XXII
QUADRO STORICO
Della Poesia Castigliana
a proposito delle Poesie
scelte castigliane, raccolte dal Quintana68.
INTRODUZIONE
Il conte Giovambattista
Conti fino dal 1782 pubblicò in Madrid quattro volumi d'una sua raccolta di
poesie castigliane, ponendo a riscontro del testo di esse le traduzioni da lui
fattene in versi italiani. Poche copie di quell'opera scesero allora in Italia;
e però la tipografia del seminario di Padova, dandosi a ristampare in due soli
volumi le sole traduzioni, provvede in questo anno a vieppiú diffonderne tra di
noi la lettura. Al primo tomo, comparso giá da alcuni mesi, veggiamo succedere
ora finalmente il secondo.
Nell'attuale
tendenza degli studi verso una maggiore curiositá delle cose straniere, ci
sembra opportuno e lodevole il disegno dell'editore padovano. Non intendiamo
quindi di menomare in alcuna maniera né la gratitudine del pubblico verso di
lui, né gli applausi che può aver meritati giustamente al signor Conti il suo
lavoro, se da esso pigliamo occasione per annunziare agli studiosi della lingua
e della letteratura spagnuola una piú ampia collezione di Poesie castigliane,
data alle stampe, non è gran tempo, in Madrid dal celebre poeta don Giuseppe
Quintana. A salvarci da ogni sospetto d'irriverenza verso del signor Conti, ed
a manifestare ad un tempo stesso il perché da noi si proponga ora agli studiosi
la nuova raccolta, basti l'ingenuitá colla quale riportiamo le seguenti parole
della prefazione del signor Quintana: «La [la collezione di poesie
castigliane] que despues empezó y no acabó don Juan Bautista Conti,
executada á la verdad con gusto exquisito y buena disposicion, se destinó
principalmente á dar á conocer á los italianos el mérito de nuestra poesía. Contentóse pues su autor con publicar y
traducír en toscano las composiciones líricas y bucólicas mas señaladas del
siglo diez y seis, y algunas de los Argensolas: pero nada incluyó de Balbuena,
de Jauregui, de Lope, de Góngora, ni de otros igualmente célebres en nuestro
Parnaso, quedando por consiguiente la coleccion en extremo insuficiente y
diminuta»69.
Del signor
Quintana e delle di lui poesie originali ci proponiamo di parlare in altra congiuntura,
e tosto che ci saranno pervenute di Spagna alcune notizie delle quali abbiamo
fatta ricerca. Intanto i lettori vorranno ricordarsi ch'egli è l'autore della
famosissima ode patriottica sulla battaglia di Trafalgar. Questo leale
spagnuolo, che nell'arte de' versi non ha nella sua nazione alcun rivale
vivente, fuorché in certo modo don Giambattista de Arriaza, autore anch'egli
d'un'altra ode su la stessa battaglia (tanto un solo argomento è fecondo
d'entusiasmo poetico, se lo suggerisce la coscienza di avere una patria!), vive
ora miseramente relegato. Ma egli non invidia per questo al poeta suo rivale né
la docilitá delle opinioni, né, frutto di essa, i giorni meno travagliati; e lo
conforta il vedere il proprio nome caro a' migliori fra' suoi, e consegnato
alla venerazione dell'Europa insieme alla recente memoria dei fasti delle Cortes,
a' quali egli contribuí co' suoi proclami e co' suoi canti ci di guerra.
La celebritá
letteraria del signor Quintana ci par sufficiente a raccomandare come giudiziosa
la collezione di poesie castigliane da noi annunziata; né il fatto smentirá
appresso i dotti l'aspettativa.
L'opera è
scompartita in tre volumi del formato di un giusto «ottavo». La raccolta
incomincia da un saggio di poesie del secolo decimoquinto, e precisamente da
alcune di Giovanni de Mena; poscia si allarga, e comprende gli altri secoli
susseguenti fino alla morte del poeta don Giuseppe Cadalso, che è quanto dire
fino all'anno 1782. I componimenti in essa contenuti sono i meglio stimati:
sono tolti da tutti i generi di poesia, se se ne eccettuino i teatrali. Alla
prefazione tiene dietro un Discorso sulla storia della poesia castigliana,
in quanto specialmente essa si riferisce ai generi ed agli autori che ottennero
posto nella raccolta.
Conformandoci
a questo disegno del signor Quintana, noi ci gioveremo in parte delle notizie
somministrateci da lui, e qualche poco anche della Storia letteraria del
signor Bouterweck e del tenue frutto di altri studi da noi fatti, e daremo col
tempo, in diverse riprese, un Quadro storico della poesia spagnuola, il
piú compendioso che potremo.
Se, per
servire al nostro autore, ci è d'uopo non tener conto per ora del teatro
spagnuolo, gli amici della letteratura universale sapranno ampiamente rifarsi
di questo e d'altri nostri silenzi, ricorrendo, fra molti libri, a quello del
signor Sismondi sulla Littérature du midi de l'Europe; libro che, per
isciagura della buona critica, trova d'ordinario i suoi piú aspri censori in
coloro che non lo hanno mai letto. Nel tessere il nostro lavoro noi ricorreremo
ad esso meno che a qualunque altro, e non per altra ragione se non perché ne
sembra di non dovere occupare il breve spazio del nostro giornale con cose
ricavate da un libro che può facilmente consultarsi da chicchessia.
Ma, prima di
por mano al Quadro storico, a cui preghiamo cortese la pazienza de'
nostri buoni lettori, siamo costretti dall'ostinazione di certi garriti
pseudo-letterari a ripetere solennemente una dichiarazione, che sotto cento
forme diverse abbiamo giá ricantata le cento volte nel nostro giornale. Eccola;
ed affinché sia intesa anche dagli spazzini della repubblica letteraria, eccola
una buona volta in lettere maiuscole:
col raccomandare la lettura di
poesie comunque straniere, non intendiamo mai di suggerirne ai poeti d'italia
l'imitazione. vogliamo bensí che esse servano a dilatare i confini della loro
critica.
Se non
faranno effetto le lettere maiuscole, non ci resterá altro partito che di
tentare le cubitali... E le tenteremo: a estremi mali estremi rimedi. Per ora,
basti cosí; e la pace sia con tutti.
I
Della poesia castigliana da' primordi di essa
fino agli ultimi anni del secolo decimo quarto
La storia
universale della poesia offre nella sua progressione il fenomeno di andamenti diversi
in diverse nazioni. Nella bella Grecia l'infanzia di questa sovrana delle arti
fu di poca durata, e in poco di tempo ella crebbe a tanto vigore da produrre i
poemi immortali di Omero. Uguale a quella della Grecia fu la fortuna
dell'Italia moderna, dove fuor della notte dei secoli rozzi, succeduti alla
civilizzazione romana, apparvero di repente Dante e 'l Petrarca, traendo con
loro l'aurora di tutte le arti e fondando le norme del buon gusto.
Altri popoli
meno felici lottarono lungamente contra la barbarie, e, vincendola a poco a
poco, acquistarono a poco a poco il sentimento dell'eleganza e dell'armonia; e
non giunsero alla perfezione che tardi e a forza di fatica. Tale fu la sorte
d'una gran parte delle nazioni moderne, e tale appunto fu quella della Spagna.
Ivi, quasi
come per ogni dove, il verso scritto precedette alla prosa. La poesia
spagnuola, o piú precisamente castigliana, vanta per sua prima opera il Poema
del Cid, composto, a quel che pare, verso la metá del secolo decimo
secondo70. Allora, in mezzo alla confusione delle lingue, cagionata
dalle invasioni dei barbari del nord, cominciava a pigliar forma alcuna
quell'«idioma romanzo», che doveva spiegare poi tanto splendore e tanta maestá
negli scritti di Garcilaso, di Herrera, di Rioja, di Cervantes, di Mariana.
Chi ponesse
mente alla natura dell'argomento e non ad altro, troverebbe pochi poemi
superiori a quello di cui parliamo; nella stessa maniera che pochi guerrieri
troverebbe nella storia da poter contrapporre, come rivali in valore e in
leggiadria di virtú, a Rodrigo di Bivar, soprannominato il «Cid Campeador». La
gloria di Rodrigo oscurò quella di tutti i re de' suoi tempi, e da secolo in
secolo discese infino a noi, ad onta di un'infinitá di favole onde anticamente
la zotica ammirazione circondò la veritá dei fatti. Consegnata a poemi, a
tragedie, a commedie, a romanzi (o romanze), a canzoni popolari, la memoria di
lui, somigliante a quella di Achille, ebbe la fortuna di scuotere fortemente ed
occupare la fantasia. Ma l'eroe castigliano, superiore al greco per coraggio e
virtú, ebbe la sventura di non trovare un Omero che lo celebrasse.
E come
trovarlo a que' tempi, ne' quali il rozzo cantore si pose a comporre il poema?
Con una lingua informe tuttavia, dura nelle sue determinazioni, viziosa nella
sua sintassi, nuda di tutta coltura e di tutta armonia, in mezzo alla generale
abitudine ad uno stile pieno di pleonasmi, con un verseggiare incerto nella sua
misura, com'era possibile mai il produrre un'opera di vera poesia? Nell'invenzione,
ne' pensieri, nell'espressione di essi, e specialmente in certa
ingenuitá71 di descrizioni, scorgiamo, è vero, qualche indizio
d'intenzione poetica per parte dell'autore; ma, preso in totale, il Poema
del Cid è da considerarsi come una curiositá filologica piú che altro. Chi
sia stato l'autore di questo primo vagito della poesia castigliana, è ignoto.
Nel secolo
susseguente vissero due poeti, le opere dei quali lasciano apparire giá alcuni
progressi fatti dalla lingua. Don Gonzalo de Berceo e Giovanni Lorenzo Segura,
l'uno nelle sue poesie sacre in versi alessandrini, l'altro nel suo poema De
Alexandro magno, superarono anche di qualche grado l'arte del cantore del
Cid. Quelle del primo, per altro, non sono che preghiere, regole fratesche,
leggende di santi, che manifestano nell'autore il monaco benedettino piú che il
poeta. Nel poema del secondo, ciò che occorre di piú bizzarro alla
considerazione del filosofo, è la vita di Alessandro il grande, descritta con
colori cavallereschi; è il vedere trasportati in essa sul serio i costumi, i
sentimenti, i pregiudizi spagnuoli. Forse, come dice il signor Sismondi,
l'ignoranza assoluta dell'antichitá fece ricorrere il poeta a ciò che gli era
noto per descrivere ciò che gli era ignoto. E forse (è un dubbio nostro)
Giovanni Lorenzo venne condotto a tale traviamento da un barlume indistinto di
quella veritá psicologica, che insegna non potere essere sommamente efficace la
poesia, se non è in accordo colle idee e colle circostanze de' tempi ne' quali
vive il poeta. Giovanni Lorenzo non era abbastanza filosofo per potere
interpretare saviamente questo impulso del vero genio poetico, non era
abbastanza educato ai confronti storici per doversi sentire offendere dalla
dissonanza tra due civilizzazioni, greca e spagnuola: e però, secondando con
inconsiderata obbedienza la necessitá d'essere moderno, condusse con accessorii
ricavati dal mondo a lui presente un poema d'argomento non moderno, ma antico;
e fece cosí un guazzabuglio, che accusa la contemporanea stupiditá della
critica e muove a riso finanche la gravitá de' maestri di lettere.
Ma qui, se ci
è lecita una digressione, vogliamo assumere gravitá anche noi, e rivolgerci
proprio con un testo di Orazio a tal uno che ride del guazzabuglio di Giovanni
Lorenzo.
«E di che
ridi tu? Cambiato che sia il nome, il discorso va a ferir te»72. E
infatti non è egli un guazzabuglio altrettanto ridicolo il tuo, quando in
argomenti moderni vai intarsiando sentimenti e immagini e riti e costumi e idee
de' popoli antichi? Se Giovanni Lorenzo ti presenta l'eroe di Macedonia sotto
il nome di «infante don Alessandro», tu sghignazzi, e n'hai ragione. Ma non
dovremo sghignazzar del pari ancor noi, allorché tu ci presenti una povera
monachetta sacra a Maria ed a Cristo sotto il nome di «vestale»? allorché di
due giovinetti, che si legano in matrimonio innanzi al curato, tu ci parli come
di due, che, «coronati di rose», si giurano fede innanzi «all'ara d'Imeneo»?
allorché d'un professore dell'universitá dici ch'egli è un «sacerdote di
Minerva», e va' discorrendo? Che razza di logica è la tua? - Sono erudito, e
Giovanni Lorenzo non l'era. - Bravo! tienti la tua erudizione, che è cosa buona
e, se non sai farne altro, illustra con essa un qualche ciottolo vecchio; ma
non isprecarla fuor di proposito. O, piuttosto, vendine alcune libbre, onde
comperarti poi una mezz'oncia di sale critico. Imparerai allora che il ridicolo
non istá nell'ignoranza di Giovanni Lorenzo, né tampoco nella tua erudizione;
bensí nella goffa mescolanza che entrambi ci fate di idee eterogenee.
Lettori,
torniamo al nostro proposito. Un Caloandro de' «bei parlari» avrebbe detto:
«torniamo a bomba».
Regnava
allora in Castiglia Alfonso decimo, soprannominato il «savio»: non perché fosse
un buon re, ché anzi fu falsatore di monete e meritò di essere alla fine
cacciato dal trono; ma perché, come meglio il comportavano i suoi tempi, fu
letterato e promotore degli studi. Egli, dando ordine che si scrivessero in
lingua castigliana gli atti pubblici, che infino allora erano stati sempre
compilati in latino, aggiunse stimoli al miglioramento ed alla diffusione della
lingua nazionale e giovò a' progressi d'una nazionale letteratura. Fu poeta
anch'egli, e compose, secondo l'opinione comune, un libro di cantici sacri in
dialetto galiego e due altri libri in versi castigliani: l'uno intitolato dei Lamenti,
l'altro il Tesoro. Piange nel primo il re le proprie sventure e lo
scettro perduto; nel secondo, che è un trattato inintelligibile d'alchimia,
egli dá ad intendere a' castigliani d'aver trovato il segreto della pietra
filosofale, con intenzione probabilmente di onestare cosí in faccia loro i veri
mezzi, piú turpi, mediante i quali ei s'era arricchito. Se le monete fatte
battere dal re Alfonso erano di sí bassa lega come i suoi versi, bisogna dire
che egli fosse un gran ladro.
Tuttavolta,
ove lo zelo messo da lui nel promuovere le lettere fosse stato di lunga durata
ed imitato dai re successori, la poesia spagnuola, col rammentarci l'antichitá
de' suoi natali, non farebbe sentire vieppiú la lentezza de' propri passi verso
la perfezione. Ma ella ebbe contro di sé la natura feroce dei tempi.
Negli ultimi
anni di Alfonso cominciò ad ardere la guerra civile; e questa quasi senza
interruzione infuriò per un secolo intero, fino a giungere all'estremo
dell'atrocitá e dell'orrore durante il regno burrascoso di Pietro il crudele.
In quella miserabile etá pareva che i castigliani non avessero anima che per
abborrire, non avessero braccia che per distruggere. Però la poesia pochi ebbe
che la coltivassero allora: i piú erano intenti alle opere della spada e non
della penna. Giovanni Ruiz, arciprete di Hita; l'infante don Giovanni Manuele,
autore del Conte Lucanor; l'ebreo don Santo, e Ayala il cronista: ecco
lo scarso numero de' poeti d'allora.
Fra le poesie
di questi quattro autori è fatica perduta il volere rintracciare un'occasione
di diletto estetico un po' prolungato. Quelle dell'arciprete sono, tanto o
quanto, le piú degne d'essere conosciute dai filologi. Hanno per argomento la
storia degli amori di esso arciprete, mista di apologhi, di allegorie, di
novelle, di frizzi, di satire, ed insieme di cose di religione; e vi trovi, con
istrano abuso di personificazioni, condotti a comparsa certi personaggi che non
ti saresti mai figurato di veder camminare sulle gambe; come a dire, donna
Quaresima, don Digiuno, donna Colazione, don Dí di grasso e, insieme a questa
bella brigata, anche l'illustrissimo don Amore. Le forme estrinseche di tali
poesie vantaggiano di poco quelle messe in mostra da' poeti anteriori.
Nell'atto che
abbandoniamo agli scaffali delle biblioteche od alla curiositá degli eruditi ed
alle meditazioni del filosofo tutte siffatte anticaglie, dalle quali,
attraverso a un nuvolato interminabile d'inezie puerili, d'invenzioni e
lepidezze fratesche, appena qua e lá sfavillano alcuni pochi lampi di giusta
inspirazione, crediamo di dovere avvertire il lettore studioso che, a volere
ricercare la vera origine, le prime e vere tracce d'un'ingenua e sentita poesia
in Ispagna, gli bisogna rivolgersi a tutt'altro armadio.
Altri
cantori, sconosciuti di nome, ma fortemente commossi dal desiderio di celebrare
le glorie nazionali, il puntiglio dell'onore, la lealtá, la opposizione
magnanima de' loro concittadini alla violenza straniera, i fatti de' forti nelle
tante battaglie contra i mori, ecc. ecc., servirono con alacritá spontanea alla
voce dell'amor patrio ed all'entusiasmo del popolo, tessendo brevi racconti
armoniosi di avventure guerriere o dando un lirico sfogo al sentimento
dell'ammirazione. Di qui la grande quantitá di «canzoni popolari» e di
«romanzi» (o «romanze») cavallereschi od istorici, ne' quali principalmente
risuonano le lodi del Cid Campeador, se non con leggiadria assoluta di versi,
almeno almeno con veritá di espressione. E troviamo in essi un caldo muovimento
d'affetti, che si desidera invano nelle opere de' loro poeti contemporanei,
rammentati piú sopra da noi, e invano talvolta anche ne' quattro canti del
famoso poema di cavalleria, l'Amadigi, composto in lingua spagnuola dal
portoghese Vasco Lobeira verso il principio del secolo decimoquarto.
Ogni
spagnuolo accompagnava allora con la sua chitarra le semplici «coplas»
d'un inno al valore; ogni madre insegnava alle sue fanciulle la storia d'un
prode, secondo che l'aveva udita narrare da un qualche poeta. Anche la
gentilezza dell'amore, anche la cortesia verso le donne somministrava materia a
dilicate od a flebili melodie. E la pietá, facendo tacere per alcun momento gli
odii nazionali, non negava una lagrima poetica neppure a Zayda e a Balaya,
belle e sventurate amanti di principi moreschi.
II
Della poesia castigliana durante il secolo
decimoquinto73
I re
d'Aragona, verso la fine del secolo decimoquarto, avevano introdotto nei loro Stati
i «giuochi florali», instituiti giá da piú di un sessant'anni in Tolosa, onde
promovere l'esercizio della «gaia scienza» de' trovatori. Vedevansi concorrere
d'ogni parte gli ingegni a quelle feste, e con gara ardita contendere pei premi
promessi a' piú valenti. La pubblica solennitá di tali cerimonie, la maggiore
diffusione delle cognizioni e degli scritti, l'esempio invidiato dell'Italia,
la maraviglia che destavano le opere degli antichi poeti di Grecia e di Roma,
delle quali allora si andava rendendo piú comune la lettura in tutta l'Europa,
ed altre consimili circostanze ponevano vieppiú sempre in onore la poesia:
questa che delle belle arti è la prima ad essere coltivata, allorché i popoli
si accostano alla loro civilizzazione.
Giovanni
secondo era un principe inetto a governare; e sotto di lui la Castiglia,
perduta in faccia agli stranieri ogni importanza, era lacerata al di dentro
dall'orgoglio fazioso de' nobili. E nondimeno quella etá portava tanto amore
alla poesia, che all'inetto principe l'esercitarla e 'l proteggerla ottenne
anche politicamente qualche benevolenza. Molti de' grandi, che gli avrebbero
non mal volentieri tolto lo scettro, cosí sconveniente alla sua mano, si
unirono intorno a lui per forza di simpatia poetica, e, verseggiatori anch'essi,
prestarono aiuto al re verseggiatore. Cosí Giovanni secondo, bene o male, si
mantenne sul trono; e, in mezzo alle turbolenze del regno, la corte di lui,
piuttosto che un consiglio di statisti, pareva in certo modo una profezia
lontana del nostro «Serbatoio d'Arcadia». Vogliamo dire che il re e i
cortigiani, né piú né meno de' pecorai d'Arcadia, fossero o no provveduti di
alcuna disposizione attiva per la poesia, tutti sudavano a far dei versi.
Scriveva «coplas» il contestabile don Alvaro, e «coplas»
scrivevano il duca d'Arjona e don Enrico de Villena e 'l marchese di Santillana
e cento altri eccelsi magnati.
Fra questi
magnati, per altro, alcuni non erano al tutto indegni di qualche lode
letteraria. La lingua s'avvicinava giá molto alla sua perfezione; nuovi metri,
trovati da' poeti della corte del re Giovanni, prestavano nuovi istromenti alla
poesia; ed ella si era rivolta in gran parte a dipingere la passione
dell'amore. E se la smania di parer dotto (o, in altri termini, la pedanteria)
non avesse guastato l'intelletto al marchese di Santillana; se, innamorato,
com'egli pareva essere, di Dante, ne avesse investigato lo spirito poetico ne'
suoi principi moventi anziché nelle minute particolaritá delle invenzioni; per
opera di lui, poiché ingegno e volontá non gli mancavano, la poesia spagnuola
non solamente avrebbe potuto dare maggiore soavitá agli affetti dell'elegia, ma
ben anche aspirare a piú alte concezioni e distendersi maestosamente fra'
palmeti indigeni, senza prepararsi la necessitá di agognare, come fece in
appresso, gli allori stranieri.
Ma i maestri
di convento, in mano de' quali stava allora la somma dell'educazione giovanile,
avevano messa in capo al Santillana, del pari che a tutti i loro discepoli, una
falsa e stramba idea della poesia: come se, incapace di poter dire
splendidamente il vero, ella consistesse in un tessuto perpetuo di misteri, di
allegorie e di spiattellate sentenze morali. D'altra parte, la maraviglia o,
piú veramente, l'idolatria de' tempi per la novitá dell'erudizione solleticava
a lui l'ambizioncella, e persuadevalo ad ostentare in qualche modo il catalogo
de' tanti libri ch'egli aveva letti. Non è dunque strano che il marchese
cedesse alla corrente. Da' suoi contemporanei ottennero infatti largo applauso,
siccome portenti di bellezza poetica, i difetti appunto che rendono oggidí
noiosa la lettura delle opere di lui; oggidí che nel poeta cerchiamo il poeta e
le sue forti sensazioni, non la fredda pompa della sua vasta memoria, non
l'arguzia delle sue allegorie, non la magistrale ripetizione delle sentenze
rubate di peso al catechismo.
Del resto,
alcune brevi canzoncine del Santillana fanno fede ch'egli avesse un cuore non
del tutto prosaico. È un peccato dunque ch'egli non intendesse il vero bello
dell'antica poesia nazionale spagnuola. È un peccato ch'egli non si desse a
nobilitarla, secondando industriosamente la tendenza ch'essa aveva spiegato ne'
Romanzi del Cid e in tanti altri romanzi e canti popolari; tendenza che muoveva,
senza mistura di frivolezze scolastiche, dall'indole della civilizzazione
arabo-ispana, e principalmente da uno squisito sentimento delle glorie e delle
sventure della patria, da un culto tributato all'onore come ad una religione.
Ma purtroppo le cattive scuole fanno contrarre cattive abitudini anche agli
ingegni singolari! E che altre abitudini potevano mai insegnare coloro che
tutto guastavano, fin anche la semplice idea del Dio a cui professavano di
servire?
Che se il
Santillana non avesse sdegnato di uniformarsi all'indole ed allo spirito di
que' romanzi, gli sarebbe riuscito di dare una veste piú poetica
all'intendimento patriottico, col quale scrisse El doctrinal de privados.
Ove non sia una compiacenza estetica, è almeno una compiacenza morale il vedere
introdotta in quel poemetto l'ombra di don Alvaro de Luna a raccontare le
proprie colpe e le proprie sciagure, onde l'esempio della trista sua fine (era
don Alvaro il favorito del re Giovanni secondo) servisse ad atterrire e
stornare dalle discordie civili i castigliani.
Se non che,
questa lode è un nulla a paragone dell'altra, che è meritata dal marchese di
Santillana per una virtú piú rara e piú cospicua della virtú letteraria; e
davvero sarebbe scortesia il non accennarla. Si perdonano volentieri al
verseggiatore tutti i traviamenti, allorché si pensa ch'egli visse in corte, e
non adulò; che fu amico d'un re, e gli rinfacciò il mal governo; e che, da
onest'uomo, abbandonò l'ospizio regio ogni volta che lo starvi non giovava alla
patria. Ci sia condonato l'esserci fermati piú che non avremmo voluto sul
discorso di lui: pareva conveniente il far conoscere un uomo il di cui nome
splende illustre nella storia civile di Spagna.
Esente dalla
comune febbre letteraria, l'invidia, il Santillana, venuto in cognizione d'un
altro ingegno che viveva nella oscuritá, gli corse incontro spontaneo, lo
trasse alla corte del re Giovanni secondo e lo protesse con sincera e costante
amicizia. Questi fu Giovanni de Mena, la di cui facoltá poetica, ad onta d'una
eccessiva stravaganza di fantasia, è superiore a quella del Santillana. Il De
Mena, quantunque ingannato del pari che il suo protettore dalla universale
pedanteria e trasandato dietro ad essa, ottenne nella sua patria il soprannome
di «Ennio castigliano», forse per averle regalato un poema di maggior mole che
non quelli de' suoi predecessori. Un rispetto, disceso per tradizione da padre
in figlio, conserva a lui tuttora in Ispagna quel soprannome: diciamo «rispetto
di tradizione», da che le opere del De Mena sono oggimai piú spesso nominate
che lette. La piú famosa di esse è un poema allegorico-storico, intitolato El
labyrinto. Eccone in breve l'argomento:
Il poeta si
propone di contare le vicissitudini della fortuna. Sente egli la difficoltá
dell'impresa, ed è quasi smarrito innanzi all'altezza del soggetto: chiama in
soccorso Apollo e Calliope, manda un'apostrofe calda alla Fortuna; nessuno
risponde. Finalmente gli appare la Provvidenza; gli fa da guida e da maestra, e
lo introduce ella nel palazzo della Fortuna. Prima di tutto egli vede da
colassú la terra, e ne fa la descrizione geografica; poi scopre le tre grandi
ruote che volgono i tempi, passati, presenti e futuri. Ogni ruota si compone di
sette circoli, emblemi allegorici dell'influsso de' sette pianeti sulle
inclinazioni e sulle sorti umane, secondo le misere dottrine astrologiche
d'allora. In ciascun circolo v'ha gente infinita: i casti nel circolo della
Luna, i guerrieri in quello di Marte, i sapienti in quello di Febo, e cosí
degli altri. La ruota del tempo presente è in movimento; le altre due no. E
quella del futuro è coperta di tal velo, che, per quante forme ed immagini
d'uomini vi appariscano, non ne lascia distinguere alcuna.
Dietro questo
pensiero generale il poeta, parlando di ciò che vede, oppure conversando con la
Provvidenza, dipinge tutti i personaggi importanti de' quali ha notizia, ne
descrive i caratteri, racconta i fatti celebri, ne assegna le cagioni, mette in
mostra tutta la propria erudizione e tutto quanto egli sa di filosofia naturale
e morale e politica, e a quando a quando ne ricava precetti giovevoli alla vita
individuale ed al governo de' popoli.
Non fa d'uopo
d'occhiali per vedere nettamente che la lettura della Divina commedia di
Dante e de' Trionfi del Petrarca risparmiò alla fantasia di Giovanni de
Mena l'incomodo di creare il disegno del suo poema. E che altro fece egli, a
dir vero, se non che tener dietro alla immaginativa de' due italiani, cambiando
il luogo della scena in cui collocò il suo mondo allegorico? Ma Dante (per parlare
di lui solo), Dante, essendo un ingegno di gran tratto superiore al proprio
secolo, trovò in se stesso di che arricchire il suo tema di sentita e sublime
poesia, e spesso anche di splendida sapienza politica, di giusta morale civile.
E per lo contrario il De Mena, nato in tempi assai posteriori74, quando
per tutta Europa gli studi erano piú avviati, anziché dare a divedere nel suo
grottesco poema un complesso d'idee che vantaggiasse tutte quelle de' suoi
contemporanei, non parve adeguasse il sapere de' piú ingegnosi fra quelli.
Da qualunque
lato tu consideri la mente di Dante, trovi in essa ridotto a realtá l'ideale
del vero poeta. L'originalitá è un bisogno per lui: è l'esuberanza delle sue
forze intellettuali, che sempre gliela comanda. E fino in quei momenti, ne'
quali vorrebbe farsi credere imitatore d'altri poeti, egli smentisce col fatto
la propria asserzione. Il De Mena invece confessa co' fatti ciò che tace con le
parole.
Parrá forse a
taluni essere un rigore, che senta del crudele, il volere strascinare Giovanni
de Mena ad essere confrontato con Dante. - S'egli - diranno taluni - si fosse
sentito capace di stare, come il fiorentino, a capo del proprio secolo e di
padroneggiarlo; se fosse stato uomo da prevenire, come il fiorentino, con la
propria sapienza individuale, la civiltá a cui giunse in appresso quel popolo
per cui scriveva, egli non avrebbe, no, tolte ad imprestito da altri le
invenzioni fantastiche. Ma si può essere valente poeta anche senza pareggiar
Dante. Non da tutti poi si vuole pretendere ciò che troviamo negli intelletti
straordinari. - Sí, crediamo noi pure che si possa essere valente poeta anche
senza pareggiar Dante; ma crediamo altresí che il De Mena ne rimanesse tanto al
di sotto da non meritare nome di scrittore piú che mediocre.
Parlando di
mediocritá, due sorta ne riconosciamo: quella di coloro che, scevri da difetti
al tutto grossolani, mancano poi affatto di bellezze che non sieno dozzinali; e
quella del De Mena, il quale, quantunque alcuna rara volta brilli di qualche
venustá non comune, ridonda poi di gravissimi ed abituali errori e di
sciocchezze, che offuscano il merito delle rare sue fortune. Ora, è dettato
vecchio che la mediocritá non è mai condizione sopportabile nei poeti. E al
dettato vecchio noi aggiungeremo quest'altra proposizioncella, benché ella sia
per riuscire spiacevole a molti in Italia: è
incomportabile in un critico la tolleranza di componimenti mediocri. A
siffatta tolleranza ci gioverebbe davvero di potere essere pronti anche noi, da
ch'ella in certo modo acquieta tutte le coscienze e blandisce la vanagloria di
chicchessia. Ma col venerare i mediocri si viene avvezzando la gioventú ad una
facile contentatura ne' di lei studi, e quindi si perpetua dannosamente la
mediocritá. Se gl'italiani, a modo d'esempio, fossero meno corrivi ad esaltare
ogni minuzia poetica de' loro antenati, l'Italia non avrebbe tanti poeti quanti
sono i suoi scolarini, non avrebbe la vergogna de' suoi centomila sonetti; e
molti, che sciupano la vita canticchiando de' versi, vedremmo, forse con piú
profitto delle loro famiglie e della patria, trattar la tanaglia o 'l compasso.
La tolleranza è un dovere religioso, è una virtú sociale; ma in materie
poetiche non è comandata da nessuna filosofia.
Da che ci
guidano princípi cosí severi, è impossibile per noi il tributar gran lodi né al
De Mena, né a chiunque non regge al tocco della critica proclamata oggidí da un
capo all'altro d'Europa dalla crescente sagacitá de' filosofi. È acerba invero
per molti l'austeritá delle nuove leggi di cui ci facciamo propagatori; e il
cuor ce ne piange per un sentimento di compassione, tanto piú vivo in quanto
che ci bisognerá esercitarlo primamente verso di noi medesimi. Ma, d'altra
parte, quella austeritá raddoppia nell'animo nostro il giubbilo dell'ammirazione
per que' rarissimi intelletti, che meritano giustamente il nome di «poeti».
Or, per
lasciare le glose e star fermi lá donde vorrebbe distoglierci l'affluenza delle
idee affini (che il volgo degli innocenti chiama poi «disparate»), diremo che
nel Labirinto il lettore trova alcuni passi, i quali, se non rammentano
il pennello di Dante, lasciano pure in qualche maniera scorgere da che
pigliasse origine la stima esagerata di cui il De Mena gode tuttavia i
rimasugli presso la sua nazione. Tale è, per citarne uno, quel passo ov'è
descritta la morte del conte di Niebla, famoso eroe della Spagna, il quale,
mentremche tentava di togliere a' mori Gibilterra, mal pratico del flusso e
riflusso della marea e soverchiato dalle onde, sdegnò di pensare a se stesso e
di salvare se solo, poiché vedeva perire miseramente in quelle acque tutti i
propri compagni.
Un poema, che
raccontava i fatti piú memorandi della storia patria e che a quando a quando
era caldo della piú poetica delle passioni, il patriottismo, non è maraviglia
che venisse accolto da' contemporanei con quell'entusiasmo, che è eccitato
sempre dall'interesse e dall'onore nazionale in un popolo che non sia corrotto
od avvilito o dormente. E questa, piú che tutt'altra, è la cagione che anche
oggidí si parli del Labirinto come d'un fasto spagnuolo. Dall'apparire
di esso infino ai di presenti la Spagna, ad onta di alcune sue sventure
domestiche, ad onta della prepotenza d'altri Stati europei, non ha perduta mai
la sua libera esistenza politica. Però il sentimento della nazionalitá deve
render cara e gioconda a quel popolo ogni memoria che ad essa si riferisca,
ecc. ecc.
Qualunque,
per altro, fosse l'ingegno del De Mena, maggiore dignitá avrebbe egli derivato
ai suoi canti, maggiore rispetto si sarebbe conciliato, se, prendendo a narrare
le cose pubbliche de' suoi tempi, egli si fosse mantenuto in possesso della
indipendenza individuale, onde non far patto che con la veritá piú rigorosa,
unico patto che dia importanza alle lettere. Ma, vivendo cortigiano, egli
dovette far sacrifici alla fortuna, e non lasciò sfuggire occasioni per lodare
il re che lo pasceva. E Giovanni secondo, sebbene ingordo e non mai satollo di
lodi, era tale nondimeno da non potere esser lodato che dagli adulatori.
L'erudizione,
secondo la moda del secolo, venne a mischiarsi tanto con la poesia del De Mena,
ch'egli, somigliante in ciò al Santillana ed agli altri, intarsiava ogni
tratto, anche nelle canzoni amorose, allusioni e concetti eruditi; per modo
che, parlando della passione d'amore, pareva che non l'avesse sentita mai. Ed
aveva pur letto e riletto il Canzoniere del Petrarca!
Oltre il
Santillana e il De Mena, de' quali abbiamo diffusamente parlato; oltre il
Villena e gli altri, di cui abbiamo fatta piú sopra una semplice menzione, voglionsi
annoverare fra i verseggiatori piú notabili del secolo decimoquinto Gomez
Manrique, Giorgio Manrique di lui nipote, Garci Sanchez de Badajoz, Rodriguez
del Padron, Alonso de Cartagena, e quel tanto celebre pe' suoi amori, quel
Macias, il cui nome (aggiuntovi l'appellativo di «enamorado») passò poi
nella lingua come modo proverbiale per indicare il sommo della passione
amorosa.
A voler tener
dietro separatamente a' lavori di questi e de' molti loro compagni (ci
asteniamo dal darne qui la lista, che oltrepasserebbe i cento nomi), fa d'uopo
esser dotato di una pazienza letteraria che abbia dello straordinario. Sia che
scrivessero canti sacri («obras de devocion»), sia che dettassero canti
morali, oppur canzoni amorose, tutti tutti parevano modellati a una foggia
sola. Pigliando in mano il Cancionero general, ed anche il Romancero
general in quella parte che non contiene romanzi epici, si viene presto ad
accorgersi che vale per tutti un giudizio solo.
Questa
uniformitá in un tanto numero di scrittori deve riuscire piú interessante per
lo storico delle civilizzazioni, che non pel semplice cercatore de' piaceri che
l'animo umano domanda alle arti. Il primo trarrá da essa un argomento
sussidiario per istabilire con piú certezza qual fosse allora il carattere
generale della nazione spagnuola; e, non distratto dalla varia espressione de'
caratteri individuali de' poeti, godrá, leggendo i lor versi, di poter dire: -
Ecco dunque il modo universale di sentire a que' tempi, al di lá de' Pirenei. -
Il secondo, per lo contrario, patirá di noia innanzi a tanta monotonia.
Una
religiositá, consistente nella ostentata osservanza delle forme verbali piú che
in un intimo sentimento; un culto della morale, esercitato anch'esso non tanto
come bisogno dell'anima quanto come sfoggio di apparenze, e quindi spiegato
d'ordinario in arroganti declamazioni o precetti claustrali, in allegorie
derivate dalle gelide e vane definizioni teologiche di quell'etá; una
importanza attribuita a se stesso ed a' propri discorsi da ciascun individuo,
sí ch'egli non misura mai la sofferenza di chi l'ascolta, e non abbandona mai
il tema assunto se prima non ha esauriti tutti i modi di svolgerlo; un orgoglio
personale, associato quasi sempre alla passione dell'amore; e questa rade volte
produttrice di un'estasi dilicata, bensí, ogni tratto, di esagerazioni che
tengono della cosí detta maniera orientale, di rabbie, di disperazioni, di
pazzie; ed a giustificar la pazzia, a darle colore non discordante dalla
affettata gravitá nazionale, chiamate stranamente in soccorso le sottigliezze
degli scolastici, e sostituite spesso le formalitá della logica alle libere
emanazioni de' sentimenti del cuore; uno studio, insomma, di parer savi sempre
e, per cosí dire, in toga, anche allora che meno severe circostanze della vita
sembrano richiedere il mantelletto galante: questi, secondo l'opinione nostra,
sono i tratti piú evidenti che costituiscono la fisonomia generale de' poeti di
cui parliamo; e a noi non basterá mai l'animo d'impugnare la spada contra chi
dicesse ch'ella non è fisonomia simpatica molto.
Alcuni
storici della letteratura si congratulano col secolo decimoquinto, e fanno
festa perché verso la fine di esso la Spagna cominciò a coltivare la poesia
pastorale. Noi rispettiamo i gusti di chicchessia e, insieme agli altrui, un
pochetto anche i nostri. E però ci giova di non perderci in ammirazione dietro
a' primordi di un genere di poesia, al quale, con buona pace de' maestri di
lettere, non portiamo troppa benevolenza. Se fosse vera la ipotesi pittagorica
della metempsicosi, e se, per un capriccio matto di quella fortuna che si
compiace proprio negli estremi contrari, a noi toccasse di dovere un dí
rinascere su qualche trono della terra e coll'animo tutto tutto inclinato al
dispotismo; allora, tornandoci vani i tentativi per ispegnere affatto le
lettere, vorremmo industriarci almeno di porre in onore fra' nostri schiavi
quel tanto solo di esse che piú servisse ad addormentarli. E allora, allora sí,
la poesia pastorale verrebbe da noi protetta e promossa, siccome quella che,
per la sua immensa distanza dal vero della vita e per la sua languida efficacia
morale, ci farebbe meno paura d'ogni altra. Intanto, giacché, fuor d'ipotesi,
siamo cittadini privati, non amiamo, né per noi né pel nostro prossimo, la
diffusione de' narcotici.
E che v'ha
dunque ne' versi castigliani del secolo decimoquinto, che possa rimunerare in
qualche maniera la cortesia di chi profonde ora il tempo nel leggerli?
Primieramente vale anche per quest'epoca ciò che abbiamo detto nell'articolo primo
intorno a' romanzi epici d'autori sconosciuti di nome, giacché anche in
quest'epoca si proseguí a scriverne. Anzi ad essa crediamo appartengano per la
piú parte quelli di avventure ricavate dalla storia moresca, e specialmente
degli odii delle due fazioni de' Zegris e degli Abencerrages, dalle ultime
sciagure del regno di Granata, superato poi e vinto dalle armi di Ferdinando e
di Isabella nel 1492. Chiunque ha un cuore spontaneamente aperto alle
impressioni poetiche, chiunque è educato da una critica liberale e non
angustiata dagli scrupoli de' pedanti, trova nel Romancero general di
che contentar di frequente il bisogno estetico dell'anima sua. In que' romanzi
lo spirito arabo-ispano si manifesta nella sua originalitá; e la calda
spiegazione di sentimenti veri ed originali abbonda sempre di poesia. In
secondo luogo non è da negarsi che anche ne' componimenti de' poeti conosciuti
per nome, e ricordati in parte, e censurati in generale qui sopra, rinvengonsi
qua e lá pensieri ingegnosi, immagini opportune e tracce talvolta d'una
rigogliosa freschezza di fantasia, che ne ristorano qualche poco della
loquacitá erudita e della frequenza del concettizzare puerile: sono come le oasis
incontrate dalla sitibonda carovana nel deserto. Una passione sentita davvero
non può resistere poi sempre a palesarsi ne' modi comandati da abitudini
assurde, tuttoché universali. E però in alcuni squarci, come a dire delle
quattro canzoni del Macias, l'amore irrompe fuor de' soliti vincoli e dá
qualche segno verace e bello della propria esistenza.
L'amore e il
Macias sono due parole che ne suscitano nell'anima una memoria di malinconia e
di pianto. Il Macias era gentiluomo di camera del gran maestro don Enrico de
Villena. S'innamorò d'una delle dame che servivano in palazzo del gran maestro;
e, a sviargli quella passione, non gli valse il vedere la donna amata sposarsi
ad un altro, non valsero le riprensioni del Villena, non i gastighi e la
prigionia a cui questi lo condannò. Al marito della donna non era ignoto anche
prima delle nozze quell'amore, e in lui la gelosia era precorsa al sacramento.
Vile! Egli si concertò col carceriere; e, venuto alla torre in cui gemeva
custodito il suo rivale, trovò modo di scagliargli contro, da una finestra, la
propria lancia. Il colpo fu assestato con tale gagliardia, che traforò il
Macias da parte a parte. Quel meschino stava allora appunto cantando una
canzone da lui composta per la donna del suo cuore, e spirò col nome di lei
sulle labbra.
Grisostomo.
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