IX
Guerre letterarie in italia26.
In Lipsia la
fiera di San Michele fu quest'anno ricchissima di nuove produzioni letterarie.
Una fra le altre ce ne capitò alle mani, singolare molto pel suo argomento, ed
è quella che annunziamo.
Bisogna dire
che in Germania la turba degli scrittori sia immensa, e la smania dello
scrivere ardentissima in essi, da che vediamo ne' cataloghi registrarsi libri
ed opuscoli a centinaia, che, per quanto si può desumere da' frontispizi,
sembrano trattare di cose forse non troppo interessanti pei popoli nella lingua
de' quali sono scritti. Questo del signor Niemand ce ne somministra un esempio,
perché, a dir vero, non ha altro scopo in apparenza che quello d'essere utile a
noi italiani.
Ma che gli
italiani vogliano giovarsene non è da credere. Noi teniamo anzi per fermo che
la memoria del signor Niemand e del suo bel libretto non durerá in Italia piú
delle ventiquattro ore che la fortuna suole conceder di vita ad un numero del Conciliatore.
Il signor Niemand si contenti dunque di divider con noi i nostri destini e la
nostra pazienza. Di piú non possiamo fare per lui.
L'autore sembra
essere uomo erudito e, quel che piú importa, zelatore sincero della probitá. Il
presente libretto è da considerarsi come l'emanazione di un'anima onesta. E le
sole persone oneste potrebbero leggerlo senza irritarsi delle frequenti
allusioni che vi si trovano alle sentenze bibliche, e della franca indegnazione
con cui l'autore si oppone al vizio.
Il signor
Niemand è di parere che le dispute letterarie sieno per se stesse
giovevolissime allo scoprimento della veritá ed alla propagazione dei lumi. Non
biasima una leale e discreta ambizione ne' disputanti; perché, senza questa
potentissima molla delle umane azioni, crede egli improbabile che un uomo
voglia sottoporsi al peso degli studi (su questa improbabilitá noi forse siamo
di opinione qualche poco differente). Combina egli la nobile ambizione
coll'amore schietto e disinteressato della veritá e col dovere che gli uomini
hanno di essere utili agli uomini. E però giudica che in faccia al pubblico non
abbiano diritto di disputare intorno a cose letterarie che le sole persone
d'incolpabile morale.
Ma questo
parlar di diritti, quando prevale assoluta in contrario la prepotenza de'
fatti, sa dell'inutile all'autore. Quindi, lasciate le teorie astratte, si dá
egli a tessere la storia delle contese letterarie degli italiani, incominciando
da quelle che nel decimoquinto secolo il Poggio ebbe con Francesco Filelfo e
Lorenzo Valla e Giorgio di Trebisonda, ecc. ecc., e scendendo giú fino a quelle
tra'l Parini ed il padre Branda, tra'l Baretti ed il Bonafede, e ad altre ancor
piú recenti.
L'intenzione
dell'autore, nel riandare tante epoche di scandalo e tanti aneddoti, com'egli
dice, di «contaminazione», è quella di dimostrare che i letterati d'Italia
nelle loro controversie declinarono pressoché sempre dall'ingenuo fine di esse
per servire ad interessi ed odii personali; e che, cosí facendo, rivolsero a
vero danno della sapienza quel mezzo medesimo che par piú destinato a
favorirla.
Egli confessa
che alcuni pochi de' litiganti furono uomini per altro ornati di molte virtú.
Però deplora la trista consuetudine italiana, che talvolta induceva a
traviamento anche i buoni (fu per noi una vera consolazione il vedere nel breve
elenco di questi ultimi il nostro Parini). Poi fa notare quegli altri che da
semplice esuberanza di bile o da semplice invidia della fama altrui furono
mossi a svillaneggiare i loro rivali (e qui l'elenco cresce assai in
lunghezza). Finalmente stabilisce per muovente massimo delle inimicizie
letterarie nei piú l'interesse pecuniario (e qui, se pure è lecito
scherzare sulle umane miserie, la lista par quella delle belle tradite da don
Giovanni).
Il commercio
librario fu sempre angustiato in Italia dalle tante divisioni territoriali, e
da questo: che in tutta l'Italia, comparativamente alla numerosa popolazione
della penisola, non fu mai abbondanza di lettori, massime paganti. Quindi i
letterati, non potendo ritrarre sufficienti ricompense dagli stampatori, si
rivolsero quasi sempre a' principi ed a' governi.
Stretti da
altri doveri piú sacri, i governi non poterono sempre contentar tutti i
letterati. Però, crescendo la frotta de' concorrenti, non bastava la pastura, e
i begli ingegni bisognava spesso che se la strappassero l'un l'altro di bocca.
In alcuni di essi era malvagitá vera, in altri debolezza, in altri la pazienza
si lasciava stancare dalle provocazioni ripetute. Chi pigliava l'armi per
assalire, chi per respingere gli assalitori. E le armi erano ingiurie,
calunnie, contumelie, accuse pubbliche, delazioni segrete, propalazioni
d'infamie domestiche, rinfacciamenti di fellonie, ecc. ecc. ecc.
Gli
spettatori maligni ridevano, la gente dabbene fremeva. E la maggior parte del
popolo, confondendo le lettere co' letterati, chiamava «infami» quelle, perché
sovente vedeva infami questi. La sapienza non ci guadagnava mai nulla, l'arte
critica non progrediva d'un passo, perché la sapienza e la critica nulla hanno
di comune colle villane animositá individuali. Ogni generazione di letterati biasimava
queste pessime arti nella generazione precedente, poi correva ad imitarla coi
fatti.
Cosí la
storia delle contese letterarie degl'italiani non presenta altro che una
miserabile successione di guerre personali da far ribrezzo ad ogni uomo che
senta altamente in suo cuore la dignitá e l'importanza delle lettere. E cosí i
letterati d'Italia crebbero tante spine all'esercizio della letteratura, che al
letterato onesto diventò pericolosa perfino la sua onestá.
Il signor
Niemand parla sempre co' fatti alla mano, per modo che ci piange il cuore, ma
dobbiamo pur dire ch'egli in gran parte ha ragione. E se la vergogna può in noi
qualche cosa, vaglia questa volta ad avvertirci come gli stranieri ci tengano
l'occhio addosso, e come ci convenga camminare con prudenza e saviezza, onde
non sieno da essi ricantate all'Europa le nostre turpitudini.
L'ultima
volta ch'io fui in Italia, e saranno forse dieci anni - cosí dice alla
pagina 224 il signor Niemand, - mi fermai lungo tempo in Milano. Ho veduto ivi
agli ingegni nascenti strozzarsi dagli anziani le parole in bocca, la
riputazione de' provetti lacerata da' provetti. Ho veduto ivi una lega di
letterati mischiare insieme con perfide arti la fede letteraria alla fede
religiosa e morale, per modo da far scontare con pene civili le innocentissime
opinioni letterarie ai disgraziati ch'erano in odio alla lega. Ho veduto un
uomo, che per altro godeva molto credito presso alcuni, il signor Lamberti,
stabilire perfino questo assioma e stamparlo nel Poligrafo: che chiunque
contraddicesse ad un'opera o ad una sola sentenza letteraria d'un pubblico
professore nominato dal sovrano, contraddiceva al sovrano medesimo ed era
ribelle alla sovranitá. Non credo che il governo sancisse allora in diritto
queste massime di tirannia. Che importa? Il solo pronunziarle era un'offesa
alla ragione de' buoni.
Ma la piú
tranquilla saviezza degli attuali governi d'Italia mi fa certo che i costumi
dei letterati italiani sieno ora cambiati in meglio. Ed io me ne rallegro
davvero colla terra bella e gentile che avrei invocata da Dio per patria mia,
se l'uomo potesse prima di nascere invocar la patria ch'egli vorrebbe.
Giovinsi
dunque santamente della nuova fortuna i letterati. Trattino le loro quistioni
con quell'ardore che viene dall'anima innamorata del vero; ma non s'irritino
delle opposizioni. Tutte le veritá letterarie e scientifiche hanno dovuto
aprirsi la via attraverso ostacoli infiniti. Ma se una generazione bestemmia
contro il Galileo e lo imprigiona, la generazione che siegue non si cura di
sapere i nomi de' bestemmiatori, e corre a Firenze a baciar piangendo il sacro
dito del Galileo.
«Via sapiens plebem suam erudit». E
voi, o letterati d'Italia, fate partecipe della vostra dottrina la plebe
vostra. E se la plebe vi vuol dettare essa leggi e dottrine, lasciatela fare
pazientemente; ma non pigliate consiglio che da voi o dai piú sapienti di voi.
Ricordatevi che, se l'Ariosto avesse dato ascolto al parere del cardinale, il Furioso
sarebbe scritto in latino, e la fama dell'Ariosto sarebbe una miseria. La
probitá sia nel cuor vostro e la persuasione sulle vostre labbra. Ma delle
vostre pacifiche discussioni non chiamate mai in sussidio i governi, perché già
questi, come savi che sono, non vi darebbero retta. E innanzi a tutto procurate
di mostrarvi obbedienti e fedeli e tranquilli sudditi piú che sapienti agli
occhi de' vostri sovrani, non dimenticando mai il santo detto della Scrittura:
«Coram rege noli velle videri sapiens».
Grisostomo.
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