a quella de' suoi
contemporanei italiani, e lasciò qui sfuggir lampi precoci di quella filosofia
applicata alle lettere, che, bambina allora, viene ora crescendo in tutta
l'Europa a robustezza virile.
Ma piú assai
che il Muratori, il Gravina sarebbe stato un letterato filosofo da produrre
assai riforme e assai di bene all'Italia, se fosse nato in tempo di migliori
lettori; poiché certo non gli mancava né logica esatta né vigoria d'intelletto,
che che ne dicesse il Baretti. Era uomo il Baretti d'ingegno vivacissimo, ma di
cognizioni non sempre profonde; e però riesce giudice talvolta incompetente e
troppo corrivo al dir male d'altrui.
Per rispetto
al Tiraboschi, a cui dobbiamo esser grati di molte notizie erudite, noi
speriamo che le persone scevre da' pregiudizi non vorranno biasimarci se ci
facciamo lecito di dire che a lui mancava perfino quella filosofia che i tempi
potevano dargli. Degli altri piú recenti, ma di minor conto, non parliamo.
La
letteratura d'Italia, e per la venustá di che in molte parti ridonda e per
venerazione all'anzianitá de' suoi natali, fu sempre uno studio carissimo anche
ai dotti delle nazioni straniere. Molti di essi ne scrissero or la intera
storia, or la parziale d'un qualche ramo o d'una qualche epoca; molti
incidentemente in libri di diversa natura pronunziarono giudizi intorno al
merito d'alcuni de' nostri prosatori e poeti, or con molto, or con poco, or con
nessuno criterio.
Presso
gl'italiani trovarono applauso sempre coloro degli stranieri che piú erano
stati larghi d'encomi alle nostre lettere; e contumelie villane, anziché pacate
confutazioni, coloro che in qualche maniera parvero mostrarsi meno
scialacquatori d'incenso. E nondimeno il lettore giudizioso rinfaccia non di
rado a molti de' primi la mancanza di sagace discernimento, della quale per lo
piú si suole fare accusa a' secondi. Cosí tal uno, a modo d'esempio, porta
opinione che il libro dell'inglese signor Cooperwaker sul teatro italiano,
quantunque pieno zeppo di adulazioni e di lodi alla nostra letteratura
drammatica, sia davvero un meschinissimo libro scritto da un meschinissimo
pedante; e con uguale schiettezza reputa miserabili certe censure scagliate
contro alcuni de' poeti italiani dal Boileau, dallo stesso ingegnoso Voltaire e
da altri non pochi che, dando biasimo a ciò che non intesero, riescirono
detrattori inconcludenti.
Fra gli
stranieri che scrissero della nostra letteratura sa ognuno quanto romore
suscitassero di recente madama di Staël, il signor Sismondi, il signor
Schlegel, il signor Ginguené. Per ora ci par prudenza lo schivare lunghe parole
intorno ai tre primi, onde non riaccendere la rabbia che ha giá fatto
abbastanza di torto all'Italia. D'altronde se n'è giá parlato tanto e se n'è
detto sí poco, e tanto pur se ne potrebbe dire, che a volerne degnamente
discorrere non bastano i limiti dentro i quali ci serra l'occasione presente.
Solo ti preghiamo, o lettore, di non interpretare sinistramente questo nostro
silenzio e di crederci rispettosi davvero verso quegli ingegni, perché li
crediamo in accordo coi lumi del secolo e non co' pregiudizi della ignoranza
orgogliosa.
Il signor
Ginguené scrisse in Francia l'intera storia della letteratura italiana. La
conoscenza profonda, e rara oltremodo in un francese, ch'egli manifestò avere
della lingua nostra e delle nostre lettere, l'amore sincero con cui ne parlò,
le lodi che ci versò sul capo a piene mani gli meritano il tributo della nostra
gratitudine. Ma se si pensa che il signor Ginguené scriveva il suo libro dopo
l'anno 1810 ed in Francia, che è quanto dire un trent'anni dopo quello del
Tiraboschi ed in paese piú illuminato del nostro, chi vorrá perdonare a lui la
penuria di filosofia? Un uomo che, per quanto sembri internarsi colla veduta,
guarda pur sempre la sola superfice delle cose, e ad ogni tratto ti esclama
«bravo! bello!» senza mai arricchirti il capo d'una nuova idea che ti faccia
sentire la ragione delle sue lodi, non è l'uomo del secolo, non fa piú per noi.
Vi ha
nondimeno in Italia una certa legione di lettori che potrebbonsi chiamare i traineurs
dello spirito umano, come i francesi chiamano i traineurs
dell'esercito23 que' soldati che, o per viltá o per fiacchezza o per
altra ragione, restano indietro nelle marce e non arrivano che un buon pezzo
dopo il grosso delle truppe. A questa milizia di grave armatura, che fa da
retroguardia al secolo, un'altra se ne aggiugne, alla quale starebbe bene il
titolo di «tribú dei comprafumo», perché ad essa par sempre una maraviglia
tutto ciò che in qualunque maniera è lode all'Italia.
Come i bevoni
tracannano il vino senza assaporarlo, cosí i comprafumo si strinsero al seno il
libro del signor Ginguené e lo predicarono la perfezione delle perfezioni. Ai
comprafumo vennero lenti lenti in soccorso i traineurs, portando seco i
pensieri ereditati dalla buona memoria de' loro bisnonni. E la predica degli
uni rinforzata dall'applauso degli altri diventò un clamore da innamorare la
moltitudine, che mise gridi anch'essa senza sapere perché. Ma gli uomini savi
d'Italia, quantunque gustino anch'essi la dolcezza delle lodi, soprattutto
dalla bocca degli stranieri, le infastidiscono siccome nauseose, quando non le
veggono avvalorate dalla manifestazione d'un alto criterio in chi le va
sprecando. Gli uomini savi d'Italia sanno che la nostra letteratura, comeché
splendidissima per molti rispetti, ha pure anch'essa i suoi lati opachi; ed
arrabbiano nel vedere confondersi insieme da' lodatori l'opacitá e lo
splendore, e versarsi ovunque ugual dose di ammirazione. Gli uomini savi
d'Italia leggono le storie non tanto per compiacere ad una sterile curiositá
quanto per trarne paragoni giovevoli alla lor vita presente; e reputano un
miserissimo nulla la poesia ed ogni discorso intorno a cose letterarie, quando
non è messa a profitto tutta la civiltá de' popoli dal poeta o dal trattatista.
Gli uomini savi d'Italia, perché rispettano non alla cieca ma con pienezza di
discernimento la letteratura patria, pretendono che non possa degnamente
accostarsi a parlarne se non chi accese la propria fiaccola critica al lume
della critica universale europea; e credono che il signor Ginguené non ve
l'accendesse abbastanza. E però la storia del signor Ginguené sarebbe per tutti
una gran bella cosa, se venisse ritoccata da un filosofo. Questa almeno è
l'umile opinione nostra, alla quale speriamo facile il passaporto in virtú
della libertá che la legge e la critica ne accordano.
Ci parve di
dover dare cosí alla sfuggita questo sguardo agli autori che fin qui parlarono
della letteratura italiana, onde rispondere innanzi tratto a coloro che
potrebbero forse irritarsi del nostro tirare in iscena una nuova storia di
essa, chiamandolo un portare erba al prato; da che tra nostrali e forestieri
possediamo giá tanti e tanti volumi che ne discorrono, piú che non se ne legge.
Abbiamo giá detto nell'articolo primo che per gl'italiani la parte piú utile
della storia del signor Bouterweck sarebbe quella che tratta non della nostra
ma delle letterature straniere; e stiamo pur sempre in questa persuasione.
Tuttavolta anche i due primi volumi che comprendono le cose nostre, quantunque
meno importanti per noi, non sono da rigettarsi come inutili. La novitá e
l'importanza d'un lavoro storico non consistono unicamente nel narrare fatti
non conosciuti in prima, bensí piú sovente nella maniera nuova di considerarli.
Un portare erba al prato sarebbe se i due volumi de' quali parliamo
somigliassero in tutto e per tutto ai libri del Tiraboschi e del signor
Ginguené. Ma o noi c'inganniamo, o la somiglianza per cento ragioni è
tenuissima. E ciò basti per nostra discolpa.
Il signor
Bouterweck dá principio alla storia della poesia e dell'eloquenza italiana con
un discorso, in cui prima di tutto viene investigando qual fosse lo stato della
lingua nostra al comparire di Dante. In questo argomento egli segue, e lo
confessa apertamente, il libro latino di Dante medesimo Della volgare
eloquenza. L'autore scende poi a parlare de' metri poetici de' moderni,
delle ragioni per cui bisognò trovarli nuovamente e non ammettere que' degli
antichi, della convenienza e della quasi necessitá della rima nelle poesie
delle lingue moderne, della compiacenza con cui i nuovi popoli accolsero questo
nuovo ornamento poetico, e del carattere originale che la rima diede alle forme
esteriori della nuova poesia. Quantunque agli italiani non si attribuisca il
merito d'avere inventata la rima, all'Italia nondimeno, dic'egli, e non ad
altro popolo vuolsi saper grazie dell'avere nobilitati i metri rimati de'
provenzali, volgendoli ad uso d'una migliore e piú vera poesia.
Ciò detto,
l'autore imprende la rivista dei poeti e de' prosatori italiani, la quale, sbrigandosi
di Guido Guinizelli, di Guido Ghislieri, del Fabrizio, ecc. ecc., col solo
nominarli, incomincia propriamente da Guittone d'Arezzo e scende giú fin presso
al declinare del secolo decimottavo. Non sappiamo se alla fine dell'opera il
signor Bouterweck vorrá ampliare con qualche supplimento questa sua rivista.
Certo non sarebbe male che egli lo facesse; da che pare che nel 1802, quando
egli pubblicò il secondo volume della sua storia (terminando con quello di
parlare degli italiani), le vicende politiche od altre cagioni lo tenessero al
buio delle cose nostre piú recenti; ed in generale ne sembra trascuratissimo e
superficiale troppo tutto quel tratto della sua storia italiana che comprende
gli ultimi trent'anni del secolo ora scorso.
Il tener
dietro di passo in passo a codesta rivista non è intendimento nostro, né lo
comporterebbero forse i nostri lettori. Ne riporteremmo volentieri alcuni
squarci tolti qua e lá; ma come decidere la scelta in mezzo ai tanti che
meriterebbero la preferenza? Le cose giudiziose che vi s'incontrano per
rispetto a Dante, al Petrarca, all'Ariosto, al Machiavelli, ecc. ecc., o
vogliono essere riportate tutte, o vogliono essere taciute. Crediamo dunque
miglior partito quello di dar qui un epilogo del discorso finale con cui l'autore
conchiude la storia della letteratura italiana. Il silenzio nostro sul restante
aggiunga stimoli alla curiositá dei dotti d'Italia, sicché eglino procaccino di
leggere nel testo ciò che non senza frequente compiacenza vi abbiamo letto noi.
Tanto v'ha di
memorabile, dice il signor Bouterweck, nella letteratura italiana, che la
storia di essa merita una ricapitolazione.
Come l'uomo,
per variar d'accidenti, nella sua vita non rinnega mai totalmente la sua prima
educazione, cosí la letteratura italiana non si spogliò mai totalmente di quel
carattere ch'essa assunse nel suo nascimento. Quando cinque secoli fa ebbero
principio la poesia e l'eloquenza italiana, l'attuale civilizzazione europea
era tuttavia ne' suoi primordi. E fra tutte le nazioni di Europa, l'italiana è
la sola nella di cui letteratura lo spirito di quei primi tempi abbia
accompagnato sempre lo spirito de' tempi posteriori per tutti i periodi dello
sviluppamento di esso.
Nella
letteratura italiana è impresso il carattere della giovanezza della nuova
civilizzazione europea, con tutte le sue naturali attrattive e coi suoi
difetti. Quantunque i primi poeti d'Italia non si abbandonassero interamente,
come i greci, a se medesimi ed al bisogno dell'anima loro, e non uscissero,
come fecero i greci, dalla sola scuola della natura, la poesia loro nondimeno
emerse dal complesso de' sentimenti che in essi destava la nuova
civilizzazione; sentimenti che, piú forti quanto piú freschi, crearono nella
poesia un certo vigore di gioventú che, l'una dopo l'altra, spezzò le catene di
cui il pedantismo l'aveva gravata.
In tutte le
migliori opere de' poeti italiani, mista alla bella veritá poetica scorgesi
questa vigoria giovenile che si spigne innanzi sempre senza badare a ritegni.
Ed anche lá dove i poeti sembrano sottomettersi alle antiche regole, la
gioventú dello spirito, l'anima vera della poesia, non istá quieta, ma urta e
rompe e s'apre la sua strada attraverso ogni metodica circoscrizione.
La bella
poesia italiana non si piegò umilmente, come la francese, alle regole vecchie,
ma lottò sempre contro di esse. Dante, il Petrarca, l'Ariosto, piú che alle
regole, si lasciarono andare alla prepotenza del loro genio, al bisogno delle
anime loro, e riescirono grandi nella libertá. Se se ne vuol levare la Gerusalemme
del Tasso, tutti i poemi italiani, che, secondo i precetti de' pedanti, si
direbbero regolari e perfetti, appartengono alla classe seconda o ad altra
forse ancor piú bassa. Tutto ciò che v'ha di veramente poetico in Italia è
dovuto alla libertá del vigor giovenile.
Mediante la
storia della poesia italiana viene per la prima volta a confermarsi nelle
letterature moderne questa veritá: che il poeta allora solamente ottiene il
fine piú sublime e piú vero dell'arte, quando tien conto del carattere della
sua nazione e del suo secolo, e non lo ributta sdegnosamente come inopportuno
a' suoi intendimenti poetici. La poesia de' poeti sommi d'Italia è poesia
nazionale nello spirito del secolo in cui essi vivevano.
Pei poeti del
Quattrocento, del Cinquecento e del Seicento non fu poco imbarazzo quello in
cui li metteva da un lato la venerazione entusiastica ch'erano tentati di
tributare alle cose degli antichi allora scoperte, e dall'altro la
inconvenienza di ripeterne servilmente le forme estetiche. La critica di que'
tempi, debole troppo, non bastò sempre a preservarli dalla cieca imitazione,
alla quale pareva che dovesse indurre tutti gli intelletti educati alle scuole
la maniera con cui spiegavasi la Poetica d'Aristotile, considerandola
come un corpo di leggi assolute ed obbligatorie quanto quelle di Giustiniano.
Come nel restante d'Europa, cosí anche presso gli italiani, specialmente del
Seicento, non mancano esempi di cieca imitazione degli antichi. Ma tutti
siffatti esempi, considerati come poesia, sono tutti miserabilissime cose,
dall'Italia liberata del Trissino e dalla sua Sofonisba giú fino alle
pedanterie di minor momento.
Per lo
contrario in Italia chi ebbe in sé anima veramente poetica, sentí sempre, anche
senza averla spiegata teoricamente a se medesimo, la differenza essenziale che
vi ha tra la poesia romantica, cioè quella derivante dallo spirito della nuova
civilizzazione, e la poesia degli antichi; e mostrò d'avere compresa l'essenza
dell'una e l'essenza dell'altra quando accolse come piú inerenti al proprio
intendimento poetico i costumi del suo secolo e della sua patria; e studiando
daddovero gli antichi, pensò non esser conveniente il sagrificare alle lor
forme poetiche le forme nuove, le quali erano piú conformi allo spirito della
nuova poesia. Dante adorava Virgilio come se fosse un ente santissimo. Eppure a
Dante non venne, no, in capo la tentazione di lavorare un poema eroico nella
maniera di Virgilio. Il Petrarca era oltre ogni dire invaghito de' classici
antichi tanto quanto della sua Laura. Ma il Petrarca cantò il proprio amore
com'ei lo sentiva, nobilitando le maniere de' provenzali. L'Ariosto studiò
Omero, ma volle a bella posta riescir diverso affatto da Omero. E finanche il
Tasso, il Tasso medesimo non ardí spignere a tanto la imitazione del poema
eroico antico, da rinunziare al carattere romantico dell'epopea cavalleresca.
Parrebbe che
nello spazio di cinque secoli, nel corso de' quali la civilizzazione non fu mai
totalmente impedita ne' suoi progressi, ed in una terra come l'Italia, dove il
sentimento del bello è tanto indigeno, la poesia e l'eloquenza, tenendo dietro
ad ogni accidente dalla crescente civilizzazione, dovessero svilupparsi a poco
a poco per tutti i modi possibili di varietá ed in tutte le forme che fossero
in qualche armonia col modo di pensare e coi costumi universali della nazione.
Com'è che ciò non avvenne? com'è che la pittura italiana non lasciò via alcuna
intentata, cercando di conseguire l'originalitá per mille diverse maniere; e la
poesia invece parve timorosa di novitá e rade volte escí della via battuta? Non
è difficile il trovare nella storia della civilizzazione d'Italia lo
scioglimento d'un tale enimma.
Assai piú che
quelle del pittore, le invenzioni del poeta dipendono dall'educazione morale
dell'intelletto. Ma presso gli italiani questa educazione morale non fu spinta
mai a quel grado di voga, a cui salirono la erudizione e le dottrine
ecclesiastiche. Nella moderna Italia, dal Trecento in poi, l'intelletto non
ebbe mai quella piena libertá che lo aveva favorito nell'antica Grecia. E però
il genio de' poeti italiani non poté mai volgersi ovunque gli piacesse con
energia assolutamente libera. Angustiati essi da questi vincoli, non volsero
mai il pensiero a trovare un modo di poetare che non procedesse dalle fonti dell'antichitá,
non da quelle de' primi tempi romantici e del cristianesimo, ma sibbene da una
nuova maniera di contemplare l'uomo e la natura. Il tentativo era per ragione
politica pericoloso. Il riprodurre tal quali le forme poetiche degli antichi
non piaceva alla nazione, perché la nazione sentiva romanticamente.
Tutto il
complesso di queste circostanze fece sí che la poesia italiana, presa in
totale, riescí assai piú ricca di melodia e d'immagini che non di pensieri e di
riflessioni sull'uomo. (Pare che il signor Bouterweck voglia dire che la
frequenza di tali pensieri e riflessioni non può essere il frutto che di una
libera e schietta considerazione dei fenomeni morali, degli avvenimenti
pubblici, delle sventure, dei delitti, delle speranze, dei voti, dei rimorsi e
de' miglioramenti, ecc., di una nazione; e che lo esprimere liberamente
siffatte considerazioni non essendo sempre stato in potere dei poeti d'Italia,
ciò li veniva allontanando anche dal farle).
Le cagioni,
che ristrinsero la libertá intellettuale de' poeti per rispetto a'
concepimenti, fecero forse in modo ch'essi, giovandosi d'una bella lingua e
d'un clima ridente, si dessero invece a rendere sempre piú splendida ed
elegante l'espressione de' loro concetti. Fra tutte le poesie dei moderni l'italiana
certamente è quella che per riguardo allo stile, senza declinare dalla sua
romantica novitá, piú s'accosta all'ideale della poesia degli antichi.
Nell'arte di descrivere gli accidenti esteriori delle passioni, le situazioni,
le azioni, ecc. ecc., i principali de' poeti italiani non sono forse superati
da nessun altro poeta europeo. E tanto è il bello estrinseco della poesia
italiana che, s'essa per avventura fosse alcunché piú ricca di valore
intrinseco, pigliandola in totale, e piú variata nella sua ricchezza, nessuna
poesia d'Europa potrebbe osare di contendere con essa pel primato.
Fin qui il signor Bouterweck. Noi
abbiamo giá detto piú sopra come un'appendice, ch'egli aggiugnesse alla storia
della letteratura italiana, riparerebbe alla trascuratezza con cui ne esaminò
gli ultimi trent'anni del secolo scorso. Certamente non isfuggirebbono allora
al guardo filosofico del nostro autore i meriti di tre illustri poeti recenti:
l'Alfieri, il Parini ed il cavaliere Monti.
Senza voler
qui fare un'analisi completa delle opere di questi tre illustri italiani, ci
basterá accennare rapidamente alcune cose che riguardano appunto l'importanza
de' pensieri e degli argomenti, con sí giuste querele desiderata dal signor
Bouterweck nella poesia italiana presa in complesso.
L'Alfieri
considerò la poesia e la trattò come un'arte destinata a diffondere nel
pubblico le idee piú importanti sul merito morale e sulle pubbliche
istituzioni; idee che al poeta erano persuase dalla esperienza, dalla
riflessione, dallo studio della storia, ecc. ecc. E quantunque le sue massime
non sieno per altro sempre quelle che un'illuminata filosofia deve approvare,
la poesia dell'Alfieri non pecca certo di futilitá.
Il Parini
consacrò il suo immortale poemetto a deridere l'ozio e la mollezza, e contribuí
a far cessare lo sciocco costume de' cavalieri serventi, abolito poi piú
efficacemente dalle grandi vicende di cui siamo stati testimoni.
Il cavaliere
Monti seppe con rara felicitá fondare sulla religione cristiana un suo epico
componimento, ed arricchirne la poesia colla viva pittura di sciagure e di
grandi delitti contemporanei; ed in un altro componimento consimile seppe
esprimere con giusta indegnazione la corruttela e la perversitá che deturparono
sovente a' giorni nostri i conquistatori ed i conquistati in Italia, ed
esprimere coll'entusiasmo de' versi un lodevole amore dell'ordine pubblico.
Grisostomo.
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