XXVI
ALL'ONOREVOLE
PRESIDENTE
del collegio elettorale di Monticelli
D'ongina
Il suffragio,
per me inopinato, del quale hanno voluto onorarmi gli elettori di codesto
collegio, meritava da parte mia una piú pronta espressione della gratitudine,
che ne sento vivissima. Ma la notizia di esso mi pervenne tardi in questo
ritiro campestre, e, dirò il vero, non creduta quasi sulle prime. Ciò mi scusi
presso di lei, egregio signore, e presso de' benevoli miei elettori, a' quali
la prego di volere Ella essere interprete de' miei ringraziamenti. Questi,
comunque pienissimi, non possono pareggiare la grandezza di un favore tanto
spontaneo. e ch'io sentirei di non meritarmi, se dovessi por mente soltanto
alla picciolezza mia individuale. Ma il voto di codesti elettori io lo ravviso
piuttosto come un omaggio voluto rendere a de' princípi; e di questo mi trovo
lieto, e direi quasi superbo e consolato.
Sí, egregio
signor presidente, io sono convinto che gli elettori di Monticelli, nel nominar
me, lombardo, a deputato alla Camera, non hanno voluto fare altro che
protestare della ferma adesione loro al principio d'unione che stringe i popoli
dell'alta Italia in un popolo solo, guardiano e difensore guerriero de' confini
dell'intera nazione: principio, questo, che è sempre stato il desiderio de'
miei tanti anni d'esilio, perché tenuto da me sempre come il fondamento
imprescindibile di quella libertá e di quella indipendenza che tutti vogliamo
quanti siamo popoli di quest'Italia. Che se io, sinceramente zelatore ostinato
di libertá, sono altrettanto nemico della licenza e della anarchia, non penso
che i miei elettori di scordassero da me ne' sentimenti, allorquando deponevano
nell'urna il nome mio. I tempi sono difficili; e, nell'assumere io l'onorevole
incarico di rappresentante del popolo, sento quanto poveramente potrò
sostenerne la dignitá. Solo mi affida alquanto il buon volere in me, e piú
assai il buon volere negli elettori, se vogliano assistermi de' loro consigli.
Sí, davvero,
i tempi sono difficili; e tanto piú lo sono, in quanto che le moltitudini
lasciano gavazzare a tutta lor posta gli scompigliatori d'ogni concordia, i
suscitatori d'improntitudini, e se ne stanno esse oziose colle mani sotto le
ascelle: come se la sopravvegnente anarchia non fosse per essere la rovina loro
universale, la rovina di ogni bene morale e materiale, la rovina di tutto
quanto esse hanno sperato nei lunghi secoli della servitú; come se tutto questo
scombuglio non fosse per tornar profittevole all'Austria, che lo fomenta ella
stessa per mezzo de' molti suoi segreti emissari, travestiti da demagoghi e
mascherati da sicofanti.
Per poco che
dovesse durare ancora questa sfiduciata indifferenza delle moltitudini; per
poco che la valorosa saviezza dell'esercito fosse di soppiatto avvelenata
ancora da perfide suggestioni, che insegnano l'indisciplina e l'inobbedienza;
per poco che la caritá della patria proseguisse ancora a trasformarsi in
invidie personali, e la veritá dei fatti continuasse a non ottener fede, e
tutta la fede invece la si desse sfrontatamente ancora ai sogni della fantasia:
io non so a che buon fine potrebbe mai capitare questo tanto vantato
risorgimento d'Italia.
Ma io ho
fede, e fede viva, nel buon senso delle in apparenza neghittose popolazioni. E
del loro risvegliarsi mi dá giá qualche sentore un grido spontaneo, levatosi,
son pochi giorni, in una delle piú colte cittá d'Italia, il grido: - Vogliamo i
galantuomini! vogliamo i galantuomini! - grido, che rammenta l'antica saviezza,
l'antica onestá popolana. Se un altro grido bisognasse a qualche altra cittá,
davvero mi farei lecito di proporre questi: - Non vogliamo licenza! non
vogliamo anarchia! - Perché davvero libertá non può essere dove non sia amor
dell'ordine, dove non sia religioso rispetto alle leggi ed alle istituzioni che
ci reggono. Attenendoci di buona voglia a queste, in queste lealmente
confidando, di queste alacremente giovandoci, traendone tutte le conseguenze,
ci salveremo, io spero, trionfanti, dai nemici interni; la guerra, che per
avventura ci sovrasta contro lo straniero, noi la potremo imprendere sicuri
della vittoria; e la libertá, che noi vogliamo con tutto il cuor nostro, noi la
consolideremo e la consegneremo pura, splendida, ampliata ai figli nostri.
Ma, se
lasciamo che la licenza cresca, che non governi chi ha da governare, che non
obbedisca chi ha da obbedire, che l'impazienza tenga luogo della prudenza, e
voglia conseguire in un giorno solo tutto quello che a maturare vuol tempo e
tempo, io non veggo in fondo al futuro che un fantasma esosissimo. Non voglio
dirne il nome, perché troppo mi suona orrendo: cerchinlo i miei elettori nella
storia del passato, sia in Italia, sia fuori; lo troveranno dopo qualunque
periodo di discordia e disordine sociale.
La prego,
egregio signor presidente, di perdonarmi, se mi sono lasciato andare ad aprire
un pochino l'animo mio con lei e, per di lei mezzo, coi miei elettori; ai quali
vorrei pure di qualche maniera esser noto, anche prima che la fortuna mi dia di
visitarli e ringraziarli in persona.
Mi giovo
intanto di questa occasione per presentare a lei, egregio signore, le
assicurazioni rispettose della mia stima.
Di Pegli, 24
ottobre 1848.
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